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Lutezia

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I

La ragione del viaggio. – Un'occhiata a Torino. – Savoia e Borgogna. – Il deserto – Idea luminosa. – Parigi di sera. – Sul marciapiede. – Arabi apocrifi e francesi autentici. – La storia del nastro. – Scaccini e accattoni. – Tolleranza parigina.

Parigi, 15 settembre 1878.

Se d'ogni cosa che si è fatta, o si sta per fare fosse costume di cercar le ragioni, si troverebbe alla stretta dei conti che queste ragioni si restringono a poche, e non tutte sufficienti, come le voleva il Rosmini. Io, per esempio, son venuto a Parigi senza un vero perchè, senza un bricciolo d'interesse, o la scusa di una grande curiosità, solamente per fare come tutto il mondo, in questi tempi d'esposizione universale. Ed eccomi qui, con mezzo mondo alle costole. L'altra metà c'è' già stata, povera lei, con un caldo assaettato, mentre io ci son giunto e ci sto con un fresco che innamora. Appartengo alla gran metà dei soddisfatti, non c'è che dire.

Il mio viaggio può essere il viaggio di tutti, perciò le descrizioni tornerebbero superflue; ciò nondimeno, permettetemi di buttarvi giù quattro righe di storia. Ho passato un giorno a Torino, col rammarico di non poterci rimanere più a lungo. La vecchia capitale del regno si è grandemente abbellita; è florida, operosa e popolata più che mai. Esempio ed insegnamento notevole di una città che pareva condannata alla decadenza, e che ha trovato in sè stessa, nel suo coraggio, nella sua volontà, le forze riparatrici, non sempre facili ad attingersi dalle ricette degli Esculapii ufficiali.

Della galleria del Cenisio ho poco o nulla da dirvi. L'ho dormita tutta quanta, e mi è parsa poca. Mi sono risvegliato in Francia, al suono di un «vos billets, messieurs» profferito allo sportello, da un conduttore gallonato d'oro. Ho visto il gendarme, in luogo del mio prediletto carabiniere; mi han fatto scendere dalla carrozza e traversare il binario; mi han chiuso in una corsia, nel cui punto più stretto un gendarme aggradiva i nostri biglietti di visita e ne faceva raccolta, a mano a mano che gli sfilavamo davanti, o, per dire più esattamente, sul petto; mi hanno trattenuto un'ora nella stia, con una moltitudine di altri infelici, senza darmi neanche licenza di uscire per un minuto all'aperto; e tutto ciò alla gloria de l'administration, de la régularité, des exigences du service. In nome e alla gloria di queste cose, qui si sopporta anche di peggio. In Italia si eserciterebbe la pazienza con qualche dozzina di giaculatorie, non registrate nella Via del Paradiso, nè in altro libro di preghiere alla mano.

Rammento, per debito di giustizia, che a Modane, come in ogni altra stazione ferroviaria, od anche ufficio pubblico di Francia e Navarra, la rigidità della consegna, l'austerità del regolamento, sono temperate dalla gentilezza dei modi. Toccate la molla del «s'il vous plaît, monsieur» e quella del «veuillez avoir la bonté» e fate tutto quel che volete del conduttore, del guardiano, del gendarme, del sergente, del brigadiere, e perfino (almeno, c'è chi lo assicura) perfino del maresciallo.

In grazia dei «monsieur» serviti a tutto pasto e con ogni razza di gallonati, ho potuto uscir primo dalla gabbia, trovare il meno peggio dei posti nel treno francese, e schiacciarmi un altro sonnellino attraverso la Savoia. Nella stazione di Ambérieu, dove giungemmo a giorno chiaro, ho bevuto un latte, che meriterebbe il viaggio da solo. Il paese tutto intorno è bellissimo, colle sue balze che torreggiano impervie come rocche ariostesche, i suoi villaggi mezzo nascosti tra i pioppi, e il Rodano pur mo' nato che gorgoglia (quasi sarei per dire che balbetta) sul greto bianchiccio della vallata.

