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Una notte bizzarra

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Una notte bizzarra
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Anton Giulio Barrili

Una notte bizzarra


La è proprio una inezia, frutto di tre giorni di lavoro, che intitolo a te, giovine amico e compagno d'armi; ma sappi che fu un gaio lavoro campestre, e lavoro gaio riesce facile, e val meglio assai che sudato, ma uggioso.




Nè paia fuor del naturale a te, nè ai lettori cortesi, che i personaggi della mia novella s'innamorino in una notte. Anco a non volerne cercar la ragione, la scusa, nella novità de' casi narrati, io so che la cosa non è poi tanto difficile, io che ti ho per la prima volta veduto, ed amato come fratello, in un giorno. Tu dirai che, anche là, era quistione d'urgenza, imperocchè chi poteva morire il giorno di poi non avea tempo da perdere. Or dunque, concediamo la parte loro agli eventi, e non se ne parli più, se non per ricordare che l'amicizia, nata e cresciuta in un giorno, ha da fortificarsi in tutti que' molti, o pochi, che ci comporranno la trama della vita.



Di Genova, il 19 di Luglio del 1868.




ANTON GIULIO BARRILI.



I

Era la notte dal 12 al 13 di gennaio 1857, e per la via Assarotti, a Genova, soffiava un vento come suole soffiare in quest'ampia via, quando Eolo scatena uno de' suoi sudditi sulla regina del Tirreno.



È tramontana? è scirocco? è libeccio? Non ne sapete nulla. Esce, non si sa da dove, e v'investe da tutte le parti. Guai allo scribacchino municipale che si lascia cogliere ad occhi aperti, perchè risica di andare a palazzo Tursi colla polvere negli occhi, di non veder più lo scrittoio e di dover chiedere una licenza di ventiquattr'ore, che il capo uffizio non è sempre disposto a concedere! Guai alla signora, che non sta attenta a raccogliersi la veste dattorno, perchè il vento è curioso di segreti e, quel che è peggio, ama troppo di propalarli ai viandanti.



Ma perchè sto io a discorrervi del vento? La storia che vi racconto non occorre in mezzo alla strada, ma in un elegante quartierino al terzo piano del secondo palazzo a sinistra.



Abita colassù, cioè, dico male, abitava nel gennaio 1857 il protagonista del mio racconto, uomo sui trentaquattro, laureato in leggi, scapolo, non brutto, nè antipatico, e con ventimila lire d'entrata.



Trentaquattro anni son forse troppi; la laurea in leggi non è nulla; ma l'essere scapolo, non brutto nè antipatico, e l'avere ventimila lire d'entrata, è già molto per esser felici, quando si abbiano desiderii modesti.



Pure, Roberto Fenoglio non era felice; si annoiava da mattina a sera, da sera a mattina. Aveva buoni e gioviali amici, ai quali imprestava spesso del denaro, e che qualche volta glielo restituivano; una vecchia governante che non gli dava molestia; un cuoco che non lo derubava; un cavallo proverbiale per la dolcezza del suo trotto; uno scanno a teatro senza noiosi vicini; e tuttavia non era felice, e si annoiava maledettamente.



Aveva provato a fare qualcosa, ad occuparsi; ma nessuna occupazione gli andava a' versi, e a breve andare se n'era stancato. Ma queste cose le mie belle lettrici le udranno dalla sua bocca, imperocchè io lo presento loro nel primo salotto del suo quartierino, alle tre dopo mezzanotte, vestito da cinese, in atto di congedare uno sciame di giovinotti e di allegre mascherine.



Perchè vestito da cinese? perchè quelle mascherine?



Roberto Fenoglio aveva raccolto in casa sua quella sera tutti i suoi amici, tanto per passar la noia in compagnia. S'era suonato, ballato e cenato, colla massima libertà ed allegrezza. Le dame non erano severe, nè contegnose. Il rispettabile corpo di ballo del teatro Carlo Felice aveva dato il suo meglio a quella festa; le mammine erano sazie e contente; le silfidi, contente e non sazie, domandavano un'altra festa come quella che Roberto Fenoglio aveva dato loro, con tanta splendidezza di mandarino annoiato.



