Le Veglie Di Giovanni

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Le Veglie Di Giovanni
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Le Veglie di Giovanni

1  Start

2  Prefazione

3  La Veglia

4  Funghi

5  La Sagara Del Cinghiale

6  La Pensione

7  Mucca Pazza

8  Romeo e Giulietta

9  Amore

10  R.I.P. (requiescat in pacis)

11  Fai da Te

12  Idillio Pastorale

13  Mario

14  Anna

15  Giovanni

16  Italo e Vergilio

17  Bella

18  Un Affarone

19  Wassili

20  Fausto

21  Amerigo

22  Cronaca Nera

23  Twiggy

24  Il Trattore

Start
LE VEGLIE DI GIOVANNI

MAREMMA

JOHANN WIDMER

Storie davanti al caminetto

“LE VEGLIE DI GIOVANNI “

Titolo dell’opera originale

MAREMMA

TRADUZIONE dal tedesco

RUTH BATTILANI

GIAN CARLO BATTILANI

ISBN vedi copertura

Stiftung Augustine und Johann Widmer, Hrsg.

Augustine e Johann Widmer Fondazione, ed.

© Tutti diritti: Fondazione Johann und Augustine Widmer Basilea 2020

Tutti i diritti riservati, in particolare il diritto di riprodurre, distribuire e tradurre. Nessuna parte dell›opera può essere riprodotta in qualsiasi forma (mediante fotocopia, microfilm o qualsiasi altro metodo) senza l›autorizzazione scritta del titolare dei diritti o archiviata, elaborata, riprodotta o distribuita mediante sistemi elettronici.

www.johann-widmer.ch

ISBN vedi copertura

1a edizione 2020

Prefazione

La MAREMMA è il territorio confinante con il Mar Tirreno compreso tra Pisa e Grosseto.

Prima della bonifica era una palude inospitale dove l’aria cattiva, (la malaria) aggravava o rendeva difficile o persino impossibile la vita delle persone.

Una canzone popolare “Maremma amara” maledice questa zona, che oggi è conosciuta come regione fertile e amata dai turisti.

Per me non è una “Maremma maledetta” come dice la canzone, ma una “Maremma benedetta”, nella quale vivo e lavoro da molti anni. In questa – oserei quasi dire – “paradisiaca” regione sono ambientate le seguenti storie ed è qui che agiscono i miei personaggi.

Persone come me e come te, con tutti i rispettivi pregi e difetti.

Monterotondo Marittimo

(luglio 1999 e settembre 2019)

La Veglia

Qui, nelle campagne della Toscana, per “veglia” si intende un conviviale stare insieme, particolarmente nelle lunghe serate invernali. In modo assai spontaneo un contadino invitava i suoi vicini ad una veglia. Quasi sempre ci si radunava davanti al caminetto, magari sgranando pannocchie di mais, le donne lavoravano con l’uncinetto alle loro belle coperte. Sicuramente ciascuno aveva un bicchiere di vino rosso a portata di mano, le castagne sul fuoco emanavano il tipico profumo di caldarroste. Si discuteva dei problemi attuali dell’agricoltura, si parlava degli eventi del giorno o si stava semplicemente seduti, guardando la fiamma, in silenzio. Regnava un’atmosfera tranquilla, confortevole e piacevole.

Prima o poi qualcuno veniva invitato a raccontare una storia. Toccava a lui la scelta di cosa raccontare. Poteva trattarsi di cose vissute, sentite dire, di tempi lontani o di cose inventate di sana pianta.

Quello che ne saltava fuori era semplicemente incredibile. Qualcuno cui normalmente bisognava strappare le parole di bocca, si svelava un narratore dotato, capace di far diventare un semplice fatto, una epica letteraria. Un altro invece, ritenuto un tipo privo di senso dell’umorismo, faceva ridere tutta la combriccola per il resto della serata. Alcuni bisognava pregarli a lungo per fargli aprire bocca, mentre altri, ad un certo momento, bisognava zittirli perché all’indomani li aspettava una giornata duro lavoro.

La storia raccontata costituiva il culmine della serata, anche se qualcuno magari l’aveva già sentita per la seconda volta.

La trasmissione orale si perde prima o poi, se non viene documentata, ma tempo fa la maggior parte dei nostri contadini aveva difficoltà nello scrivere, se mai ne fossero stati capaci.

