L'Oscar di Cioccolata

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L'Oscar di Cioccolata
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Amos Sussigan

L’Oscar di Cioccolata

Uno studente a Hollywood


Armando Dadò editore

Locarno

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone

realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

Colophon

ISBN: 978-88-8281-323-9

© 2011 - Armando Dadò editore

CH-6600 Locarno, Via Orelli 29, www.editore.ch

published by: epubli GmbH, Berlin, www.epubli.de

A te,

e a quelle centomila stelle.

Venerdì 15 maggio 2010

L’Oscar di cioccolata


“Io non sono mai stato un genio. Mai il primo della classe, il più bello, o quello che ha l’auto più costosa e super modificata.

Al liceo mi è capitato di nascondere bigini elaborati sotto esami di tedesco, ho saltato lezione parecchie volte e non sono mancati screzi con docenti che non ritenevo professionali.

Un fine strato di pancetta copre i miei addominali (che però, sotto, sono scolpiti; sono solo coperti), troppo gel ha reso i miei capelli deboli, e non c’è giorno che non scopra un fastidioso punto nero sulla mia fronte. Un carattere forte aiuta, ma piango come tutti, mi spaventa prendere decisioni e sono più insicuro di quanto non sembri. Non sono mai stato perfetto, non lo sono tuttora e probabilmente non lo sarò mai. Io sono solo quello che ci credeva di più.

Con questa forte convinzione sono riuscito a partire per l’America, lasciando una vita che, dopo anni di piccoli sacrifici, si presentava ogni mattina nel massimo di una mia personale perfezione. Lasciavo il Ticino soddisfatto ma terrorizzato, atterrando in quell’immensa cisterna riempita di lacrime di gioia e delusione che chiamano Hollywood.


Onorato e un po’ sorpreso, ricevo ora quest’Oscar di cioccolata, scura e amara, ma che si scioglie in bocca”.

Giovedì 14 maggio 2009

Amos


Il mio nome è Amos. Non mi è mai piaciuto troppo il mio nome, non per il nome stesso, ma è difficile trovare un soprannome. Magari uno di quelli che fa style quando ti chiamano per la strada. Invece no. Sono sempre stato solo “Amos”. Quello lì. Ho vent’anni portati malissimo, forse anche perché non ho già più capelli in testa e la rasata è d’obbligo, conseguenza della mia vita che litiga costantemente con il mio orologio biologico.

Circa due anni fa ho deciso di studiare all’estero e ho cercato, con tutte le mie forze (anche quelle che non avevo, ed è forse per quello che i miei capelli hanno fatto le valigie e hanno salutato per sempre il mio cuoio cappelluto) di racimolare più soldi fosse possibile per partire per quest’avventura che oggi come allora mi sembra a dir poco titanica: cinque anni di università a Los Angeles.

Io sono un designer, o meglio, creo flyer e poster per clienti locali. Niente di trascendentale, e dunque il reddito è altrettanto non trascendentale. Per arrotondare, dopo la fine del liceo, ho lavorato presso un centro commerciale, collaborato con una radio, fatto qualche lavoretto televisivo e svolto pubbliche relazioni per discoteche e aziende che promuovono prodotti di vario genere. Da navigatori Tom Tom a Yogurt in promozione. Già, divertente, ma spesso è stato anche imbarazzante, considerando che delle volte mi si vedeva in televisione la sera prima, agghindato con il vestito della festa, e il giorno dopo mi ritrovavo alla cassa del supermercato vestito da Yogurt umano. Non fumo, consumo alcol nella norma e parlo molto, a volte troppo, a causa del mio Ego sovrasviluppato.Vivo con il mio gemello Joy, che anche se praticamente é identico a me nell’aspetto, ha decisamente altre passioni e fa il carpentiere.


Circa un anno fa ho conosciuto la ragazza più importante della mia vita fino a questo momento, Sheila. Nonostante i miei mille impegni, è sempre al mio fianco e mi sostiene in qualunque cosa io faccia. Lo chiamano Amore, credo.