Le allegre mascherine se ne andavano, accompagnate dai fidi cavalieri, ben chiuse nei loro accappatoi, per custodirsi dal vento, che si udia zufolare di fuori; se ne andavano giù per le scale, ridendo e cinguettando come uno stuolo di passere, o di cingallegre, e destando tutto il pacifico vicinato.



Il tranquillo berretto di cotone si rizzava commosso dalla rimboccatura del letto matrimoniale, e chiedeva:



– Che cos'è quest'allegro rumore? Ah, capisco; si balla dall'avvocato



Fenoglio.



E un sospiro mal represso chiudeva la frase. E lì, una cuffia lavorata all'uncinetto si rizzava a sua volta, per soggiungere:



– Ma come fa l'avvocato Fenoglio a dar delle feste da ballo, egli che non è ammogliato? Quali signore possono andare in casa sua?



Domanda, questa, a cui il berretto di cotone non rispondeva, e si voltava dall'altro lato, tirandosi la rimboccatura del lenzuolo fin sopra il becchetto.



La cuffia intanto pensava, pensava… che cosa pensava? forse, che il berretto di cotone non era la più bella cosa del mondo. E il berretto di cotone, dal canto suo, fantasticava una serie di variazioni su questo tema: «beato Fenoglio! egli l'ha indovinata davvero!»



Lasciamo pensare, fantasticare e riaddormentarsi da capo questi due malinconici simboli dell'Imeneo, e torniamo al nostro protagonista, che, ritto nel salotto, si volgeva a Felice Magnasco, ultimo rimasto de' suoi convitati, per dirgli, con piglio di burlesca cerimonia cinese:



– 

A-ing-fo-hi

!



Felice Magnasco, un giovinotto elegante ed attillato, come ogni figlio d'Adamo che usi farsi vestire (o spogliare) da un sarto di grido, diede una crollata di spalle, che fece far due grinze al suo abito nero, e rispose:



– Orvia! Gli è così che tu accomiati il tuo amico migliore?



– Sto in carattere, – soggiunse Fenoglio. – Non ti pare che io sia un bel mandarino cinese?



– Al diavolo la Cina! – proruppe l'altro, – io preferisco la tua cena.



– Oh bello, bello, stupendo! Ripetilo, Felice, te ne prego.



– Che cosa?



– Il tuo bisticcio. Sai che amo i bisticci, come tu le bistecche… Ah, ah! che te ne pare del mio? Gli è un po' stiracchiato, come le mie braccia, tutta questa sera, per effetto della noia.



– Tu sei dunque annoiato?



– Sì, Felicino, pur troppo; il figlio della luna, il cugino del sole, s'è maledettamente annoiato.



– Male! io mi son divertito. È vero che le spese non le ho fatte io, e piacere che non sente il rame è pretto piacere. Che ottima cena! Viva te, Roberto primo ed unico della tua dinastia! Viva il tuo vino, i tuoi tartufi! e le tue

bajadere

. Che vispe ragazze! Oh non sai tu, che, se non era il pensiero della mia bella cugina, io questa sera ne sposavo una, senza tanti preamboli?



– Ti ringrazio per lei della tua buona intenzione, – rispose, spalancando le fauci e tendendo le braccia, il buon mandarino, – e ti ringrazio per me, se non sei costretto a sbadigliare, come io faccio in questo punto per la millesima volta.



– Ma che diamine ti saltò in mente di vestirti a quel modo e di costringerti a non metter fuori che cinque o sei monosillabi?



– Compatiscimi, Felicino! Ho pensato che, essendo i cinesi il popolo più cerimonioso del mondo, io, come cerimoniere di casa mia, non potevo fare a meno di vestirmi da mandarino. Ora tu m'hai veduto ed udito; non ho fatto altro che dire

A-ing-fo-hi

, che in cinese, io credo, significa: son molto lieto di vedervi.



– E i tuoi convitati, – soggiunse ridendo Felice, – ti hanno trovato compitissimo. —



Roberto Fenoglio si lasciò cadere con aria stanca sul canapè.



– Tu mi consoli, amico! – diss'egli, dopo un lungo sospiro. – Morrò almeno contento dell'altrui contentezza.



– Che diamine dici? Sei tu pazzo ora?