Negli anni intorno il 1882 a questa vecchia tradizione si ispirava lo scrittore Renato Fucini per scrivere un libro di storie dal titolo “veglie di Neri”, ormai purtroppo caduto in oblio.

Le seguenti “storie davanti al caminetto” dovrebbero essere intense come un “omaggio” al mio predecessore, nato nel 1843 nel “nostro” paesello.

Con l’arrivo della televisione negli anni ‘70 questo idillio venne brutalmente interrotto, giacché il nuovo intrattenimento risultava più avvincente, divertente e portava dei mondi lontani nelle nostre piccole abitazioni. Arrivarono storie nuove, persino immagini in movimento, bella musica, molta pelle femminile nuda e molto intrattenimento banale. In questo modo si poteva tranquillamente e ben volentieri rinunciare alle “storie della veglia”.

Sia ben chiaro, la televisione non è l’unico “imputato” del declino di questa vecchia tradizione, è soltanto un anello di una lunga catena di cause, come l’abbandono delle campagne da parte dei contadini ormai vecchi, l’automobile che rende la vita mobile e instabile, la generazione dei giovani che sono inclini ad altri tipi di divertimento e tanto altro.

A questo punto però non è il caso di intonare un lamento per il “buon vecchio tempo”. Al contrario, queste “storie davanti al caminetto” dovrebbero trasmettere un soffio di quell’atmosfera e un lieto ricordo di tutte le belle serate di veglia che abbiamo ancora vissuto qui, più di 150 anni dopo Renato Fucini.

Adesso però è giunto il momento delle storie.

Funghi

Nell’estate di San Martino non erano soltanto le vecchiette a godersi il tepore degli ultimi raggi di sole, i vecchietti se ne stavano seduti sul muretto nell’ angolo di Piazza Garibaldi. Stanchi, scontrosi e apatici, si lasciavano riscaldare dai deboli raggi autunnali. Tutti i santi giorni si accovacciavano lì, ingobbiti, muti e introversi, aspettando il prossimo pasto, nella speranza che succedesse qualcosa mentre erano seduti là o forse nemmeno questo. Stavano là per non essere soli, per il bisogno di compagnia, un ottimo rimedio contro i brutti pensieri.

Parlavano poco, la voglia di parlare apparteneva al passato, ai tempi in cui ancora si veniva ascoltati o si doveva essere ascoltati per forza, una volta, quand’ era ancora “il loro tempo”.

Si doveva uscire di scena, fare posto ai giovani, ricevere la pensione, e da quel momento era permesso loro di stare seduti per giorni interi sul muretto. Ed è proprio lì che le loro conversazioni morivano poco a poco. Difficilmente valeva la pena di parlare di un evento, o dei loro innumerevoli acciacchi, delle malattie che gli soffiavano sul collo, o delle chiacchiere di paese o persino della nuova crisi del governo.

No, non ne valeva proprio la pena.

Forse soltanto quando una delle bellezze del paese passava, pavoneggiandosi e sculettando in modo seducente nei suoi jeans troppo stretti, poteva succedere che un brillo di luce guizzasse negli occhi torbidi, qualcuno si leccava le labbra scarne e un altro sospirava profondamente. Per la frazione di un secondo i loro cuori battevano più forte, ma era un attimo, era già passato. Bisognava pure usare riguardo al proprio cuore.

Eh sì, una volta, nei tempi passati, erano ancora dei tipi in gamba, ma adesso tutto è superato. Persino il rassicurante passato si era offuscato a forza di raccontare tante volte le stesse storie, ormai sbiadite e amuffite.

Si taceva, sognando grigia nebbia, aspettando, aspettando il nulla, non aspettando più niente.

Alberto, il minatore disoccupato, scendeva la strada con un cesto sotto le braccia. I vecchi alzavano le loro teste e scrutavano il giovanotto in modo critico.

 

“Sei stato nel castagneto?” chiedeva il vecchio Boni incuriosito.

“Bah, le castagne, non vale nemmeno la pena a chinarsi” ridacchiava il giovane.

Nonno Rossi annusava l’aria e tutto d’un tratto si agitava: “ha dei funghi, ragazzi, profuma maledettamente di funghi, vero?”

Come fulminati tutti scattavano, urlando: “funghi! Facci vedere!” l

Ciò di cui non era stata capace di fare la politica nè le gambe delle ragazze, riusciva a fare questa parola magica, colpendoli nel profondo del loro animo.