Da piccolo ero un regista “Wanna Be”, ma nella piccola e magnifica bolla di realtà in cui ho sempre vissuto, il Ticino, questa mia attitudine era vista con particolare scetticismo.

Ho deciso dunque di fondere due delle mie passioni più grandi: il design e il cinema, arrivando alla conclusione che creare i cartoni animati, fare l’animatore, sarebbe stata la strada giusta. Dunque, eccomi qui, pronto a partire.

Venerdì 15 maggio 2009

Tempo di partenze. Ciò che non ti ho detto


Hai mai pensato a qualcosa intensamente? Così intensamente che quando apri gli occhi e ti trovi davanti una vecchia lettera impolverata, le pupille ti luccicano come se fosse oro? È come mi sentivo io. Prima.


Erano anni che entusiasta parlavo del mio futuro in America lavorando notte e giorno per realizzare il mio sogno. Sono le 8.15 del 15 maggio 2009, suona il campanello. Mio fratello Joy e la sua ragazza Manuela sono pronti per partire. Sheila, la mia ragazza, anche. Io invece un po’ meno. Scendiamo le scale, dove ci aspetta Paul, uno dei miei più cari e vecchi amici, pronto a caricare le pesanti valigie che contengono le rimanenze di una vita che non vivrò per molto tempo. Qualche lacrima sembra tenere il ritmo della pioggia che bagna I finestrini e durante il tragitto mi limito a leggere gli sms di buon viaggio, cercando di non incrociare lo sguardo di Sheila che sul sedile posteriore si asciuga le lacrime che non smettono di bagnarle le morbide guance rosa pallido.


All’aeroporto di Agno mi aspetta Andrea, che oltre ad essere un grande amico sarà il mio compagno di viaggio per le prime due settimane. Abbracci, baci indelebili, lacrime che mai ho visto prima. Ciao Ciao Ticino. Un volo corto, che cerco di ammorbidire con quattro o cinque pastiglie per dormire e con alcune pacche ad Andrea, che poveretto si sta sorbendo uno dei momenti più drammatici della mia vita, perlomeno fino al volo successivo. Da Zurigo ci imbarchiamo sull’aereo che ci porterà a Los Angeles. Provo a dormire. Non ci riesco. Guardo un film, ma metà lo vedo sfocato perché le lacrime non si asciugano. Ascolto un po’ di musica, ma è subito una tragedia greco-romana. Ciò che posso assodare della Swiss, è che ti rimpinza di cibo come fossi un maiale all’ingrasso. L’hostess passa per l’ennesima volta con l’idea di riempirmi di salatini e cioccolata, e io, con voce labile e svogliata e con i lacrimoni agli occhi, le rispondo che non ho fame. Non l’ho più rivista. Dopo undici interminabili ore, sbarchiamo nella “Sunny Los Angeles” pronti a prendere il primo volo per Salt Lake City.

Prima di imbarcarci, però, scopriamo di non avere i posti a sedere vicini, ed ecco che il dramma comincia a evolversi in tragedia. “Con chi sarò seduto? Se è sovrappeso? Se non si lava?”. Fortunatamente però, un assistente di volo visibilmente omosessuale decide di sistemarci vicini, visto il panico che rapidamente sta diventando generale.

