L'Oscar di Cioccolata

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Venerdì 2 giugno 2009

Tempo di partenze. Di nuovo. Le mie centomila stelle

Per definizione un amico è una persona che non ti abbandona nemmeno quando è direttamente minacciata, con cui puoi condividere le confidenze più segrete, che non ti tradirà mai, nemmeno se messo sotto pressione. Sempre allacciandomi a un cliché, la propria fidanzata dovrebbe piacerti esteticamente, saperti ascoltare, amarti e sapere come farlo.

Prima di lasciare l’hotel scrivo un biglietto per chiedere se è possibile lasciare in deposito le valigie per tre ore, ma non fidandomi dell’intuito inglese con il quale Andrea cercava di sopperire alle evidenti lacune grammaticali passo dalla reception per spiegare la situazione a voce.

Sono le 12.40 ed è ora di pranzo. Incontro Andrea nell’atrio della scuola e andiamo a mangiare un hamburger. Davanti a un fast-food il Russo, evidentemente in agguato da ore, si avvicina con scatto felino autoinvitandosi con poca eleganza ma con molta irriverenza. Con un’abile mossa schivo il colpo dicendogli che ci saremmo incontrati dopo, al residence. Inutile dire che l’appetito non c’è, nonostante sia da ieri che non mangio. Andrea prende l’ultimo di una lunga serie di hamburger. I minuti passano, l’angoscia e la paura che il tempo dei saluti arrivi troppo presto sono in esponenziale aumento.

Oramai l’attenzione è quasi completamente rivolta alle lancette: non riesco bene a capire se vorrei che il tempo passasse il più in fretta possibile o il contrario. La lancetta sfiora le 12.40 e in gola posso quasi percepire un grosso pezzo di pane che non mi permette di parlare. Un forte abbraccio e un “Ciao man, grazie di tutto”.

A lezione non riesco a stare attento. Anzi, non ascolto proprio, il che non è un ottimo inizio, considerando che è il secondo giorno di scuola. Nella pausa dei cinque minuti me ne vado con lo zaino in spalla.

Perdo il bus. Aspetto l’altro bus e pago l’autista con cinque dollari perché non ho né tempo né voglia di andare a cambiarli da qualche parte (il bus costa 1.10. Il resto: mancia!). C’è traffico. Evviva. Accendo l’iPod. Una cicciona si siede di fianco a me. Evviva. Chiedo all’autista qual è la fermata del Sea Port Hotel, ma non si spiega bene. Allora mi alzo e rimango in piedi a guardare dal finestrino. Scendo. Corro perché c’è il verde per i pedoni e mando un messaggio ad Andrea: “Alza la testa, man”.

“Salutarsi a scuola era tristissimo, molto meglio il Sea Port Hotel. Per non parlare del fatto che non sei abbastanza pezza per portare i bagagli da solo”.

Dopo il check-in all’aeroporto, in grande stile americano mangiamo quattro polletti da McDonald (avete ragione, sono al corrente dei disastrosi effetti collaterali di McDonald’s e di quanto stia mettendo a rischio la mia salute, ma abbiate pazienza, in questo momento altri problemi di sopravvivenza mi assillano). Mi guardo in giro e ascolto l’altoparlante dell’aeroporto che parla in giapponese. Il sole è basso e crea delle lunghe ombre che passano attraverso i vetri di LAX.

Fa abbastanza caldo anche se c’è il vento che tira da nord.

Mentre mi alzo per accompagnare Andrea all’entrata del gate, penso a quanto sia stupido. Mi aspetto sempre troppo e ci rimango deluso. Capisco che ho una ragazza splendida e che va ben oltre gli standard, che non è semplicemente bella esteticamente ma che riesce a darmi molto di più nello spirito, che mi capisce e mi aiuta tutte le volte che sono giù di morale e che magicamente riesce a sostenermi, anche se sono dall’altra parte del mondo. Amici che non smettono mai di scrivermi e mi sostengono in una situazione che si è rivelata difficile ben oltre le mie previsioni. Che dire poi di chi ha reso tutto molto più facile e piacevole, che si è sorbito le mie mille paranoie, che ha sempre risolto la situazione, che dalle strade di Salt Lake City, ai loschi hotel dell’Idaho, dalle luci di Vegas a quelle di Hollywood, dalle spiagge di Santa Monica a San Diego, mi ha fatto ridere e dimenticare per qualche attimo quanto fossi lontano da quelle famose centomila stelle che vedeva sul marciapiede.

