Sumalee. Storie Di Trakaul

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Sumalee

Storie di Trakaul

Javier Salazar Calle

Traduzione italiana Valeria Bragante

Disegno di copertina © Marta Fernández García

Illustrazioni interne @Elena Caro Puebla

Foto dell'autore © Ignacio Insua

Titolo originale: Sumalee. Historias de Trakaul

Copyright © Javier Salazar Calle, 2022

3ª edizione (rivista)

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Dedicato a Raquel, la migliore amica che si possa desiderare.

Ringraziamenti:

Ad Antonio Fernández per aver contribuito con la sua vasta conoscenza di Singapore e aver revisionato il libro, a Josele González per il fantastico sito web che ha creato per me (www.javiersalazarcalle.com) e agli altri miei lettori zero per aver migliorato questo libro: mia moglie Elena Costoso; mia sorella, Pilar Salazar e mio padre, José Antonio.

INDICE

Thailandia 12

Singapore 1

Singapore 2

Singapore 3

Thailandia 13

Singapore 4

Singapore 5

Singapore 6

Thailandia 14

Singapore 7

Singapore 8

Singapore 9

Thailandia 15

Singapore 10

Singapore 11

Singapore 12

Singapore 13

Thailandia 1

Thailandia 2

Thailandia 3

Thailandia 4

Thailandia 5

Thailandia 6

Thailandia 7

Thailandia 8

Thailandia 9

Thailandia 10

Thailandia 11

Thailandia 16

Thailandia 17

Thailandia 18

Thailandia 19

Thailandia 20

Thailandia 21

Thailandia 22

Thailandia 23

Thailandia 24

Thailandia 25

Thailandia 26

Thailandia 27

Thailandia 28

Thailandia 29

Thailandia 30

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L'Autore

Thailandia 12

Il primo pugno mi lasciò mezzo stordito. Il secondo mi fece crollare a terra. Fui inondato di calci per un paio di minuti. Cercai di raggomitolarmi come una palla e coprirmi la testa come meglio potevo. Uno di loro gridò divertito:

«Tu sì che sai come ricevere i colpi.»

Quando furono stanchi se ne andarono come erano venuti, camminando tranquilli, ridendo. La folla si dissolse rapidamente e quando aprii gli occhi tutto sembrava normale intorno a me, come se nulla fosse accaduto. Ognuno preso dalle sue attività. Legge del silenzio.

E non era la prima volta. Ero stato picchiato sui segni di tutte le precedenti percosse, sui lividi con l'intera gamma di colori in tutte le loro fasi evolutive. Una volta, per un colpo all'occhio, mi rimase la vista offuscata per un paio di giorni, ma finii per riprendermi. In quei due giorni ero convinto che sarei diventato cieco per il resto della mia vita. La certezza era orribile, molto più terrificante della ferita stessa. Un'altra volta, in cui mi schiaffeggiarono sull'orecchio, ebbi le vertigini per una settimana. Avevo anche diverse costole danneggiate, non sapevo se fossero rotte, e dolori di ogni genere in ogni parte del corpo. Mi ricordavo i giorni da giovane in cui ero molto stronzo e ogni giorno picchiavo qualcuno. Avevo imparato che proteggersi la testa era essenziale. Il resto si curava; bene o male, ma si curava. La cosa sinistra di questa situazione, la cosa più umiliante, era vedere come le guardie carcerarie fossero spettatori in lontananza in molte di quelle percosse. Ridevano e scommettevano. Su che cosa? Non lo sapevo, perché mi limitavo a ricevere dei colpi desiderando che finissero il prima possibile. Forse sul fatto che quello fosse il pestaggio che mi avrebbe ucciso.

Provai ad alzarmi, ma un forte dolore al petto me lo impedì. Sul pavimento del corridoio, in ginocchio, cercavo di aprire la bocca il più possibile per poter inspirare la massima quantità d'aria che alleviasse la mia sensazione di sopraffazione, di soffocamento. Mi concentravo sul respiro lento e profondo, ma non ci riuscivo. Mi ci volle un po' prima che il mio battito cardiaco rallentasse per riuscire a respirare di nuovo in modo relativamente normale. Con uno sforzo improbo mi alzai in piedi e, barcollando, appoggiandomi ai muri, schivando altri detenuti che mi ignoravano, raggiunsi la mia cella. Una cella che era mia e di altre quaranta persone.

