Max Leitner

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Clementine Skorpil

MAX LEITNER

IL RE DELLE EVASIONI

ROMANZO

Traduzione di Duccio Biasi


Clementine Skorpil

Laureata in Sinologia e in Storia, scrive per il quotidiano austriaco “Die Presse” ed è professoressa incaricata alla FH Wien. È autrice di romanzi e di numerosi racconti ed è stata insignita di vari premi per racconti brevi. Vive nella Bassa Austria con suo marito e i suoi due gemelli.

Ogni riferimento a persone esistenti è da considerarsi puramente casuale e involontario. Tutte le persone citate, eccetto Max Leitner, sono frutto di fantasia.

INDICE

ICH SAZ ÛF EIME STEINE

SEDEVO SU DI UN MASSO

PARTE PRIMA

I DANNI DELLA TEMPESTA

UNA LEGGENDA

L’IMPIEGO DEGLI ELICOTTERI

IL VALZER DELLA BIONDINA

LA VITA

IL PREZZO DEL NOLEGGIO

F17

TRADIMENTO

TARDA ESTATE

GUERRA

ACCERTAMENTO DEL NUMERO LEGALE

SEDEVO SU DI UN MASSO

ADDIO INNSBRUCK BELLA

PACE

TRAPANARE E LAVORARE

ULTIME DOMANDE

VIAGGIO IN ITALIA

IL VERDETTO

FUORI IN ATTESA

IL PRINCIPIO DI LEITNER

ESSERE FUORI

GUARDIE E LADRI

RESTARE FUORI

NEL PARADISO DELLE VACANZE

HALLALÌ!

MALESSERE

LA GRANDE PAROLA D’ONORE DI UN BANDITO

EUREKA!

PARTE SECONDA

IL MAESTRO

GIOCHI AL COMPUTER

VA’ PENSIERO, SULL’ALI DORATE

PENSARE POSITIVO

PIZZINI

FRATELLINO E SORELLINA

SPINGERE PIETRE SU PER LA CHINA

IL PRINCIPE E LA PRINCIPESSA

MAX IL FORTUNATO

VEDERE NEL FUTURO

BONNIE E CLYDE

PERDUTO

NEL BOSCO E NEI CAMPI

TROVATO!

SOGNO DI UN FURGONE BLINDATO

SCARTOFFIE

ARRIVA L’ISPETTORE

I GIORNI DELLA CANICOLA

CHI NON INTRISE IL SUO PANE DI PIANTO

GIACULATORIA

NAMASTÉ

LEITNER MAX IS OUT

ON THE ROAD AGAIN

CONTRO I MULINI A VENTO

CASABLANCA

CHARLES LINDBERGH

INTIMIDAZIONE

PURGATORIO

BUNGA BUNGA

PARADISO

LEVIATANO

COMMIATO

POSTFAZIONE

RINGRAZIAMENTI

ICH SAZ ÛF EIME STEINE

Ich saz ûf eime steine,

und dahte bein mit beine;

dar ûf satzt ich den ellenbogen;

ich hete in mîne hant gesmogen

daz kinne und ein mîn wange.

dô dâhte ich mir vil ange,

wie man zer welte solte leben.

deheinen rât kond ich gegeben,

wie man driu dinc erwurbe,

der keinez niht verdurbe.

diu zwei sint êre und varnde guot,

daz dicke eim ander schaden tuot:

daz dritte ist gotes hulde,

der zweier übergulde.

diu wolte ich gerne in einen schrîn:

jâ leider desn mac niht gesîn,

daz guot und weltlich êre

und gotes hulde mêre

zesamene in ein herze komen.

stîg unde wege sint in benomen:

untriuwe ist in der sâze,

gewalt vert ûf der strâze;

fride unde reht sint sêre wunt.

diu driu enhabent geleites niht, diu zwei enwerden ê gesunt.

Walther von der Vogelweide

SEDEVO SU DI UN MASSO

“Sedevo su di un masso / con le gambe accavallate. / Su una gamba appoggiai un gomito. / Sulla mano avevo posato / il mento e una guancia. / Così riflettei molto intensamente / su come si debba vivere a questo mondo. / Non seppi trovare alcun consiglio / su come ottenere tre cose, / senza che una vada persa. / Due di queste sono l’onore e i beni terreni, / che spesso si danneggiano a vicenda: / la terza è la grazia di Dio, / che è molto più importante delle altre due. / Io vorrei che fossero tutte nello stesso scrigno: / ma purtroppo non è possibile / che i beni e l’onore nel mondo / e la grazia di Dio in aggiunta / si riuniscano nello stesso cuore. / La loro strada è sbarrata: / la slealtà è in agguato, / la violenza è per le vie, / la pace e il diritto sono feriti gravemente. / Se questi due non guariscono, / quelle tre non potranno essere difese.”*