Quando si parte per uno studio all’estero, che sia di qualche mese, uno o più anni, la sensazione generale è solitamente quella di sentirsi sospesi nel nulla. I ragazzi sono esaltati all’idea di intraprendere una nuova avventura, ma allo stesso tempo, svolgere le attività più banali diventa difficile e l’insicurezza si fa spazio. Orientarsi per le strade, fare la spesa, stipulare abbonamenti per il telefono e internet diventano processi complicati per i quali c’è sempre bisogno di un’approvazione di terzi. Persone che devono avere la stessa mentalità, cultura e magari che hanno un forte rapporto di amicizia. Si potrebbe paragonare all’approvazione di un papà quando si è piccoli, o della mamma che premurosamente ti dice di svolgere delle attività in una determinata maniera, quella “giusta”. Queste prime settimane mi sono sentito così, angosciato e alla ricerca di un appoggio che mi facesse sentire meno lontano da casa. Andrea è stato il mio appoggio, giorno dopo giorno, porgendomi la sua spalla su cui posare la testa appesantita di dubbi, paure, e insicurezze.

Già, dovrei smettere di aspettarmi di più, perché ho ben oltre a quello che chiunque possa aspettarsi.

“Beh, mi sa che devi andare”.

“Già, ti scrivo appena atterro... “.

“Easy... Grazie man...“.

Così me ne vado voltandomi una volta sola. Saluto di nuovo e vado alla fermata dallo shuttle che sembra non arrivare mai. Il vento soffia più forte ed è più freddo, ma non fa niente, non lo sento. Tengo la testa alta così mi viene meno da piangere.

Perché non si dovrebbe mai piangere. Non dovrei mai piangere. A volte vorrei solo rinascere un po’ meno ambizioso e arrivista, per poi non ritrovarmi senza ciò che di più caro ho al mondo. Appena scendo dallo shuttle, mi fermo al Sea Port Hotel e fisso i pezzi di ricordi sul pavimento, con lo sguardo di chi cerca senza sapere bene cosa e ricordando quelle centomila stelle che, ora più che mai, sembrano lontane.

Sabato 6 giugno 2009

Solo a Hollywood succede

Boxer bianchi a cuori rossi. Ecco la prima cosa che vedo mercoledì mattina. Il Russo ha pensato di regalarmi un risveglio ancora più tormentato della notte precedente, riempita da pensieri e nostalgia per la partenza di Andrea. Con frenetica impazienza mi vesto e mi accorgo che dalla cucina proviene un odore nauseante. Il Russo si dirige verso di me con una padella di patate e pollo e mi dice: “Help yourself…”.

La risposta che mi viene dal cuore è impronunciabile e irriferibile, ragion per cui opto per un raffinato: “Man, mi spiace ma oggi non è giornata, scusami tanto”. Se però domani si presenta con una qualche zuppa per colazione, giuro che gliela rovescio addosso.

A scuola la giornata passa in fretta tra un esercizio di grammatica e una discussione sul surriscaldamento terrestre.

I pensieri sono da tutt’altra parte ed è comprensibile dunque che il tempo passi più veloce, semplicemente perché non ci penso.

Mercoledì sera io, il Germanico e il Belga ci troviamo nel mio appartamento. Il Germanico ha pensato bene di rifornirsi di Budweiser e di venire a tirarmi un po’ su il morale. Tra un discorso e l’altro, salta fuori che ho realizzato un cortometraggio in Svizzera, 3:45. Glielo mostro e rimangono stupefatti. Ah, gli effetti dell’alcol.