Una volta lì, mi sedetti sul materassino e rimasi fermo per un po', cercando di svuotare la mia mente e isolarmi da tutto ciò che mi circondava, incluso il dolore che mi attraversava il corpo da cima a fondo. Un corpo che gridava che mi sdraiassi e non mi alzassi per ore, ma sapevo che non potevo farlo. Lo sapevo. Ne andava della mia sopravvivenza. Feci quello che dovevo fare. Ciò che era necessario. Mi alzai e iniziai la mia routine di allenamento. Stretching completo, flessioni, squat ... Far lavorare ogni parte del corpo in modo indipendente e insieme alle altre. Il dolore era quasi insopportabile, ma non mi fermai per questo; anche se piangevo silenziosamente, bagnando il pavimento con le mie lacrime. Non dovevo mai mostrare debolezza. Se volevo sopravvivere, se volevo essere in grado di uscire di lì un giorno senza che fosse nella triste bara di cartone che usavano, dovevo continuare. Finii l'allenamento, sia con i movimenti che avevo imparato dal mio vecchio maestro di boxe, sia imitando quello che vedevo fare in cortile dai prigionieri che si allenavano a Muay Thai, imparando a combattere come loro, con la differenza che loro lo facevano davanti a tutti, in pieno giorno, e io mi allenavo solo quando nessuno mi vedeva. Lontano da occhi curiosi. Preparandomi nell'ombra.

 

Un giorno, cosa che speravo presto, mi sarei sentito pronto e non mi sarei limitato a ricevere i colpi cercando di minimizzare i danni, ma avrei risposto in modo brutale, preciso e senza compassione. Uccidendo se necessario. Sì, avrei ucciso senza esitazione. Quel giorno mi sarei guadagnato il loro rispetto e quella parte dell'incubo che stavo vivendo sarebbe finita. Certo, dovevo essere sicuro di vincere, perché se li avessi affrontati senza trionfare in un modo che non lasciava spazio a dubbi, mi avrebbero ucciso. Questo è certo. Nel frattempo, dovevo solo essere paziente e cercare di rimanere in vita fino a quel momento senza subire danni irreparabili.

Avevo visualizzato nella mia testa quel momento migliaia di volte. Con mille varianti, con finali diversi, in tutti i tipi di scenari, cercando di prevedere ogni possibilità. Presto, molto presto, sarebbe arrivato il mio momento. O sarei morto.

Ma come si era arrivati a questa situazione se solo poche settimane fa ero David, un anonimo esperto informatico negli uffici di un istituto finanziario a Madrid? Quali circostanze mi avevano spinto in questa situazione inconcepibile in così breve tempo?

Mentre combattevo contro la sofferenza, mentre continuavo con il calvario che l'esercizio comportava, passavo in rassegna le terribili circostanze che avevo vissuto. Coloro che mi avevano spinto da una vita tranquilla nel dipartimento informatico di una banca a prepararmi ad uccidere gli indesiderabili che abusavano di me costantemente nella temuta prigione di Bang Kwang, sette chilometri a nord di Bangkok, in Thailandia. Una delle prigioni più pericolose del pianeta. Il pozzo della perdizione dove mi trovavo. La mia fine se non fossi riuscito a inventare un percorso che mi avrebbe salvato.

Singapore 1

Qualche settimana prima...

Mi ci vollero un paio di tentativi per spegnere la sveglia. Il secondo schiaffo la fece quasi cadere dal comodino. Mi sedetti sul bordo del letto e allungai le braccia facendo un lungo sbadiglio. Un altro giorno di lavoro. Come un automa, guidato dalla routine, feci colazione, andai sotto la doccia e mi vestii. Quaranta minuti dopo essermi alzato stavo avviando la macchina.