– No, parlo da senno e del miglior ch'io m'abbia. Sentimi, Felice; io non posso più tirare innanzi questa monotona vita. Io non faccio un passo senza che il piede medesimo si annoi d'esser mosso.



– Ecco una variante del

Malade imaginaire

! – esclamò Felice, in quella che andava a sedersi comodamente in una poltrona, di rincontro a Roberto Fenoglio.



Questi non badò all'atto di Felice, intento com'era a rispondergli.



– Ah sì, in tal guisa parlano i sani agli infermi. Anch'io, al capezzale di un tisico, gli ho detto un giorno: ma che diamine parlate voi di morire? Avete le guancie colorite come una mela. E dieci giorni dopo era morto.



– Dilla su dunque una volta, questa tua malattia, ed io farò di trovarti un buon medico.



– Ah ci vuol altro che un medico! La scienza non conosce il mio male, non lo ha classificato ancora ne' suoi libri; ma esso esiste, esso è là dentro.



– Dove?



– In quell'orologio a pendolo. Esso ne è il simbolo parlante, esso il complice infame. Non odi? tran… tran… tran… Maledetto! È lui che ci misura la vita e ce la fa mandar giù in ventiquattro pillole al giorno; è lui l'omeopatico che ci tiene a bada con sessantesimi d'ora, con sessantesimi di minuto, e ci fa morire con dosi infinitesime; è lui… Insomma, che ti dirò? Io odio gli orologi. Giovinetto ancora, io già presentivo la guerra che m'avrebbero mossa questi nemici dell'umanità, e mi vendicavo, anticipatamente, mandandoli, l'un dopo l'altro, al Monte di pietà. Adesso, si è uomini sodi, padroni di sè e delle sue ventimila lire d'entrata, e queste vendette bisogna lasciarle in disparte. Ma io troverò pure uno spediente; metterò, non foss'altro, un premio di mille lire per colui che scriverà un libro contro gli orologi, da camera e da tasca, pendoli, cronometri, ripetizioni, cilindri, saponette, áncore, castelli, ecc., ecc., e proverà che il loro inventore è stato un cattivo arnese… un briccone. —



In quella che l'avvocato Fenoglio tirava giù con burlesca gravità contro i poveri orologi, Felice aveva cavato il suo dalla tasca del pianciotto e ne faceva scattare il coperchio d'oro.



– O il tuo va male, o il mio; – disse egli. – Son già le tre e mezzo del mattino, e debbo ancora chiederti un servizio innanzi di andarmene. —

 



Ma Fenoglio non gli dava retta; aveva veduto l'oriuolo di Felice e volea rompergli una lancia addosso.



– Ah,

tu quoque, Brute

? E tu sei un uomo che si diverte? col nemico in saccoccia?



– Che vuoi? è la consuetudine. E poi, non si è mica schiavi del proprio orologio! Il mio, come quello di tutti i figli di Adamo, va bene una volta all'anno. Io lo consulto per passatempo; egli fa a modo suo, io al mio, e andiamo d'accordo come marito e moglie. Ma tu, piuttosto, perchè non rompi il tuo, e non te lo levi dai piedi?



– Bravo! e la gente di servizio? Esso è in casa un arnese necessario, fatale, come la noia per me; il suo

tran tran

 ha dato la misura al tran tran della mia esistenza. Rompessi anche il pendolo, la mia vita monotona suonerebbe, io credo, le ore e i quarti d'ora in vece sua. Oh Felice, felice te che non ti annoi!



– E non mi avverrà mai fin ch'io viva: – rispose Magnasco; – io ho per cotesto un segreto infallibile.



– Dove si vende? ch'io vo subito a comperarlo, senza nemmanco levarmi questa zimarra di dosso…



– Oh, non tanta furia! Tu non hai bisogno di andare dallo speziale per questo. Fa a modo mio; abbandonati all'ignoto. Non chiedere mai a te stesso: «che cosa debbo io fare quest'oggi, per passar mattana?» Vedi, Fenoglio; io non mi sono mai così divertito, come un giorno che uscii di casa nell'intento di annoiarmi. Lascia operare il caso. Passi per una strada? Non isvoltare alla solita cantonata; va innanzi. Là troverai