Che dirvi della Borgogna, attraversata nel giorno, con uno splendido sole? È la campagna meglio pettinata del mondo. I prati, i vigneti, i campi di grano turco, i casolari, i castelli signorili, ogni cosa è lisciata, cincischiata, fatta a pennello; ma badate, a pennello di scuola antica, e non già con certe spazzole da denti che so io, e che voi non ignorate di certo.

Questi prodigi d'agricoltura non vi occorrono mica nel più fertile dei terreni possibili. La campagna, dove è nuda, si mostra sassosa e gessosa, che è una disperazione a vederla. Ma ogni poggio, ogni falda, ogni piano, ha la sua coltivazione più acconcia; l'azoto vi si ficca in abbondanza e sotto tutte le forme più dottamente putride; i corsi d'acqua, numerosi e ben distribuiti, vi dànno de' pascoli così verdi, così ricchi, così appetitosi, da farvi qualche volta desiderare d'esser nato bue veramente, per contribuire, nella calma di una onesta ruminazione, all'incremento, alla prosperità di questo suolo benedetto. Quante volte e per quanti guastamestieri di cui è pieno il mondo, non sarebbe meglio che la natural selection avesse portato un tal giro nella scala degli esseri?

Il pensiero dei cinque miliardi e la dimostrazione sott'occhi del modo in cui poterono esser pagati ai Prussiani senza danno del paese, si alternano nella mia testa con le belle vedute di Macon e di Digione, e con lo spettacolo dei contadini che maneggiano la vanga qua e là, ritti sulla persona alla maniera toscana, quasi eleganti in vista, con la loro camicia bianca, la fascia di lana intorno alla vita e il cappello di paglia sulla testa. La via è lunga; ma, come vedete, non è punto noiosa.

Parigi si annunzia come Roma, con un vasto deserto. Ma questo di Parigi non è desolato come l'agro romano. Scarseggiano i paesi; si vedono a tratti poche case disseminate nel verde: ma la strada ferrata corre in mezzo a vigne, orti, semenzai e frutteti. Ho notato per un cinquanta chilometri di questa coltivazione intensiva.

Partito da Torino alle otto e cinquanta di sera giunsi a passar la Senna, sopra Parigi, dopo le cinque pomeridiane del giorno seguente. Alle sei, o giù di lì, per un ritardo reso necessario dalla affluenza dei treni, smontavo alla stazione di Bercy, o di Lione, se vi piace meglio. Novità inaudita; non un omnibus d'albergo ad aspettare i forastieri, poche carrozzelle, e tutte colla scritta «louée» su d'una banderuola piantata a cassetta, sulla sinistra del cocchiere. Ma non invano si è nati nella patria dei grandi scopritori. Scendo una scala, che mi mette sul boulevard de Mazas; m'imbatto in un piccolo Gavroche, che vuol portarmi la sacca da viaggio per venti centesimi; resisto e gli prometto una lira, se gli dà l'animo di trovarmi un fiacre. Il biricchino stacca un passo di corsa da disgradarne un bersagliere, e dieci minuti dopo, mentre vicino a me, su di un rialto isolato che fa cerchio intorno ad un lampione, quattordici o quindici viaggiatori appiedati rappresentano la scena dei superstiti della Medusa, io ci ho il mio fiacre, col Gavroche trionfante a cassetta. Non invito nessuno a tenermi compagnia; non torno indietro a cercare il bagaglio; infilo Parigi alla corsa.

Parigi è una città… Ma, adagio; debbo proprio descriverla? Smontiamo prima all'albergo, che è abbastanza lontano dalla stazione; intavoliamo coll'albergatore i negoziati preliminari d'ogni trattato; diamo ad un cameriere il biglietto e la chiave del baule, perchè possa andare a ritirare il bagaglio dimenticato; scendiamo, cerchiamo il primo passage, o galleria, che ci metta in comunicazione colla grande arteria parigina; ed eccoci finalmente sul boulevard, anzi proprio su quello famoso des Italiens, che abbiamo intraveduto un po' tutti, all'età di quindici anni, nelle pagine d'un romanzo francese, tradotto da un Enrico Tettoni, o da un Gaetano Barbieri.