Carichi di vitalità giovanile e più veloci di quanto avrebbe loro permesso l’artrosi, scattavano in piedi e si radunavano intorno al giovane – o meglio – al cesto di funghi, annusando con narici tremanti il loro profumo aspro che sembrava diffondersi in tutta la piazza.

Veramente! funghi veri! Funghi teneri e belli, nascosti sotto un panno, una cesta intera, piena di funghi!

Il vecchio Sandro ne afferrò uno con le dita affusolate, annusandolo e ispezionandolo con occhio esperto:

“Io direi che questo è un trycholoma equestre, in fondo un fungo senza valore, non velenoso, ma proprio inutile e duro come il cuoio.”

“Non dire così”, ribatteva Dino, “non mi ricordo il nome, ma conosco benissimo il suo sapore, è eccellente, delizioso, ve lo dico io.”

“Stupidaggini”, lo interrompeva il vecchio Bianchi, “lo conosco bene questo fungo, è una russula grigia, sono sicuro al cento per cento. É assolutamente immangiabile, è un vero fungo da vomito, lo garantisco io, un fungo da vomitare di prima qualità, che ti fa rovesciare le budelle, potrai vedere in faccia l’interiore delle tue interiora. L’anno scorso mio genero ne aveva uno nella pietanza, soltanto uno, e vi dico che hanno vomitato alla grande, tutta la famiglia sarebbe quasi morta. E poi si sentivano male ancora per settimane!”

“Eh, bastava che si guardassero a vicenda, per sentirsi male,” ribatteva cinicamente Dino, “E se quello conosce i funghi altrettanto bene come te, presto dovrà crepare per intossicazione, te lo dico io.”

Per sdrammatizzare la situazione incadenscente ed evitare il litigio, l’ex-sindaco esortava in modo deciso: “Fatemi vedere!”

Dopo un esame critico e breve, sentenziava che si trattasse di un hygrophorus eburneus. I dubbiosi mormorii venivano soffocati con il suo sguardo autoritario che – grazie alla sua carica - padroneggiava in modo eccellente e che già allora riusciva a zittire ogni consigliere comunale brontolone.

Una volta, tempi passati, tempi andati.

Ma adesso persino Tommasino, l’ex-bracciante giornaliero, osava dire la sua:” Si chiamerà come vuole, ma io non mangerai mai un fungo verdognolo, mai e poi mai, perchè il verde non promette nulla di buono.”

L’ex-sindaco faceva finta di non aver sentito questa obiezione piuttosto naif, per di più fatta da un rappresentante del basso ceto sociale, col quale non si era mai identificato, neanche quando era un sindaco “rosso”.

Rivolto verso Alberto dichiarava:” Caro Alberto, ti dico che da questo fungo puoi aspettarti un piacere culinario di prima classe. Questo fungo, preparato in modo adeguato, con una salsa alla panna è il piacere “top” della tavola. La buona carne si scioglierà sulla lingua, più delicata e gustosa di un agnello appena nato. Annaffiato con un bicchierino di Malvasia bianca, ti posso garantire che persino gli antichi romani ti guarderanno di lassù con invidia.”

Poi si intrometteva Filippi, un vecchio ed esperto raccoglitore di funghi, brontolando:

”Ma si è mai sentita una cosa simile? Vino bianco con i funghi? L’alcool, unito a certi funghi, può risultare mortale, ma con questo fungo non importa, perchè, secondo me, è il fungo più mortale che esiste in natura, è una amanita phalloide.”

Presi dallo spavento, tutti indietreggiavano di un passo.

Ma l’autorità dismessa rimaneva fermo nel suo giudizio. “Hygrophorus eburneus, Filippi o non Filippi, e inoltre questo fungo senza vino sarebbe come la vita senza amore. E questo dovrebbe essere un’amanita phalloide? Ridicolo!”

Filippi, tutto agitato, gracchiava:” latino o non latino, se mangerai questo fungo cadrai subito dalla sedia, morto.”

Ma la battuta non veniva approvata perchè tutti sapevano che la morte sopraggiunge solo ore dopo, quando non c’è più niente da fare contro il veleno.

“La settimana scorsa, esattamente a causa di questo fungo, a Bologna sono morte dodici persone,” smorzava Filippi il tono del suo avvertimento.

“Bolognesi”, sentenziava il vecchio sindaco, “Eh, i bolognesi, cosa vuoi che capiscano di funghi, passano i boschi al setaccio e mangiano tutto ciò che sembra un fungo. Tipico, dodici in una volta, una cosa che può succedere solo a loro.”