Sulla strada per il lavoro passai in rassegna i miei ultimi mesi. Segnato dalla rottura con la mia fidanzata di lunga data, non ero ancora riuscito a rialzare la testa. Dopo sette anni, sembrava che si fosse stancata di me e mi avesse lasciato per andarsene con un presunto amico che le avevo presentato io stesso e con il quale, da quanto appresi in seguito, aveva una relazione da molto tempo. Ero stato cieco per tutto quel tempo, senza vedere ciò di cui gli altri mi avevano avvertito. Da allora andavo in giro come un'anima in pena, sempre abbattuto e triste. Desolato. Mi ero rifugiato nella boxe, che praticavo più volte alla settimana. Colpivo il sacco o i miei compagni di allenamento come se quell'adrenalina fosse in grado di restituirmi la mia vita. Inoltre, non mi piaceva il progetto a cui stavo lavorando in banca. A fare dei test tutto il giorno, da solo, con uno strumento noioso e registrazione dei risultati in un documento standardizzato. Risultato corretto, risultato errato, non conformità. A volte guardavo fuori dalla finestra del quarto piano dov'era la mia scrivania e mi veniva voglia di buttarmi di sotto. In senso figurato, ovviamente. Non avevo mai pensato a qualcosa di così drastico come il suicidio. Ero triste, non distrutto. Risultato corretto, risultato errato, non conformità.

Ma ignoravo che quel giorno avrebbe cambiato la mia vita per sempre. Come non avrei mai immaginato.

Dopo mezz'ora di guida e un po' di giri per trovare parcheggio, arrivai al mio posto in ufficio. Accesi il computer e andai a salutare un altro collega. Quando tornai alla mia scrivania feci un veloce riesame, come ogni mattina, delle mail ricevute. Come tutti i giorni: test, test, risultati dei test, domande sui test, richieste di test, rapporti di test e previsioni dei test. Solo un'e-mail era diversa dalle altre. Era del mio responsabile, inviata il giorno prima di notte, chiedendomi di chiamarlo per parlarmi di una questione. Non avevo idea di cosa potesse essere, ma qualunque cosa fosse, qualsiasi cosa implicasse fare un lavoro diverso, anche se solo per cinque minuti, sarebbe stata la benvenuta. Guardai l'orologio. Le nove e mezza. L'ora giusta. Presi il cellulare di lavoro, cercai Valentin nella rubrica e lo chiamai.

«Sì, pronto?» suonò la voce di Valentin.

«Ciao Valentin. Sono David. Ho appena letto la tua e-mail e ti chiamo per sapere cosa volevi dirmi.»

«Buon giorno David. Come stai?»

«Annoiato. Questo progetto che mi hai assegnato mi ucciderà. Dimmi che hai qualcosa per me. Mi serve un cambiamento.»

«Forse. Cosa sai di Singapore?»

«Singapore?» Qui era già riuscito ad attirare la mia attenzione. Mi alzai e andai in una sala riunioni vicina che era vuota. «Beh, non lo so ... Valentin. Un piccolo Paese dell'Asia, con un buon tenore di vita, molto civile, parlano cinese e inglese ...»

«È qui che volevo arrivare!», gridò Valentin. «Parlano inglese, come te.»

Esatto, ero bilingue. Mia madre era americana. Si era innamorata di mio padre ed era venuta a vivere e lavorare in Spagna. Qualche anno dopo la mia nascita, mio padre era scomparso senza dire nulla; mai più avuto sue notizie. Tutti pensavano che avesse abbandonato mia madre, ma lei aveva sempre creduto che gli fosse successo qualcosa perché erano innamorati pazzi. In ogni caso ero cresciuto senza padre da quando avevo due anni, cosa che aveva influenzato molto la mia infanzia e adolescenza, e parlando inglese.

«Allora cosa proponi?»

«David, è nato a Singapore un progetto della durata di circa sei mesi, estendibile a due anni, in cui tu puoi inserirti perfettamente per conoscenze e per lingua. So che è un po' frettoloso, ma ho bisogno che tu mi dica qualcosa tra oggi e domani perché è urgente iniziare a spostare le scartoffie.» Alzai le sopracciglia in attesa. «Ti manderò tutte le informazioni sul progetto e le condizioni alle quali partiresti. Per qualsiasi cosa chiamami e la chiariamo al momento. Cosa ne pensi?»

«Non so cosa dirti, Valentin. Mi prendi un po' alla sprovvista ...»

«Lo so, lo so. Pensaci e domani mi dai una risposta, qualunque essa sia. Non eri stanco di fare i test? Questa è la tua occasione e, se sei bravo, sarà molto di aiuto per la tua possibile promozione quest'anno. Ti mando la mail, ci pensi e domani mi dici. Ehi, se non pensassi che è un lavoro adatto a te, non te lo direi.»