Sono quasi le 22.00 e dopo circa venti ore di viaggio atterriamo a Salt Lake City. Nella capitale dello Utah ero stato qualche anno prima e vi avevo incontrato i miei zii e mia cugina Tessa. Parenti di lontanissimo grado, ma si sa, torna sempre comodo avere dei cugini in un paese come l’America, soprattutto se così gentili e ospitali. La notte è già calata e le luci della città rompono l’oscurità del cielo. Proprio in questo momento mi rendo conto di quante cose non ho mai detto a chi veramente amo. Non ti ho mai detto che se non esistessi la mia vita sarebbe bella la metà, che non avrei amici così preziosi, e non avrei raggiunto tutti i miei obiettivi. Se non fosse per te il mio carattere sarebbe mille volte più fragile, nei momenti difficili non avrei retto, non saprei cosa vuol dire essere amati e amare sul serio, e non saprei quanto è bello potersi fidare ciecamente di qualcuno. Se non fosse per te non saprei vedere le cose da altri punti di vista, non saprei che cos’è l’onestà, avrei sofferto di meno ma sarei cresciuto meno in fretta. Non ti ho mai detto che mille volte avrei voluto stringerti e dirti che non avrei voluto lasciarti andare, non ti ho mai detto che sei come un fratello. Non ti ho mai detto ti voglio bene così consciamente.

A volte per timidezza, per paura di essere giudicati, per timore di essere ritenuti deboli, omettiamo alcune piccole verità. Poi ce ne pentiamo.


Hai mai pensato a qualcosa intensamente? Così intensamente che quando apri gli occhi e ti trovi davanti anche solo una vecchia lettera impolverata, le pupille ti luccicano come se fosse oro? È come mi sento io ora. Ripensando a tutte quelle persone che mi hanno reso ciò che sono, che mi fanno vivere e che mi hanno permesso di scoprire quanto la vita possa dare. Poi un giorno, oggi, mi ritrovo dall’altra parte del mondo dove pensavo di trovare i miei sogni, e mentre rovisto tra le valige che passano sul nastro scorrevole, mi fermo, prendo un lungo respiro e mi rendo conto che quei sogni non esistono più. Sono oramai obiettivi che devo raggiungere a tutti i costi con lo scopo di rendere orgoglioso me stesso e soprattutto chi più amo. Dunque, eccomi qui.


Sospeso. Senza più sogni.

 

Sabato 16 maggio 2010

Un dolce e amaro lago di sale


Salt Lake City prende il suo nome dal lago che ne bagna le rive, nel quale, a causa dell’elevata salinità, poche specie viventi sono in grado di vivere. La più rappresentativa è costituita dai gamberetti chiamati Sea Monkeys, letteralmente “scimmie di mare”.


Sono oramai le 23.00 e siamo quasi a casa. Sul sedile di pelle di una jeep, mia zia ci descrive il paesaggio circostante intercalando qualche domanda riguardante la mia vita in Svizzera. Da lontano, la sagoma di una tipica casa americana si avvicina rendendo nitide le luci che la ricoprono. La differenza di fuso orario è di ben otto ore e dunque ci corichiamo in fretta, esausti, pronti per cominciare la nostra avventura “Made In USA”.

L’indomani comincia come un telefilm americano standard: cereali di tutti i tipi in scatole formato famiglia. Da uno scaffale grande circa come la cucina del mio appartamento a Locarno, sbuca lui, il Peanut Butter, ingrediente immancabile nelle cucine americane, cremoso e calorico al punto giusto in caso di tristezza o depressione. Dopo colazione, la giornata prosegue seguendo un programma di assoluto riposo. Spesa da Costco, grande magazzino famoso per le confezioni gigantesche che affollano gli scaffali dove la carta igienica è venduta in pacchi da 108 rotoli.

Laviamo l’auto in una stazione di benzina, passeggiamo tra le aiuole di quartieri abitati da benestanti cittadini con strade costeggiate da case da sogno, e terminiamo la serata al cinema, a vedere un film che, chiaramente, è in inglese.

La domenica è il giorno del grande BBQ; per l’occasione vengono a trovarci alcuni amici di mia cugina Tessa, che però si è recentemente trasferita in Idaho, uno stato quasi fantasma verso il sud del Canada. Osservando la tavola imbandita con pannocchie, hamburger giganti e salse ranch che grondano dalle bistecche, si fa sentire un po’ di nostalgia per le grigliate al fiume a base di luganighetta e costine. Il gusto agro-dolce caratterizza tutto il cibo portato in tavola, ma non mi lamento perché capisco che è solo l’inizio di un necessario quanto inevitabile adattamento a una differente cultura culinaria.