Il giorno dopo nell’aula studenti si tiene una sorta di riunione sulle attività della settimana. Arrivo un po’ lungo perché stavo disperatamente cercando di far funzionare Skype sul mio iPhone. Ho appena comprato un telefono americano, cinquanta dollari e posso chiamare e mandare sms gratis in tutto il mondo. Però è più elegante usare il mio iPhone. Entrando in sala riunioni, vedo sessanta studenti raggruppati attorno a un tavolo che commentano il mio cortometraggio, appena mostrato dal Germanico. Il mio lavoro attira l’attenzione de Il Kazakistano: molto strano. Forse quello che mi spaventa di più (anche più del Russo, che tra l’altro è diventato il suo migliore amico poiché entrambi parlano russo. Mah, io mica lo sapevo che parlavano russo in Kazakistan. Si chiama Dimitri (ve l’avevo detto che c’era...), vive a Compton (il ghetto di Hollywood, con un elevatissimo tasso di criminalità) e vuole fare il regista. Anche lui sta confezionando un piccolo film e me lo avrebbe mostrato appena finito. In lontananza si avvicina Il Turco: si chiama Can ma si fa chiamare John (molti ragazzi cambiano il proprio nome a causa delle difficoltà di pronuncia da parte degli americani). È un tipo tranquillo, ci vado molto d’accordo, parla a monosillabi ma si fa capire. Stava per cambiare scuola ma alla fine ha deciso di rimanere, ed è un bene perché è lui a scarrozzarmi a scuola ogni giorno. Così evito il bus. Ridacchiando mi dice che il video del Kazakistano è un po’hard: c’è una scena di sesso girata dal vivo, i due attori erano due suoi amici strafatti di cocaina. Benvenuti a Los Angeles!

Dopo scuola torno a casa con l’idea di rilassarmi sul divano, ma quando entro pare di stare a un rave party alla foce del fiume Maggia. Incontro:

L’Arabo: non mi piace e fa troppo lo sbruffone. Pare sia il figlio di un petroliere, veste da testa a piedi super griffatissimo e interrompe sempre in un inglese scorretto “You know I go here and I does not have to pay for petrol”. In sostanza cerca di spiegarmi, senza osservare nessuna regola grammaticale, come lui non debba pagare la benzina, poiché nel suo paese vantano numerosi pozzi di petrolio. Sì, certo, vai così Dubai!

 

Le Brasiliane: sembra che tutte le ragazze della scuola siano o cinesi o brasiliane. Sto parlando di Maju, Manu e Mariana. Non ci ho parlato molto a dire il vero, ma la metà dei ragazzi al residence stravede per loro. Almeno, per Manu e Mariana. Maju ha 17 anni ed è bruttina, poretta, e anche un po’... spontanea (un evidente eufemismo). A scuola, per esempio, stavamo facendo un esercizio sugli errori che si commettono nella vita. Lei doveva fare una domanda a tutti (eravamo tutti maschi) e l’unica cosa che è riuscita a dire è stata “Chi di voi piange e mangia gelato dopo aver fatto uno sbaglio?”. OK, torna a Rio, va. Non gliel’ho detto io, però è praticamente quello che le ha risposto il Belga.

Venerdì pomeriggio mi arriva un messaggio da un amico che vive a Los Angeles e mi dà appuntamento a Beverly Hills sabato sera, dove faremo aperò con un produttore per ABC.

Sabato mattina il sole splende su Los Angeles. Non ho ancora trovato un modo per arrivare a Beverly Hills. Considerati la distanza e il traffico, mi ci vorrà almeno un’ora.

Chiamo un taxi e gli chiedo quanto costa: troppo caro. Provo a chiedere al Turco e al Kazakistano (sì, sono veramente alla canna del gas) ma nessuno può darmi un passaggio. Allora provo a noleggiare un’auto con il nome del Turco, ma non ci sono auto disponibili da nessuna parte. Grandioso. Provo a richiamare il servizio di Shuttle e tento di contrattare sul prezzo. Niente da fare. Dunque beh, lo prendo lo stesso (non che abbia altre opzioni). Mentre mi preparo per il mio debutto a Hollywood, arriva il Russo. Un gelido terrore mi scende nelle vene: siamo solo io e lui.