«Va bene, va bene. Domani ti farò sapere qualcosa. In ogni caso, grazie per esserti ricordato di me.»

Quando riattaccai il telefono ero pensieroso. Quando ero arrivato alla mia scrivania avevo già l’e-mail di Valentin nella mia casella di posta. Chiaramente aveva fretta. Aprii la mail e lessi tutte le informazioni. Progetto interessante, Paese con referenze incredibili, buone condizioni economiche che includevano l'alloggio e, soprattutto, andare via da qui per un periodo; lontano dal ricordo della mia ex e da questi fottuti test. Era chiaro. Entro cinque minuti dalla ricezione della chiamata sapevo già quale sarebbe stata la mia decisione. Tuttavia, decisi di aspettare fino al giorno successivo per dare al mio cervello la possibilità di ripensarci, anche se quando prendevo una decisione, e lo facevo molto velocemente, raramente cambiavo idea. Quando tornai a casa, l'unica cosa che controllai era se avevo il passaporto in ordine.

Quello che mi sarebbe mancato davvero era tutto lo sport che facevo: corsa, basket, calcio, paddle tennis, arrampicata... Ero appassionato di tutto ciò che comportava sforzo o rischio, specialmente se era all'aperto. A Singapore invece potevo praticare sport marini che a Madrid erano proibiti e relegati solo all'estate, come le immersioni, la vela o le moto d'acqua. Mi sarebbe dispiaciuto non poterli praticare vivendo su un'isola. Tornai al lavoro. Risultato corretto, risultato errato, non conformità.

Il giorno dopo, a mezzogiorno, chiamai Valentin e lo informai della mia decisione. Sarei andato a Singapore. Mi inviò i dettagli del viaggio e iniziammo a spostare tutta la documentazione. Personalised Employment Pass, EntrePass, Work Permit ... C'erano tantissime opzioni e visti. Alla fine, si scoprì che ciò di cui avevo bisogno era un Employment Pass. Per questo tipo di permesso, era l'azienda a fare richiesta per conto del candidato, ma dovetti tradurre i miei titoli accademici (anche se successivamente a Singapore dovetti far tradurre gli originali da un traduttore ufficiale del posto e aspettare che fossero approvati dal Ministero Lavoro), compilare moduli per assicurazione medica, fotocopie del passaporto, rapporto di lavoro della mia azienda ... Il fatto che non si trattasse di un cambio di azienda ma di un trasferimento e che l'azienda si occupasse di quasi tutte le pratiche burocratiche rese il processo molto più semplice.

Un paio di settimane dopo ero all'aeroporto di Barajas per prendere un volo Qatar Airways diretto a Singapore. Il resto delle persone del team era già lì da un paio di settimane per preparare il lancio del progetto e leggere la documentazione. L'azienda mi pagava un appartamento con tre stanze condiviso con due colleghi; quindi, non avrei dovuto preoccuparmi di correre in giro alla ricerca di un posto dove vivere e avrei avuto l'opportunità di conoscere persone nuove sin dal primo giorno.

Avevo comprato una guida turistica sul Paese e l'avevo letta durante il volo. Il tempo non mi mancava, sedici ore di volo con scalo in Qatar. Bisognava armarsi di pazienza.

La guida iniziava con la tipica presentazione della storia del luogo. A quanto pare, Singapore era una città-stato che era passata di mano in mano e dove ora coesisteva un miscuglio unico di razze e lingue. In effetti, le lingue ufficiali erano quattro: inglese, malese, tamil e cinese mandarino. Due in più di quanto credevo.

Quello che mi importava era che fosse il quarto più grande centro finanziario del mondo (dopo New York, Londra e Tokyo) e il quinto più grande porto merci data la sua posizione strategica. Sulla carta, quasi un paradiso terrestre e un'opportunità di carriera unica. Vedremo una volta lì. Almeno come partenza, sembrava promettente. La guida era piena di ogni tipo di dati, cosa che mi piacque molto. Amavo le cifre e le curiosità su qualsiasi cosa. Mi immersi nella lettura cercando di assorbire, da buon turista, tutte le informazioni utili.