La sera di nuovo cinema (e se vi state chiedendo se sono venuto in America per andare al cinema, beh, la risposta è no, ma per ora è la cosa più semplice da fare). Breve parentesi, considerando che sono ancora sballato per il fuso e che il film è in inglese, un po’ di buon senso mi dovrebbe portare a scegliere film semplici e senza troppi fronzoli. Invece no! Io voglio fare lo sbruffone e scelgo “Angeli e Demoni”, che pullula di parole in latino e intricati misteri. Non contento e non già abbastanza confuso, la sera dopo mi godo l’ultimo capitolo della saga di Star Trek! Non solo non ho mai visto nessuno dei film precedenti, ma da metà film non capisco nemmeno più se si tratta di una storia nel presente, nel passato o nel futuro.

Per smaltire i grassi accumulati già nei primi due giorni di permanenza negli States, e anche per smussare un po’ il mio senso di colpa per aver peccato così sfacciatamente di gola, mia zia mi porta alla Gold Gym, la catena di centri fitness più grande al mondo, la quale, nella sede di Venice Beach in California, ha ospitato i più grandi body builder di sempre, tra cui Arnold Schwarzenegger. Veniamo accolti da Pamela, tacco 12 e minigonna, che ci fa riempiere un modulo d’iscrizione. Mentre Andrea allena addominali e bicipiti, io leggo sulla cyclette. I nostri sforzi si rivelano del tutto vani quando, dopo tanto esercizio, ci ritroviamo a Salt Lake City Downtown, che letteralmente indica il centro della cittadina, a mangiare l’ennesimo hamburger. Purtroppo la mia confidenza


con l’inglese non è tale da permettermi di capire che l’House Pepper Burger è un hamburger ricoperto di pepe, optional che non digerisco proprio.

Il mercoledì della stessa settimana partiamo per Boise, la capitale dell’Idaho, dove vive mia cugina Tessa. Sono cinque ore di viaggio su una strada dritta, di quelle che ti regalano una porzione di cielo supplementare perché le montagne non esistono. Con l’iPod nelle orecchie cerco di confondere la tristezza tra le note di Bob Marley.

Boise è una cittadina molto tranquilla, contornata dal deserto ma abbondante di piante, con un’allegra moltitudine di scoiattoli che corrono per le strade. Ci sediamo nella terrazza di un ristorante italiano, dove mangiamo bruschette al pomodoro e discutiamo della storia di questa piccola cittadina con mia cugina che sorseggia un Merlot della California. Nella piccola casa di legno di Tessa, le nostre chiacchiere spaziano dai nostri progetti futuri al cibo americano, e Andrea, dopo un lunghissimo silenzio imposto da un inglese ancora troppo acerbo, salta fuori con: “Bah, meglio non mangiare messicano” proprio quando mia cugina sta accennando alle super Fajitas che il suo fidanzato nel frattempo è intento a preparare. Durante la cena scopro che Scott, il fidanzato di mia cugina legge i tarocchi. Il mio sguardo s’incupisce, la mia voce si fa roca e, con la gravità di un sacerdote in confessione, gli chiedo: “Che cosa mi riserva il futuro?”.

“You’re pretending to be happy”, mi dice Scott.

E così è. Non sono contento, fingo solo di esserlo e non riesco a gestire le mie emozioni, così confuse dal giorno della mia partenza.

Passiamo la notte in un hotel mediocre, che sarebbe carino se il copriletto di Andrea non fosse ricoperto da macchie di dubbia origine e natura. Ripartiamo verso Salt Lake City, dove faremo un veloce pit-stop di una notte. Organizziamo i bagagli, doccia veloce, tagliamo l’erba, piantiamo cespugli e sistemiamo le aiuole. Facciamo i giardinieri improvvisati professionisti prima di partire per Vegas, io con delle Hogan costose e Andrea con le infradito.