Questa volta cerco di fare un po’ il gentile e gli chiedo cosa ha fatto durante il giorno. “Ho cercato un dentista... perché voglio comprare un dente ma mi ha detto che costa 2500$, quindi ora vedo se riesco a trovare un dentista russo che magari mi può fare uno sconto”. I più mi avrebbero risposto:

“Sono andato in spiaggia… Ho fatto la spesa... Ho giocato a tennis... ”. Lui no. Sono quattro giorni che è negli Stati Uniti e si fa il giro di LA in taxi per trovare un dentista che gli aggiusti un dente scheggiato. Neanche un dente davanti, che si vede, era un molare scheggiato, che nessuno vede. E lui vuole cambiarlo tutto. La cosa migliore è ignorarlo e corro verso lo Shuttle.

Sul bussino sono in compagnia di una simpatica signora spagnola che flirta con me modello Via col Vento! Sto pensando in italiano, cercando di parlare in inglese e rispondendo in spagnolo alla signora, che continua a rivolgersi a me nella sua lingua madre. Passo un’ora a parlare con la signora del più e del meno, e ogni tre frasi la vispa ottantenne accenna alla coetanea che le sta seduta di fianco: “Come parla bene! Non sapevo che gli svizzeri parlassero spagnolo! Fa proprio freddo in questo bus!”. E mentre lo dice mi lancia occhiate terribilmente maliziose.

Dopo un breve aperò al Roosevelt Hotel, in Hollywood Blvd., il produttore mi congeda con la fretta di un tipico americano.

Il vero problema però è che sono le 20.00, e il Germanico, che dovrebbe portarmi a casa, è ancora a Santa Monica a guardare il tramonto con le Brasiliane, e ci rimarrà ancora fino alle 22.00. Decido dunque di andare al famosissimo Chinese Theatre a vedere Terminator Salvation.

L’entrata è maestosa, le luci sono soffuse e l’aria condizionata soffia sopra il venditore di popcorn. Non so bene quale sia la sala dove proiettano Terminator, a dire il vero non so nemmeno se ci sia più di una sala. Poi la vedo: una sala immensa, con le poltroncine rosse, le pareti e le colonne infinite decorate in stile cinese. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, mi perdo nella solenne sontuosità di un cinema che è molto di più di un semplice edificio.

È il simbolo di ciò che ho sempre desiderato: il cinema.

È la prima volta che vado al cinema da solo. È sensazionale, posso fare tutto quello che voglio senza paura di essere giudicato da chi mi sta vicino: ridere, piangere, perfino cercare di imitare le facce degli attori e nessuno mi dirà niente. Nonostante tutta questa libertà, non mi lascio troppo andare. Terminator non è un film né da piangere né da ridere né tanto meno da imitare, anche perché non voglio proprio rovinarmi la carriera prima di averne una.

Finito il film, rimango a guardare i titoli di coda fino alla fine, realizzando quanto importante sia vivere le cose fino in fondo, assaporarle fino all’ultimo istante, cercando di capirle soprattutto. Le ultime settimane sono state un sovraccarico di emozioni, e non sempre ciò che mi accadeva o che cercavo ha coinciso con ciò di cui necessitavo. Ma è proprio in questa città, Hollywood, che ho capito che devo stringere i denti e smetterla di piangermi addosso, perché è proprio in una città come questa, dove tutto sembra essere possibile, che devo dare il massimo e farlo accadere.

Esco dal cinema e il Germanico mi dice che non ci metterà ancora molto. Già, perché capisco il tramonto, ma il sole è già da un pezzo dall’altra parte della Terra! Tipo un’ora e trenta. Un’ora e trenta?!

Faccio l’unica cosa possibile per passare il tempo in questo angolo d’America: analizzo le impronte impresse nel cemento e controllo quale di loro combacia esattamente con la forma del mio piede. Sono così concentrato che ci metto più di qualche secondo per realizzare che l’impronta del mio piede, più larga che alta, corrisponde alla perfezione a quella di Donald Duck. Poi mi faccio un giro per Hollywood Blv., ricolma di gente vestita da cartoni animati o attori famosi (i quali bisognerebbe evitare poiché, non appena scatti una foto con loro, ti rincorrono per farsi pagare.