“Succederà anche a te.” diceva Filippi ad un Alberto perplesso.

“Niente panico,” li tranquillizzava l’ex-sindaco, “questo fungo è commestibile, se non lo fosse, mi mangerai una scopa!”

“Mangi piuttosto questi funghi!” ribatteva arrabbiato l’altro, girando la schiena alla compagnia.

Intanto i vecchietti chiacchieroni avevano disorientato Alberto che voleva finalmente una garanzia sulla commestibilità di questo fungo.

“Nessuno ti può garantire niente su questa terra”, diceva sorridendo il vecchio politico, “Si può soltanto accertare, secondo il sapere e la coscienza. Si può sostenere una tesi che – ovviamente – resta da verificare. La micologia è una scienza ampia e noi profani ne sappiamo ben poco. Io so, per esempio, che questo fungo è commestibile e che viene mangiato senza morirne. In Francia, nel paese dove si mangia quasi altrettanto bene come da noi, questo fungo gode di ottima reputazione, subito dopo il tartufo, il che vuol dire molto. Scambiarlo per un’amanita phalloide, a giudizio umano, è poco probabile, ma c’è da considerare il detto dei romani – errare humanum est – e poi bisogna prendere in considerazione il fatto che i funghi possono cambiare il loro aspetto secondo la loro ubicazione, il terreno o condizioni climatiche.”

Sogghignando uno dei più vecchi rispondeva:” Giusto, giusto. É come cambiare il colore della casacca di certi concittadini e compagni. Anche loro, secondo l’ubicazione e la direzione del vento della politica cambiano colore. Anch’io potrei raccontarvi di certi cambi... dal nero al giallo, al verde-veleno fino al rosso più bello e sgargiante, e poi sono diventati persino sindaco.”

“A chi ti riferisci?” chiedeva l’interlocutore, rosso in viso.

“A nessuno in particolare, stiamo solo parlando di funghi velenosi” sogghignava lo sdentato vegliardo.

Uscita di scena della “lesa maestà”.

Le opinioni sulla commestibilità dei funghi di Alberto si differenziavano sempre di più, come di consueto nelle conferenze degli specialisti. Ma poi il gruppo si scioglieva in fretta, ognuno si affrettava per tornare a casa, prendere un cesto e correre nel castagneto il più velocemente possibile, ma... gambe, cuore e polmoni permettendo.

Nonostante avesse raccolto e mangiato ogni anno questo fungo, Alberto si sentiva disorientato dopo il dibattito di piazza. Ed è per questo che chiedeva consiglio a suo vicino Giacomo, un esperto conoscitore di funghi. La prudenza non è mai troppa.

Un tricoloma autentico così sentenziava con occhio esperto, con una risata sprezzante per le chiacchiere degli anziani in piazza.

Ma per essere veramente sicuro, Alberto invitava il suo vicino insieme alla consorte per la mangiata e Giacomo accettò volentieri.

Mentre gli uomini preparavano i funghi, le rispettive donne si scambiavano nuove ricette. Finalmente la pietanza di funghi era sul tavolo ed era squisita.

Soltanto il fratello di Alberto, anche lui invitato, non li mangiava con piacere. Aveva un rapporto piuttosto conflittuale coi funghi, una vaga sensazione da “roulette russa”. Come di consueto, mentre si gustavano i funghi, la conversazione si spostava sulle tragedie che riempiono ogni anno i giornali di terribili intossicazioni causanti brutali estinzioni di stirpe, o portanti alla cecità, o alla demenza, allora il povero Carlo si pentiva amaramente ad ogni boccone di questa perfida diavoleria ormai ingurgitata.

No, non aveva appettito, proprio per niente, soffrirebbe comunque già di una leggera indigestione.

“Il fungo sarebbe proprio quello che ci vuole in questi casi”, diceva sogghignando il vicino riempiendo di nuovo il piatto del timoroso Carlo, il quale, con sprezzo della morte, eroicamente, deglutiva boccone per boccone.

“Non avere paura dei funghi velenosi” spiegava l’ospite. “Questa storia dei funghi velenosi è soltanto una favola, non esistono funghi velenosi. Tutti i tipi di funghi sono commestibili se preparati nel modo giusto. Persino l’ovolo malefico è considerato una squisitezza in Ucraina, e anche l’amanite phalloide (a torto maledetta) sono entrambe specie commestibili.

“Anche l’amanita phalloide?” dubitava Alberto.