Parigi, per la prima volta, vuol esser veduta sui boulevards e di sera. Immaginate una via, non affatto rettilinea, larga una quarantina di metri, con due marciapiedi, ognuno dei quali occupa un quarto di questa misura, avendo sui margini dei grandi platani malati d'insonnia, frammezzati da chioschi di ferro, con pareti di carta, e un lume dentro, che ve li fa trasparenti, permettendovi di leggere un subisso di annunzi. Uno di questi chioschi non annunzia che spettacoli teatrali, ed è tutto chiuso, come una colonna traiana. Un altro serve di bottega ad un venditor di giornali; un altro ancora, circondato d'un chiuso di ferro, alto forse due metri, nasconde nei fianchi quattro o cinque settori, dove un uomo può stare benissimo in piedi, dando le spalle al prossimo. Ne m'en demandez pas davantage. Accanto ad alcuni di questi chioschi, è una chiave d'ottone con una secchia. I cocchieri aprono la chiave e riempiono la secchia, per abbeverare i cavalli, quando fanno sosta sui margini della strada. I casamenti sterminati, che corrono lungo la via, bucherellati di finestre, gremiti d'insegne, scintillanti di fiammelle di gasse, non formano a pian terreno che un solo caffè, una sola trattoria. Metà del marciapiede è invasa da sedie e deschetti di zinco. Le persone sedute, che mangiano e bevono, sono per lo meno in numero uguale a quelle che guardano e passano. Il gasse, come vi ho detto, è gittato a profusione; della luce elettrica in alcuni punti si fa spreco; per esempio nel crocicchio e nella piazza attigua dell'Opera, dove vi par d'essere nel giardino di Margherita, quando sta per finire il terz'atto del Faust. Qui, per altro, le Margherite passeggiano a migliaia tra la folla, riconoscibili dall'andar sole, perchè, come dice il libretto, «non hanno d'uopo ancor – del braccio d'un signor

M'avvedo d'aver rimpicciolito, col paragone d'un giardino, l'aspetto di Parigi notturna. Era un sacrificio fatto alla luce elettrica e al suo carattere teatrale. Parigi non può essere paragonata degnamente che a Babilonia, alla Babilonia del convito di Baldassarre, che abbiamo veduta nelle incisioni del Martin, o di Gustavo Doré. Quella gran luce fa biancheggiare nel fondo le isole gigantesche dei fabbricati. Gli alberi rompono un tratto quella gran mano di bianco; ma sotto gli alberi, la luce dei chioschi, dei caffè, delle botteghe, sforacchia per mille versi la frappa. Poveri alberi, quando dormono? E quando cessa questo viavai di gente, e questo affollarsi di vetture, di omnibus e di tramways?

 

La moltitudine che si pigia sui marciapiedi è in gran parte di forastieri. La nota dominante è spagnuola; segue l'italiana, con una certa sovrabbondanza d'elemento veneto. Inglesi pochi; tedeschi pochissimi; americani così così; qua e là qualche algerino col turbante, e un'aria di Beni-Mouffetard che consola. Sapete che cosa sono i Beni-Mouffetard? Alessandro Dumas ha raccontato in uno dei suoi mille volumi l'origine di questo nome, appioppato agli Arabi apocrifi, nati nella via Mouffetard, che è, od era, tra le più centrali, tra le più parigine di Parigi. Anche i francesi autentici si conoscono facilmente. La più parte hanno il nastro rosso all'occhiello. Si può credere che tutti i decorati della Legion d'Onore si siano dati la posta a Parigi, per fare una esposizione dell'Ordine.