I primi giorni in America sono passati così, con la nostalgia dell’abbandono addolcita dalla gentilezza e disponibilità delle persone al mio fianco. Mi sento un po’ come quelle “scimmie di mare”, adattato a vivere in un posto che, malgrado tutto, continua a essere una pozza d’acqua terribilmente salata.

Venerdì 22 maggio 2009

Dove la notte è meno oscura


113, dobbiamo scendere. Il vento è particolarmente forte da quassù, così potente che l’aria entra nei polmoni senza bisogno di essere inspirata. Mi volto e guardo il cielo. Mi raggiunge Andrea, ci sporgiamo un po’, riusciamo a vedere tutta la città e le mille luci degli alberghi e dei casinò. Le stelle nel cielo si confondono dentro l’oscurità di una notte serena, in lontananza gli elicotteri si avvicinano agli edifici, gli aerei atterrano lentamente e le persone che si muovono, laggiù, ridotte a minuscoli puntini e trascinate da un ritmo scomposto, sembrano inscenare una danza grottesca, priva di armonia.

È ora. Togliamo le scarpe. Stringiamo i denti. Leviamo collane e orologi. Riponiamo le borse e respiriamo profondamente.

Su, verso il cielo.


È già venerdì e la strada verso Las Vegas è dritta e interminabile. Cinque ore di viaggio che sono elegantemente ammorbidite dai sedili della comodissima Lexus di mia zia.

E qua si ferma la descrizione anche perché io di auto non ci capisco niente. Arriviamo a Vegas in perfetto orario, giusto in tempo per fermarci all’Hard Rock Cafè a pranzare. Senza un documento falso, non vedrò un goccio di alcol per i prossimi mesi. La cameriera, infatti, non appena sente “birra” scatta a mò di soldatino di piombo, o di plastica, a giudicare dal seno di dimensioni sproporzionate, e richiede un ID ad Andrea. L’ID è semplicemente una forma d’identificazione, che può essere la patente o il passaporto. Con un ID Californiano per esempio, è difficile eludere la sicurezza di qualsiasi locale poiché le forme d’identificazione per minorenni sono di colore diverso. Dopo pranzo passiamo a sistemare le nostre borse all’Hampton Inn Hotel, situato in posizione tatticissima all’inizio della Strip.

Ci prepariamo velocemente e ci rechiamo in centro, dove passiamo dalle colonne romane del Cesar Palace allo spettacolo di fontane del Bellagio, per poi finire agli show del Treasure Island: un mix di caste ballerine che mettono in scena una battaglia di striptease su due vascelli. Attorno alle 19.00 ci prepariamo per la serata. Optiamo per una tenuta elegante, sperando di confondere i buttafuori all’entrata dei club. Tra doccia e asciugacapelli sono oramai le 22.00, salutiamo i miei zii al piano di sotto e ci rechiamo in centro. Proviamo a entrare al Planet Hollywood, dove veniamo intercettati da un’alcolizzata che cerca di leggere il nostro Karma rifilandoci qualche mistica teoria sull’energia che emana dai nostri corpi. Snobbata elegantemente la veggente, ci mettiamo in fila e consegno, ostentando tutta la sicurezza di cui sono capace (e che non ho), il mio passaporto. Per fortuna il tizio all’entrata è distratto o impreparato sulle leggi che vigono in zona e non si accorge che sono minorenne, avendo solo 20 anni e non 21, età prescritta qui in America per avere diritto al prezioso requisito: e così mi fa entrare.