“Assolutamente si”, proclamava Giacomo, “Ma soltanto se è trattato in modo opportuno. Per prima cosa non va lavato in nessuna circostanza, altrimenti l’albume contenuto nel fungo si tramuta in un veleno mortale, quello che sappiamo. Poi, questo è molto importante, deve essere cotto in un buon vino bianco secco, mai nell’acqua, a fuoco lento e poi, scolato bene, addizionato con panna fino a cottura ultimata. Niente sale, per carità! Mentre si mangia bisogna bere abbondante vino il quale neutralizza eventuli particelle velenose. Forse ce ne sono anche nel nostro piatto. Dunque, cin cin e salute per noi tutti, brindiamo di nuovo!”

Carlo, molto turbato, diceva:” Non fate questi brutti scherzi, non è più divertente!”

“Io, fare dei brutti scherzi?” rispondeva Giacomo offeso, “mi conoscete bene, sono magari uno che si sta burlando di cose serie? Sono un bugiardo, uno spaccone, un burattino? No, mio caro Carlo, questo tema è troppo serio per permettersi di scherzarci sopra, ma quello che vi ho detto a proposito della preparazione dei funghi, di tutti i funghi, è la pura verità, sperimentato sulla mia pelle.” E in tono confidenziale continuava:” A voi lo posso dire tranquillamente che non conosco i funghi, proprio per niente, perchè secondo la mia teoria non ha importanza, perchè la tossicità dei funghi dipende unicamente e soltanto della lora preparazione e se si conoscono alcuni trucchi l’amanita phalloide si trasforma in una festa per il palato.”

E a occhi chiusi addentò una porzione di questa leccornia.

Dopo una lunga pausa continuava: “Inoltre le statistiche confermano in modo assoluto che le vittime da avvelenamento non muiono per aver ingerito funghi tossici, ma per un semplice arresto cardiaco, vuol dire che muoiono della paura di aver mangiato un fungo velenoso. La scienza lo chiama funghicidio psichosomatopatologico, cioè morte per suggestione di aver ingoiato un fungo tossico. Molto interessante è il fatto che i sintomi di avvelenamento sono assolutamente simili a quelli di un veleno nervino, come dopo un bicchiere di stricnina.”

Carlo, ascoltando tutte le spiegazioni, era sbiancato e voleva finalmente avere la certezza del suo destino, implorando il suo vicino per tutti i santi e tutto quello che gli era caro, di dire francamente se conosceva i funghi, sì o no.

Invece di una risposta costui guardava il soffitto con l’aria innocente, sospirando e alzando le spalle.

Quando sua moglie si accorgeva che l’atmosfera aveva toccato il fondo, iniziava a ridere:” Ah! Gente, ormai dovreste conoscere bene il buon Giacomo, è un gran furbacchione. Lui, non conoscere i funghi! Abbiamo mezzo salotto pieno di libri sui funghi nei quali si immerge nelle ore notturne e con quello che lui sa di funghi, si potrebbero fare persino due dei professori.”

Risata liberatoria.

Giacomo si difendeva inutilmente, tutti erano sollevati. E quando qualcuno diceva di non dimenticare di bere vino, nel caso si fossero introdotti più di un Verde nella pietanza, tutti tiravano un sospiro di sollievo.

La sua minuziosa descrizione del decorso di un’intossicazione da funghi non arrivava bene a fuoco nelle loro coscienze, già parecchio confuse dal vino. L’atmosfera diventava sempre più allegra. Persino Carlo sembrava aver perso l’iniziale timore.

Infine, si trovavano altre tematiche e a mezzanotte si salutavano dopo aver trascorso una serata allegra e ben riuscita.

Il tasso alcolico nel sangue degli uomini sarebbe bastato per il ritiro della patente a vita. Fortunatamente si potevano ancora percorrere i pochi metri a piedi fino alla propria dimora. Si reggevano ancora abbastanza bene sulle gambe, anche grazie all’aiuto delle mogli.

 

Verso le due Carlo si svegliava.

Si sentiva malissimo, la testa gli doleva e si sentiva da cani.

La nausea aumentava sempre di più. Con fatica si trascinava in bagno.

Questa maledetta bevuta... non la reggeva per nulla... o... Di colpo era sveglio.

Intossicazione da funghi!

Si sentiva una stretta al cuore.

In bagno vomitava. Funghi, funghi! Funghi verdastri, brillanti! Si sentiva sempre peggio.