Dicono molti che il nastro sia necessario qui, per essere trattati con qualche riguardo. Parecchi italiani accettano il consiglio e mettono fuori il nastro verde, o bianco e vermiglio, o tutt'e due di costa. Io credo che non ce ne sia proprio bisogno. Ho anzi sperimentato che il mio scudo e il mio marengo hanno un valore uguale a quello di tanti cavalieri visibili, e che un «pardon» e un «s'il vous plaît» ottengono sempre ogni cosa da questo popolo gentile, anche quando questo popolo s'accorge che siete italiano e ricorda di vedervi volentieri come il fumo negli occhi.

Intorno a questo sarebbe necessaria una parentesi; ma la farò un'altra volta. Vi basti sapere che il francese è pieno di amabilità con tutti e che non occorre di mettere il ruban, salvo che lo si faccia per cavarsi la voglia. Nel qual caso, nessuno ride, come si riderebbe in Italia. Il ruban è la cosa più naturale del mondo e se ne fa qui un grande consumo, come da noi di prezzemolo. Perfino gli alabardieri delle chiese principali sono cavalieri della Legion d'Onore. Andate alla Trinità, come ci sono andato io, per veder tutto, e potrete ammirare un bel pezzo d'uomo, giovane ancora, con la mazza dal pomo d'argento, portare in processione per la chiesa la sua brava decorazione, mentre dietro lui, un prete sagrestano va attorno a raccattare i soldi dei divoti, durante l'elevazione dell'ostia.

A proposito di chiese, noto il particolare abbastanza curioso, ma per contro non abbastanza bello, che, per farvi vedere una cripta, una sagrestia, od anche semplicemente il coro, i preti vi sottopongono ad una tassa di cinquanta centesimi. Anche in questo caso c'è il vecchio sergente giubilato, avanzo glorioso di Magenta e di Solferino, che si adatta all'ufficio di guardia del tempio, per mostrarvi le ceneri di santa Genovieffa, o la tomba del signor di Voltaire. Questi due santi sono uguali, davanti ai cinquanta centesimi; purchè ve li piglino, i custodi del santuario non abbadano al modo. Noi, nelle nostre chiese, ci abbiamo la piaga del cicerone; ma questo si può mandarlo al diavolo come e quando si vuole, e i signori forastieri non si fanno pregare, per appigliarsi a questo espediente. Qui c'è la tassa di veduta, e non c'è modo di salvarsi, bisogna pagarla. A Nôtre Dame accade anche peggio; la porta laterale, unica aperta, strettita a bella posta, è occupata militarmente da venditori di coroncine, da mendicanti ufficiali colla piastra d'ottone, da monache le quali vi chiedono la carità pour leurs pauvres, da sagrestani che ve la chiedono pour l'obole de saint Pierre, e finalmente da un personaggio ambiguo, che intinge un pennello nella pila dell'acqua santa e ve lo mette gentilmente sotto il naso, perchè con una mano possiate dare al segno della croce la quantità d'umido che è necessaria a quest'atto, e con l'altra abbiate occasione di fargli aggradire un paio di soldi. Tutto ciò riesce molesto agli uni, offende il sentimento religioso degli altri. Io, per me, preferisco la beghinella romana, che vi s'accosta vergognosa alla svolta d'una colonna, e vi dice a bassa voce: «signore, la carità; sono una povera madre disgraziata.» Non mi parlino più con tanta sicumera dell'accattonaggio italiano; li ho visti alla prova, e mi tengo cari i miei cenci.

Del resto e dopo tutto, un popolo curioso e grazioso. C'è qui la buona grazia di chi vive allo stretto, e la tolleranza di chi può svoltare la cantonata e trovarsi subito al largo. Pazzie ed atti ragionevoli, virtù e vizi, qualità e difetti, mettono qui ogni cosa in comune, dandosi a vicenda del gomito e dicendosi «pardon.» C'è del buono, vi dico io, c'è del buono. Impariamo.

II

Il cervello del mondo. – Caso e necessità politica. – Una fioritura colossale – L'article de Paris– La virtù del cartellone. – La caccia al compratore. – Gli occhi della padrona. – La scala dei prezzi. – L'arte di pelare un pollo senza farlo stridere.