Seguo uno spettacolo di breakdance al limite del penoso, ma gli lascio un dollaro proprio perché mi fanno quasi pena. Faccio su e giù almeno otto volte della Walk of Fame leggendomi tutti i nomi delle stelle, e mi soffermo ad ascoltare una ragazza che canta Tears in Heaven di Eric Clapton. Bionda, occhi azzurri, vestiti neri alla buona. Guardarla mi ricorda quanto il dettaglio possa fare la differenza. Il raggiungimento di un obiettivo dipende dalla costanza e dall’impegno che ci si mette nel raggiungerlo.

Questa ragazza è brava, ma non ci crede abbastanza. Aspetta qualcosa senza ben sapere cosa, o chi. Lascio un dollaro anche a lei e me ne vado.

È quasi l’una di notte del Germanico nemmeno l’ombra. Due blocchi più in la, le luci di un McDonald illuminano la strada e decido di prendermi un caffè.

Mentre sono alla cassa mi si affianca una zingara, una delle tante che spalleggiano gli homeless, con una faccia da fare un baffo a Platinette e avvicinando le mani al mio portafoglio mi dice: “Comprami un panino”. Niente “Salve, buonasera, come sta?”. Sfacciatamente niente. Dopo tutta una serie di buone azioni compiute durante la serata, alzo il, sopracciglio sinistro e le dico con voce di chi disprezza “I don’t think so. Puff!”. Lei ancora più sfacciata mi manda aquel paese benedicendomi. A Hollywood anche gli zingari mi fanno sentire in colpa.

Mentre sorseggio il mio caffè con la spensieratezza di un bambino tra i prati di una valle sperduta, mi si avvicina un signore, dai tratti messicani, che m’invita a entrare in una Limousine parcheggiata in un vicolo. Da queste parti macchine così sono molto comuni: le riempiono di prostitute e alcol, acchiappano il farfallone di turno e poi lo obbligano a pagare all’uscita. Grazie a Dio mi chiama il Germanico e ripartiamo verso Long Beach.

Nell’auto penso a quanto in America sia tutto più grande: le confezioni di cibo, le bottiglie d’acqua e persino le emozioni: Le senti di più, e per questo ti spaventano e ti ammaliano come non mai, ti saziano il cuore di cose mai provate prima.

Già, a volte succede di trovarsi soli a Hollywood, ma emozioni così, solo a Hollywood puoi provarle.

Venerdì 12 giugno 2009

Cioccolata Americana. La parte più dolce

Alcuni si sentono meglio dopo aver mangiato qualche quadretto di cioccolato. Altri dicono di star molto meglio solo dopo un’intera tavoletta di quella dolce pasta marrone. Altri ancora, preferiscono il gelato al cioccolato, preferibilmente con la panna: l’effetto è ancora più immediato. Qualunque sia il tuo problema, il cioccolato aiuta a dimenticare tristezza, malinconia e tutte quelle emozioni che rendono le giornate meno felici.

Sono le 14.00 di domenica 7 giugno. Ricevo un messaggio su facebook dove il Belga mi ricorda del BBQ delle 15.00. È il panico. Chiamo il Germanico ma non ne sa niente. Chiedo al Giapponese ma nemmeno lui sa di cosa sto parlando. Nessuno si ricorda di essere stato invitato. Allora faccio l’unica cosa possibile: chiamo il Belga e simulando una voce sicura gli dico: “Hey, mi chiedevo se devo portare qualcosa... Poi se mi dai l’indirizzo lo inserisco nel GPS (non ho il GPS)”.

E lui: “Porta le birre, e si trova a Long Beach, casa 916”. Grande! Avevo quasi tutte le info utili ora, tranne forse quella più importante: perché e con chi saremmo andati? Io e il Germanico partiamo, ma quando arriviamo alla casa io mi sono già scordato il numero (e voi ve lo ricordate solo perché l’ho scritto tre righe sopra). Passiamo mezz’ora girovagando per le strade e spiando nei cortili di tutte le case.