Alla fine, annunciarono che stavamo arrivando all'aeroporto di Singapore. Un aeroporto costruito sul mare. Mi appoggiai al finestrino per guardarlo bene. Sotto di me si vedeva l'intero agglomerato urbano, anche se rimasi piacevolmente sorpreso dalla grande quantità di alberi. Odiavo i luoghi in cui l'unico colore visibile era il grigio del cemento. L'aeroporto sorgeva in un angolo dell'isola e appena sotto c'era un grande porto navale. Il mare intorno era pieno di imbarcazioni di tutte le dimensioni, ma soprattutto di navi gigantesche che caricavano container. Non ne avevo mai viste così tante insieme e in modo così organizzato, formare lunghe file di imbarcazioni parallele tra loro. La città era disseminata di grattacieli e alti edifici. Ai margini dell'isola c'erano lunghe spiagge con una fitta vegetazione alle spalle. Poi vidi una zona di case basse, come complessi residenziali periferici, che terminavano vicino a un ampio fiume attraversato da ponti.

L'aereo stava già volando molto basso su un prato ben curato e vidi la pista apparire appena sotto l'ala sinistra, dove mi trovavo. Presto sentii il carrello di atterraggio colpire il suolo e l'aereo iniziò a frenare. Sullo sfondo, ad un centinaio di metri di distanza, il nome dell'aeroporto era scritto con dei cespugli: Changi.

L'aereo lasciò la pista, dirigendosi al terminal. Non riuscivo a vederlo dalla mia parte, ma potevo intuirlo attraverso i finestrini dall'altro lato. La hostess annunciò dagli altoparlanti, tra le altre cose, che c'era una temperatura di ventisei gradi. Essendo in una zona equatoriale, le temperature erano costanti con elevata umidità e alcune piogge brevi ma intense.

Quasi subito ci permisero di alzarci e andammo a ritirare i bagagli. Con la valigia e lo zaino in spalla, feci un giro per l'aeroporto. C'erano cose curiose per quello che ero abituato a vedere, come aree con Internet gratuito per laptop e persino computer per chi ne era sprovvisto. C'era anche un'area relax con lettini, simili a quelli delle piscine, che guardavano gli aerei e dove le persone ascoltavano musica, dormivano o leggevano.

 

Continuai ad avanzare alla ricerca del binario dei treni. Sugli schermi annunciavano arrivi e partenze da tutto il mondo. Finalmente ero arrivato. Si prendeva qualcosa di simile ad un tram chiamato Skytrain che ti portava al Terminal 2, dove potevi salire su un taxi. Quando il treno si fermò sul binario, rimasi colpito dal fatto che non avesse conducente. Mi lasciò subito al Terminal 2. Nel mezzo c'era un giardino tropicale con un piccolo stagno e bellissimi fiori. Poltrone massaggianti gratuite, lacrime di vetro sospese che salivano e cadevano, stagni con pesci arancioni, posti dove fare massaggi asiatici ... Pubblicizzavano persino una piscina nel Terminal 1 da cui, secondo le foto, si poteva vedere la pista di atterraggio! Incredibile. Nei bagni c'erano dei touch panel con la foto della donna delle pulizie del turno in corso dove si poteva votare cliccando su alcune facce come si considerava la pulizia del bagno. Ovviamente era immacolato. Infatti, non a caso era considerato uno dei migliori aeroporti del mondo. La prima impressione per una nuova persona in città era il suo aeroporto e questo era stato curato alla perfezione.

Finalmente raggiunsi l'uscita e presi uno dei taxi in attesa. Gli mostrai un foglio con l'indirizzo della mia futura casa e si diresse lì. Ero arrivato di sabato e l'azienda mi aveva informato che i coinquilini che mi avevano assegnato mi avrebbero aspettato a casa per aiutarmi a sistemarmi e raccontarmi un po' di tutto quello che dovevo sapere per iniziare a adattarmi il prima possibile. Non c'era possibilità di sbagliare il posto perché si chiamava Spanish Village, e dai... Pueblo Español nella lingua di Cervantes. Luogo curioso dove soggiornare per un gruppo di spagnoli. Non so se fosse una coincidenza o fosse stato fatto apposta, ma il nome era perfetto per provare a sentirsi a casa. L'avevo cercato su Internet ed era nel quartiere di Tanglin, anche se al momento non significava nulla per me.

Iniziai il mio girovagare per Singapore.