Che cosa sia questa città lo sanno tutti, anche senza averla veduta. Della sua importanza molti si fanno un concetto più grande del vero, e tra costoro ce ne sono parecchi che l'hanno veduta e ci vivono. Non è forse Vittor Hugo che l'ha battezzata di suo capo «il cervello del mondo?»

Essa non è altro, in verità, che il cervello della Francia e ci si vede il frutto di quattro secoli d'accentramento, tirannico dapprima, indi spontaneo, per forza di consuetudine. Oggi i re e gli imperatori sono spariti; ma tant'è, il popolo francese ci ha fatto il verso e continua a lavorare, a spogliarsi, a levarsi il pan di bocca, per la grandezza di Parigi, come avrebbe fatto nel Medio Evo, per pagare la decima a' suoi gloriosi castellani.

Parigi, prendendola ab ovo, è la figlia del caso, maritato ad una necessità politica di Giulio Cesare. Il vincitore delle Gallie doveva convocare in un punto del territorio conquistato i capi delle varie genti. Le maggiori città erano cadute in sua mano e distrutte; una meschina borgata, costruita di paglia e di mota in un'isola della Senna, ebbe l'onore di accogliere quella prima forma di congresso. L'esempio di Cesare, come molti altri del grand'uomo, fu seguito dagli imperatori romani, taluno dei quali vi pose anche dimora. Costanzo vi fabbricò un palazzo; Giuliano vi fu proclamato imperatore; Graziano vi perdette la vita. Vennero i re franchi, Merovingi, Carolingi e Capetingi. Parigi era diventata il centro religioso e teologico della Francia. In un tempo come quello, che dava tanta parte delle cose umane alla Chiesa, il primato di Parigi fu assicurato. Dapprima col benefizio delle scuole, che attiravano scolari da ogni punto d'Europa, poi con le grandi opere di Francesco I e de' suoi successori, la sua fama e la sua potenza si accrebbero a dismisura. La monarchia dei Valois, rassodandosi in Francia alle spese dei grandi vassalli, fece di Parigi una nuova Atene ed una nuova Roma, alle spese delle provincie, ridotte in obbedienza, o delle terre straniere, saccheggiate quando ne capitava l'occasione. Anche adesso, Parigi si sostiene così, sebbene coi mutamenti portati dalla civiltà; si nutre di provinciali e di forastieri, senza volerlo, quasi senza saperlo, come noi di cavallo, o d'altro animale non destinato agli onori dell'ecatombe alimentaria. In tutta la Francia si lavora e si produce a gran furia; qui solamente si appiccica il bollo della fabbrica. I lavoratori di Francia, nelle settimane di riposo, vengono qua per vedere i musei, i giardini, i palazzi, le luminarie in continuazione, il loro sfoggio, insomma, quello sfoggio che non si farebbero lecito in casa. E ci lasciano allegramente i loro quattrini, qualche volta dell'altro, come a dire la salute, per andarsene via tutti orgogliosi di questa perla, di questo diamante, di questa meraviglia del mondo moderno, che è unica, laddove quelle del mondo antico erano sette.

Madrid non fu così splendida, quando Carlo V poteva credersi il padrone dell'Europa. E si capisce. Madrid era più nuova, come capitale, e comandava con la forza, rinfrancata dalla superbia; mentre Parigi ha sempre comandato con la grazia e con le moinerie, facendosi perdonare perfino la sua gloria, con una cert'aria trionfale che non escludeva il sorriso. Così come l'hanno fatta gli anni, gli uomini e le donne, è una fioritura colossale, sproporzionata per ogni nazione che non chiamasse le altre a goderne la parte loro. Si può maledirla coi filosofi; bisogna riconoscerla coi diplomatici. C'è chi pretende di assegnarle un termine, come a Ninive, a Babilonia, a Persepoli, a Tebe; ma io credo che il parallelismo non corra. Parigi è il fiore della Francia, e la Francia avrà sempre in qualche cosa il primato. Ci saranno delle altre Madrid; Carlo V rinascerà in altri monarchi fortunati; ma Parigi trionferà ancora, perchè cospireranno a sostenerla altri Bajardi, altri Jean Goujon, altri Palissy ed altre madame d'Etampes. Sicuro, anche le donne, e che donne! Anche questa è stata una specialità, un article de Paris, composto di un terzo di bellezza, e di due terzi di grazia. «E la bellezza è vinta dal lavoro» direbbe il poeta.