Il Germanico si lascia andare a riflessioni del tipo: “Vado avanti io, così se mi sparano – perché se entri in una proprietà privata qua lo possono fare – ti sentirai dannatamente in colpa”. “Sì sì,vai pure, ai sensi di colpa ci penso a stomaco pieno...”. Trovata la casa giusta, nel giardino ci aspettano venti persone, tra cui Jean, il Belga. Le costine sono immangiabili perché ricoperte di salsa agrodolce e la salsa di patate in scatola è semplicemente disgustosa.

Senza farmi notare, e con l’eleganza di uno scaricatore di porto, passo il tutto a Little Shit, il cane della mascolina padrona di casa. Riusciamo a filarcela dopo ben tre ore di discussioni sul maltrattamento degli animali e quattro chiacchiere con il cuoco serbocroato.

Martedì sera ho un appuntamento con un regista svizzero che vive e lavora a Los Angeles da quattordici anni. Con alcuni compagni di classe faccio un po’ di shopping ad Americana, un gigantesco centro commerciale all’aperto che mi sembra abbastanza vicino al ristorante dove dovrei essere alle 20.30.

Prendo il primo “ghetto bus” e mi dirigo verso Hollywood, ma l’autista non mi dice dove scendere. Quando lascio il bus, mi trovo ben sei fermate oltre la mia (ho già accennato al fatto che il mio senso dell’orientamento è piuttosto scadente?). Scendo, provo a prendere un altro bus, ma non ho i soldi giusti.

Lo perdo. Entro in una pasticceria (che chiamarla pasticceria è un salto di qualità non indifferente) e chiedo alla sospettosa e infarinata venditrice (ma sarà veramente farina?) se mi può cambiare i soldi. Dopo un’iniziale esitazione accompagnata da qualche borbottio del tutto ingiustificato, mi cambia i soldi.

Mi giro e perdo il secondo bus! Smarrito nel ghetto da solo e vestito dalla festa, che è praticamente come buttare una bistecca al sangue in una pozza pullulante di squali.

Finalmente prendo il bus. Già pregusto la contentezza di arrivare a destinazione, ma l’autista provvede subito a smontarmi dicendomi che dopo questo ne dovrò prendere un altro. Arrivo e salgo su un altro bus chiedendo quanto ci avremmo messo ad arrivare a Sunset Blvd. Mi dice “Un po’”.

E io: “Ah... posso arrivarci a piedi?”.

“Se hai tutta la notte, sì...”. Mortificato per la stupida domanda, mi accomodo sul primo sedile della fila. La luce giallastra non crea di certo un’atmosfera glamour, ma almeno c’è posto a sedere. Si siede di fianco a me un barbone sporchissimo dal quale emana un vivo odore nauseante. Dopo mezz’ora di tragitto mi sembra arrivato il momento di chiedere all’autista se siamo vicini e mi risponde il senzatetto! “È molto lontano, si sieda e abbia pazienza, come abbiamo tutti”. OK, ho capito che tu hai pazienza, grazie, non hai uno straccio di vita sociale!

Come una visione angelica, vedo un taxi. Scendo al volo dal bus e mi fiondo dentro la vettura giallo canarino. Finalmente arrivo, con solo un’ora di ritardo a una cena con un regista che non ho mai visto e che è stato molto gentile a invitarmi. Grande Amos, qua sì che ti fai notare.

L’insegna dice Katana, Sushi Restaurant (naturalmente io quasi odio il sushi). Cerco con gli occhi il regista e finalmente vedo il tavolo.