O si trattava semplicemente di immaginazione? Ma... calma e sangue freddo.

Questi sintomi erano anomali, potevano soltanto dipendere da intossicazione da funghi.

Senso di soffocamento, tachicardia galoppante, fronte gelata, polso quasi impercettibile, fibrillazione cardiaca, attacchi di vertigini permanenti, sensazioni di malattia grave, difficoltà respiratoria, fitte renali, crampi ai polpacci.

Tutto esattamente come aveva descritto Giacomo la sera prima.

Brividi freddi attraversavano il suo corpo, poi sentiva caldo, di nuovo il senso di strozzamento nella gola e quando voleva piegarsi, si sentiva svenire.

A quattro zampe si trascinava lungo il corridoio fino alla stanza da letto di suo fratello.

Origliava.

Grazie a Dio, erano ancora vivi.

Rifletteva se fosse stata soltanto un’illusione o se avesse bevuto troppo.

Nodo alla gola, senso di vertigine, crampi ai polpacci ...

Adesso sentiva suo fratello gemere dal dolore. Tutto era chiaro.

Si trattava di minuti. Stato d’allarme.

Il fratello, insieme alla moglie, apparivano sulla porta, spaventati, pallidissimi, confusi.

Infine, la cognata borbottava qualcosa ... della vergogna di bere di più di quello che si riesce a sopportare. Ma Carlo rantolava: “funghi...velenosi...velenosi. Ho già dei crampi ai polpacci e il mio cuore batte alla follia...oh, mi sento male, male da morire. Ma voi non sentite niente? Dobbiamo andare all’ospedale, subito, lavanda gastrica, altrimenti saremo morti domani, oh mamma mia, io, io devo morire!”

Alberto era bianco come un lenzuolo e quando voleva chinarsi verso suo fratello, anch’esso sentiva questo strozzamento, il coniato da vomito, le vertigini e le ginocchia deboli.

A tastoni arrivava fino in bagno e vomitava.

Carlo sbraitava come un moccioso quando si rendeva conto che anche suo fratello era candidato alla morte.

La moglie di Alberto era diventata insicura e volendo essere onesta, anche lei sentiva questa pressione sullo stomaco, una sorta di vertigine rotante nella testa, esattamente come descritto da Giacomo. E all’improvviso si faceva prendere dal panico.

Via, di corsa all’ospedale!

Correvano, sfrecciavano all’impazzata per la loro vita. Alberto al volante, si capisce, malgrado la vista calante e le gambe tremanti. Fortunatamente c’era poca gente in giro, arrivavano senza problemi all’ospedale.

Il dottore del pronto soccorso capiva subito la situazione, queste vite erano in serio pericolo, appese ad un filo sottile. Carlo sveniva in continuazione. Alberto trovava la lavanda gastrica assai disgustosa e antipatica, si comportava in modo lamentevole.

Stranamente, sua moglie rinunciava a questo trattamento, affermando di sentirsi abbastanza bene e di aver voglia di tornare a casa. Doveva essersi stancata dalla vita. Sembra che queste cose si rivelino in situazioni estreme.

Venivano trasferiti nei letti d’ospedale per ulteriori accertamenti.

L’infermiera di notte misurava il polso, il battito cardiaco, la temperatura e la pressione del sangue.

I due fratelli sentivano arrivare la loro ultima ora, si compativano a vicenda e in lacrime. Carlo che finora si era dichiarato un mangiapreti e ateo all’improvviso pensava di chiamare un sacerdote, perchè non si può mai sapere...

Infine, arrivava lo specialista.

In questo momento Alberto si ricordava del suo vicino.

Giacomo! Deve subito venire qui, altrimenti creperà nel suo letto senza che qualcuno se ne accorga!

Al telefono non rispondeva nessuno. Povero Giacomo! Sarà già morto. O almeno in coma.

Venivano avvisati i carabinieri.

I poliziotti suonavano il campanello. Niente. Nessun movimento.

Mentre si accingevano a buttare giù la porta, finalmente appariva la faccia addormentata di Giacomo.

Cercavano a spiegarli il fatto.

“Sciocchezze!” era il suo commento, “questi funghi erano ok, questi signori hanno bevuto troppo, tutto qui, per altro anch’io, e adesso buona notte.”

Così parlò tornandosene nel suo letto caldo.

Nei titoli di prima pagina dei giornali della mattina dopo non si raccontava di un terribile massacro causato di nuovo da funghi.

Proprio un bel niente.