Parigi ha i suoi barbari, i suoi odiatori domestici, peggiori a gran pezza dei nemici e degli invidiosi di fuori. È da vedersi qui il punto nero; ma, per istudiarlo a dovere, ci vorrebbe tempo d'avanzo, ingegno addestrato a questa maniera d'indagini. E poi, basterebbe ciò, per venire con qualche fondamento ai pronostici? Si ragiona male con certe classi di moralisti, che gridano contro una corruzione da cui non sanno sottrarsi eglino stessi, non si può capire dove mirino certi artefici del lusso, che potrebbero contentarsi di meno, tornando all'aratro, e non vogliono, perchè essi pure hanno nell'anima il baco dei desiderii smodati, e credono di poter domandare come un loro diritto ciò che agli uni concede la fortuna, agli altri il lavoro accumulato di tre o quattro generazioni. Questa confusione di dottrinarii e d'ignoranti sfugge ad ogni esame, manda a male ogni calcolo. Ieri vi hanno sopportato un Dionigi; quest'oggi vi rovesciano un Washington.

Torno all'article de Paris. Qualunque sia, a qualunque industria appartenga, esso è la forza di questa città; ed è qui che la cosa s'intende. La città è tutta un'insegna; ad ogni bottega, ad ogni piano, ad ogni finestra, si vede una scritta in grosse lettere d'oro. Il parrucchiere, il tabaccaio, il liquorista, affittano le loro vetrine alla pubblicità di altre industrie, bisognose di richiamo. Dove c'è un muro maestro che aspetta l'addentellato d'una casa nuova, si legge sempre qualche avviso che ha le lettere alte due palmi. Il Petit Journal, un foglio niente migliore di molti altri, vi annuncia così la sua tiratura di 600,000 copie al giorno. Altrove non ne annuncia che 500,000; in certi luoghi si mette a cavallo delle 550,000; dappertutto fa precedere il numero delle copie da queste parole orgogliose: «le plus grand succès de l'époque». Scommetto che qui farebbe fortuna un giornaletto il quale sapesse spendersi venticinque mila lire per far scrivere su tutte le cantonate disponibili: «_Le plus petit succès de l'époque! Le… n'importe quoi, journal politique quotidien: tirage de 999 exemplaires_». Si riderebbe dei pochi, come si ride dei molti, ma il giornale avrebbe uno spaccio incredibile. Tanta è qui la virtù dell'annunzio!

Che dire del foglietto che si distribuisce a mano su tutti i marciapiedi, su tutti i crocicchi di strada? Il cappellaio che si serve di questo richiamo non vi annunzia mica un cappello da dieci lire; tutt'altro! ve lo annunzia da sedici, o da venti. Voi, che avete appunto bisogno d'un cappello, dite in cuor vostro: – se questo me lo vende a sedici lire, Dio sa quante ne vorrà il cappellaio che non manda attorno i foglietti! – E andate subito da quell'altro e pagate sedici lire, certo di aver cansato una spesa di venticinque. Nè solo per questo, ci andate, ma anche per un poco di gratitudine. Certi foglietti son meraviglie d'arte tipografica, e abbondano di utili indicazioni. L'altro giorno, per esempio, vi davano in questo modo il piano della rassegna militare a Vincennes. Molti, da quattro mesi, vi danno quotidianamente la pianta topografica dell'Esposizione. Un mio amico, presidente d'un Club Alpino dell'Alta Italia, fa raccolta di tutte queste offerte gratuite, con intenzione di custodirle. Ne avrà presto una montagna, e potrà farne l'ascensione.