L’atmosfera pare strana dapprincipio, ma penso che sia perché non mi sono ancora ambientato. La carta del menù è un problema di per sé. Tra che non adoro il sushi, tra che non ne ho mai viste così tante varietà, tra che la lista è in inglese (sempre meglio che in giapponese, comunque, lo riconosco), non ho la più pallida idea di che cosa prendere. Dunque, dopo una prolungata riflessione, la mia scelta cade su un carpaccio di tonno, che alla fine si rivela anche buono nonostante dal mio punto di vista sia una stravagante curiosità culinaria ottenuta utilizzando del tonno crudo (non tonno in scatola come illusoriamente avevo creduto, o meglio sperato). A un tratto capisco: non è che non mi sono ambientato, è che nell’ambiente aleggia una predominanza omosessuale e io mi sento come un pesce fuor d’acqua (proprio come il tonno che sto mangiando). Mi siedo vicino a una ragazza sulla trentina rifatta da capo a piedi. Comincia a parlarmi del suo cane e dei suoi gatti. Dopo una buona mezz’ora che va avanti così mi pongo un quesito: “Fa più gay parlare di cani, gatti e compagnia bella con una tipa che non conosci o parlare direttamente con un ragazzo omosessuale?”. Non che ci sia nulla di male, anzi, qui a Los Angeles, e specialmente nell’industria del cinema, è praticamente d’obbligo essere pro-gay. Però si sa, forse l’abitudine, impastata con cliché con i quali si viene cresciuti in Svizzera, rendono la presenza di una persona omosessuale direttamente legata alla possibilità di essere etichettati negativamente. Annego dunque le mie considerazioni in alcune bottiglie di Sachè e Martini al lichi. Verso mezzanotte passa il Germanico a prendermi e torniamo verso casa. Sì, il Germanico mi fa da taxi.

 

Il mercoledì è il Limoday. Qui in America prendere a noleggio una limousine è facilissimo, poco costoso e le bibite sono incluse. Ci dirigiamo verso Hollywood e facciamo conoscenza con alcuni componenti della limo:

I Francesi: praticamente sono i nostri vicini di casa perché la loro porta è in faccia alla nostra. Sono tre amici di Jean il Belga che hanno voluto aggregarsi a noi. Arrivano da Parigi ma da un anno vivono al Residence e frequentano l’Università di Long Beach. Sembrano tranquilli e tra una canna e l’altra studiano informatica.

Amy la Professoressa: ciò che bisogna sapere sulle docenti in America è che non vengono pagate bene, sono molto aperte con gli allievi e, soprattutto, non si preoccupano se uno di loro gli limona il collo. Forse ho fatto un po’ di tutt’un’erba un fascio, ma il caso di Amy è proprio questo: ex docente alla scuola d’inglese che attualmente frequento, e anche docente all’Università di Long Beach senza nessun tipo di limite.

Le Japan: mi limiterò a raccomandarvi, se mai dovesse capitarvi di conoscere una Giapponese, di non farla bere perché dopo una birra è la fine.

A Beverly Hills, dopo aver quasi dimenticato il Germanico a una stazione di benzina dove aveva fatto rifornimento di birre, scegliamo una casa, una di quelle ville che ti vendono per una decina di milioni. Ognuno si accosta a una siepe e incuranti delle telecamere alleggeriamo le vesciche. Non tutti possono dire di essere andati al bagno “su” una villa di Beverly Hills! Sulla strada verso casa ci fermiamo a un benzinaio. La metà di noi dorme, l’altra metà continua a fare festa. A un certo punto Marc, il più spericolato dei francesi, cade a faccia sull’asfalto. Non ce la fa più. Provo ad alzarlo ma nada, come morto.

Allora corro a prendere dell’acqua e chiamo i suoi amici perché come crocerossina non valgo un granché. Dopo una decina di minuti riusciamo a metterlo sulla limousine e a posizionarlo ben vicino al finestrino. Sopravviverà.

Bene. Sono a casa e sono anche bell’alcolico, pronto per coricarmi sotto le mie coperte. Apro la porta e scopro che la gente che non è venuta in limo ha ben pensato di occupare il mio appartamento. Qualcosa mi dice che la serata sarà ancora lunga. Non riuscirò a toccare il letto prima che le lancette raggiungano le 4.00.