Ballando con una ritrovata birra sempre in mano, si avvicina la prima donzella: Stephanie dall’Oregon, che ha una tra le voci più assurde che abbia mai sentito (hai presente un canarino che cinguetta? Ecco, immagina un canarino che parla). Poco dopo ecco che si fa viva un’altra tizia losca che sembra essere interessata a... i nostri vestiti, che a quanto pare suggeriscono la nostra provenienza europea. Concludo la conversazione quando ha accennato alla possibilità di comprarmi la giacca. Sfortunatamente andiamo al casinò dove la zoccola alla roulette (non è uno sfogo, era veramente una prostituta), non riuscendo a leggere il mio passaporto, chiama la sicurezza per avere delucidazioni a riguardo. Le bionde non si smentiscono mai. Dunque vengo gentilmente allontanato dal casinò.

Mi sposto in quello di fronte, Paris-Las Vegas, sotto la ricostruzione della Tour Eiffel. Con faccia autorevole e aria da mafioso scruto per qualche minuto il tavolo da gioco.

Osservo il croupier che sembra quasi intimidito, poi estraggo una banconota e con una voce seria e un accento marcatamente italiano, un po’alla Al Capone, gli dico: dammene 4 da 5.

E ci casca! Non continuo con la descrizione: in meno di 5 minuti Andrea ed io siamo davanti a un bancomat, completamente al verde. Usciamo dalla ladra Parigi e ci dirigiamo verso l’albergo, poveri come non mai.

La suoneria assordante di un telefono anni Ottanta ci sveglia di primo mattino. È mia zia che ci aspetta a colazione alle 9.00. “Dormiamo ancora cinque minuti”. Alle 12.30 (molti cinque minuti dopo) siamo pronti per un altro giorno tra casinò e piscine mozzafiato. Proviamo le montagne russe di New York New York e andiamo di gelatone maxi-size nei quartieri di Brooklyn. Per la sera abbiamo in programma di visitare lo Stratosphere Tower, dunque andiamo a casa prima, in modo da poter uscire con i miei zii.

Mentre io sono sotto la doccia e canto Viva Las Vegas di Elvis Presley, Andrea guarda su You Tube video d’incidenti sullo Stratosphere, dettaglio che mi comunica solo una volta in cima alla torre. Dopo un breve giro nella vecchia Las Vegas, costeggiata da cappelle per matrimoni lampo e vecchie insegne di Night club, raggiungiamo lo Stratosphere, passiamo il metal detector, e arriviamo al piano 108 dove un’immensa vista su tutta Las Vegas illumina gli occhi e rasserena lo spirito. Ma noi dobbiamo salire ancora, fino al Big Shot, un palo di cinquanta metri che ti catapulta in cielo.


Piano 113, dobbiamo scendere. Il vento è particolarmente forte quassù, così forte che l’aria entra nei polmoni senza bisogno di essere inspirata. Mi volto e guardo il cielo. Las Vegas è magica: grazie all’immensità delle sue costruzioni riesce a farmi dimenticare per qualche attimo dove e chi sono. Come uno di quei puntini uniformi che vedo da quassù: un essere umano in procinto di provare forti emozioni in una città che ne offre per tutti i gusti. L’adrenalina nel fare una puntata alla roulette, lo stupore nell’osservare la maestosità degli edifici, la libertà di poter urlare per strada che la vita e bella senza il timore di essere additato da qualcuno (anche perché sono pochi quelli che non urlano e cantano in questa città). Riesco a dimenticare ciò che mi assilla e anche la più buia delle notti è meno spaventosa. È solo quando mi ritrovo nel cielo, senza nessun rumore, che riesco di nuovo a sentire ciò che mi manca.

 

Il giorno dopo lasciamo i miei zii per partire alla volta della California con Mary, un’amica di vecchia data che ha preso un volo il mattino da Salt Lake City fino a Los Angeles, ha affittato un’auto (piccolissima, non considerando che avevamo sei valige) ed è venuta a Las Vegas per poi ritornare a LA.

A sentire lei non fa una grinza. Mentre Andrea canticchia California anche se l’autostrada non è la 101, io cerco di non pensare.