L'article de Paris è la cosa fatta con maggior garbo, il libro nuovo meglio stampato, il drappo meglio tinto, la veste meglio aggiustata. Una certa grazia biricchina, una certa sprezzatura artistica, un certo modo di presentare l'oggetto, ve ne raddoppiano il valore. E questo è il grande vantaggio. Del resto, qui i prezzi variano secondo le strade. Il boulevard è una ladronaia galante. Entrate in una bottega per comperare una cravatta, o per farvi stampare un centinaio di biglietti di visita; c'è dentro una donnina di garbo, che ragiona a lungo con voi, vi fa strabiliare col suo buon gusto, e con la scoperta del vostro. Non ve ne eravate accorto, ed avevate anche voi un gusto squisito, sopraffine, non plus ultra. La signora, quando vi ha lisciato e ridotto per benino, chiama il commesso, un artista fallito, elegante di aspetto e rispettoso di modi, che è incaricato di darvi il colpo di grazia. Vi si domandano cento lire per ciò che a casa vostra, od anche cinquanta passi lontano, vi costerebbe a mala pena venticinque. Ma come dirgli che è un indiscreto, là, sotto gli occhi della padrona, che vi abbozza con le labbra un sorriso? Rinunziereste al vostro buon gusto, di creazione così recente, vi gabellereste da voi per un barbaro?

 

Altro esempio. Come ritornare in Italia, non potendo dire di aver pranzato da Bignon, o al caffè Riche? Bisogna dunque passare sotto le Forche caudine; andare al Riche, o da Bignon. Eppure, chiuso là in una di quelle scatole che chiamano sale, pigiato fra venti o trenta persone ad uno di quei deschetti che chiamano tavole, avrete pagato trenta lire, o giù di lì, una scarsa julienne, due piatti di carne, o di pesce, e una bottiglia di vino. Andate in quella vece al Diner parisien o al Diner Valois, e pagate cinque lire un pranzetto più compito di quello, quantunque meno ricco di principii e di frutte che non sia il pranzo a cinque lire d'una trattoria italiana. Andate da Tissot, o da un altro del Palais Royal, e lo stesso pranzo vi costa a mala pena due lire e cinquanta centesimi. In via della Borsa c'è un pulitissimo ristoratore coll'insegna Au Rosbif, che promette di farvi pranzare per una lira e quaranta. Io non ci sono andato, come non sono andato da quell'altro che ieri faceva annunziare i suoi pranzi a una lira e venticinque; ma il timore di essere avvelenato non c'entrava per nulla, bensì quello di non trovare cinquanta centimetri di spazio. Infatti, non crediate che si tratti in queste trattorie (parlo di quelle a cinque lire, e di quelle a due e cinquanta) di mangiare della roba avariata. Ve la danno misurata, ecco tutto; vi obbligano a sceglierne due o tre piatti in una carta che ne ha tre o quattro di entrées, due o tre di pesce, due o tre di arrosti, e che manca di certe primizie, di certe ghiottonerie peccaminose. Le frutte sono pochine; potete scegliere tra una bella pera, una brutta pesca e un mezzo grappolletto d'uva. Ma infine, anche da Bignon, o al caffè Riche, se siete una persona a modo, non mangerete mica tutto quello che vi portano in tavola. E il vino? Qui i vini, poco più, poco meno, si somigliano tutti. Grossi e piccoli ristoratori, vi servono una piquette corrigée, che deriva la sua maggiore o minore bontà dal cartellino. Ed anche qui bisogna far l'atto di fede che si fa in Italia, quando si prende per vin di Chianti il Toscanello, il suo vicino della campagna pisana.

Dunque io dico, l'article de Paris varia secondo le strade e le insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si conosce l'arte di plumer un poulet sans le faire crier. Al gran prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.