La sera del giorno seguente avrei dovuto incontrare il mio docente di grammatica, il quale è appena stato licenziato. Ha ancora il DVD del mio cortometraggio. Torno a casa nella speranza che il Russo sia in camera, visto che ho prestato la chiave a uno dei Francesi, così avrebbe potuto dormire sul mio divano se il suo amico avesse vomitato e l’aria fosse diventata irrespirabile. Il Russo non è a casa.

Ma qualcuno può spiegarmi dove diavolo va sto Russo che non ha mezza vita sociale proprio quando ho bisogno che stia a casa?!

Non mi doccio, non mi cambio. Tutto per colpa del Russo. Sulle spiagge di Huntington Beach incontro Robert, il mio ex professore. Il docente ci parla un po’ amareggiato del suo licenziamento, apprezza molto il mio cortometraggio e si lascia andare a rivelazioni sconcertanti. “Ho fatto un po’ di cose tipo erotiche”. Io e il Turco, che mi ha accompagnato, ci guardiamo in faccia serissimi “Ahhh, qualcosa di un certo spessore allora!”. Robert, con voce autorevole mi dice: “Sì, ma non parliamone troppo, non voglio che si sappia in giro” (ah sì, buona idea, vieni a dire a me che sono tuo allievo da una settimana che hai fatto un porno e poi mi dici che non vuoi che si sappia in giro?! Come minimo appena torno a casa creo un gruppo su facebook e lo chiamo tutti quelli che hanno un professore che fa l’attore porno). Passeggiando sulla spiaggia mi assicura che mi avrebbe procurato un documento falso.

A questo punto ci vuole una scheda anche per lui: Robert, il professore: ha 28 anni e fa (ceva) il docente. Alla descrizione “tipo” dei docenti americani di prima aggiungerei che i docenti in California fanno film porno e fabbricano documenti falsi per gli studenti. Di origini argentine, il suo futuro in ogni caso non promette bene, sia che opti per vendere arance in spiaggia sia che scelga invece di fare un altro film.

Finisco la settimana nel cortile del residence, cuocendo salsicce vicino alla piscina, con il Russo che stranamente è di buon umore. Probabilmente perché ha trovato un amico col quale parlare russo, e anche perché ha mangiato il Borscht, una zuppa tipica russa a Beverly Hills. Basta il nome per farmi tirare su la cena.

Molta gente si sente meglio dopo un quadretto di cioccolata.

È la verità intorno alla quale gira tutta l’America. Convinzioni semplici, alla portata di tutti: la scuola è migliore se i docenti scendono dalla cattedra e si mettono per davvero al tuo stesso livello; la settimana passa più veloce se almeno un po’ la anneghi nell’alcol; e il tuo ego ne esce sicuramente rafforzato se invece di prendere un taxi per uscire la sera puoi noleggiare una Limousine di sedici metri. È tutta una serie infinita di comodi “rimpiazzi”, pronti per l’uso e facili da applicare, per dimenticare ciò che manca e vivere un’illusoria quanto appagante perfezione. Queste prime settimane in America mi hanno aperto gli occhi e permesso di dare il giusto valore alle cose. Sono facili i rimedi che appagano rapidamente la nostra sete di piacere, ma la verità è che in fin dei conti, le cose che ci fanno sentire bene sono quelle che nascono da una forma d’amore più strutturata, invece che da frivoli momenti di superficiale divertimento. Dieci minuti di piacevole chiacchierata genuina e scorrevole con un amico che non si vede da qualche tempo, varranno più di un’intera giornata in una limousine affogata nell’alcol.

Infatti, basta un istante: chiudo gli occhi e comincio a sognare, desiderandolo con tutti i pori della pelle, tutto ciò che mi manca: l’abbraccio di un amico, il bacio di Sheila, un buon risotto ai funghi di mio fratello, la pasta della nonna, lo sguardo di chi è troppo importante, il consiglio di uno zio, l’odore di casa, quello del lago. A volte basta mangiare un po’ di cioccolato per dimenticare tutto. Vorrà dire che continuerò a ingozzarmi di questo appetitoso e ingannevole enorme cioccolato chiamato America.