Walther von der Vogelweide

*Traduzione da: Andrea Palermo, voce “Walther von der Vogelweide”, Enciclopedia Treccani online, www.treccani.it/enciclopedia/walther-von-der-vogelweide_(Federiciana)/

PARTE PRIMA

I DANNI DELLA TEMPESTA

Aria, aria fresca. L’aria fresca è ovunque, basta respirarla. Possono farlo tutti, perché l’aria non costa nulla. Nemmeno ai più poveri tra i poveri – gli affamati d’Africa e i cenciosi degli slums – manca l’aria. L’aria non ha sostanza: non è bella e non è brutta, non è dura né soffice, non è rumorosa né silenziosa, non emette suoni stridenti né gradevoli. Cosa ci troverà la gente nell’aria fresca? Già da bambino, quando sua madre lo spediva fuori di casa per stare tranquilla con i suoi uomini, Fausto non amava per niente l’aria fresca. Restava lì per ore nel cortile di cemento, fermo accanto allo stenditoio a fissare le finestre di casa. Solo molto tempo dopo arrivò a capire che neppure sua madre era contenta di stare con gli uomini, che quello era l’unico modo per evitare che entrambi fossero costretti a respirare aria fresca per sempre, giorno e notte. A scuola non andava meglio. Con il buono o il cattivo tempo il maestro mandava i bambini in cortile a giocare a pallone o a sgranchirsi le gambe. Ma la maggior parte dei suoi compagni non correva. Stavano fermi in piedi intorno a lui, anzi gli si avvicinavano, lo spintonavano, lo prendevano a calci, lo picchiavano e lo chiamavano figlio di puttana. Già allora Fausto odiava l’aria fresca. Tutto questo l’ha appena raccontato a Max. Gli ha raccontato persino la storia dei panini. Erano deliziosi, pieni di maionese. Fausto li usava per insudiciare i bulli più grandi di lui in cortile. Fausto aveva spesso fame. Anche Max da bambino sentiva i morsi della fame. Ma non ne parla. Perché non interessa a nessuno.

 

Max insiste: andiamo a fare due passi. Fausto protesta, poi chiama la cameriera. Lei arriva strascicando i piedi, si fa pagare i due cappuccini e il calice di spumante che la donna ha bevuto. Max osserva Fausto di profilo: è sobrio. Attraversano veloci piazza Walther. La stagione turistica è alle porte, c’è un gruppo di anziani probabilmente sceso da un pullman. Max coglie qualche frammento di conversazione, hanno l’accento viennese, almeno così gli sembra. Forse anche carinziano, o stiriano. Comunque non tirolese. La guida li sta indottrinando su Walther von der Vogelweide. Cose che Max ha colto al volo centinaia di volte passando di lì. Mettendo insieme tutti i pezzi che ha ascoltato potrebbe snocciolare l’intera biografia del poeta, con la stessa noiosa cantilena di questa signora paffuta con l’ombrellino verde.

Passeggiano lungo i vicoli fino all’auto. È un’Alfa Romeo rosso scura, nuova di zecca. È vistosa, poco adatta per gli sterrati, però è elegante. Ormai sono quasi usciti dalla città, Max guida in silenzio mentre Fausto guarda fuori dal finestrino. Si stanno dirigendo a sud tra le colline, nel verde, dove non c’è nessuno. Noo! Vuole andare davvero a camminare? Fausto lo guarda, gli angoli della bocca piegati in giù, in un’espressione di scontento.

Lasciano la Statale 38 e proseguono per San Michele. Improvvisamente dalla boscaglia, in cima alla collina dove ci sono le fortificazioni, spunta la chiesetta del Calvario, gialla e bianca con le due torrette incappucciate di rosso. È un segno divino, sia lodato Gesù Cristo.

Max arresta l’auto. Camminano lungo un sentiero, a destra e a sinistra ci sono solo vigneti. Alla testa dei lunghi filari le rose profumate tendono al cielo i petali rosa, gialli, rossi e bianchi. Non ci sono ragnatele biancastre a ricoprire le foglie e i boccioli, a succhiarne via la forza vitale guastando il vino ai contadini. Dalle viti pendono i primi grappoli acerbi. Fausto borbotta che ha piovuto e che il sentiero è scivoloso, finirà per rovinare le scarpe nuove. Max ride: per lo meno non è ripido. Poi gli racconta dell’informatore e gli spiega il percorso. All’inizio di agosto, la data precisa si saprà in seguito. Il furgone arriverà da sud, lo bloccheranno all’uscita Innsbruck Süd. La distribuzione delle armi avverrà alle cinque del mattino, l’azione si svolgerà di sera, poco prima del tramonto.

Seguiranno il furgone dal Brennero. Secondo l’informatore dentro ci sarà qualche centinaio di milioni. Di tutte le valute: scellini, marchi tedeschi, sterline.

L’espressione di Fausto tradisce una certa impazienza. Va bene, va bene, ne hanno parlato tante volte… È irritato, vorrebbe tornare da quella donna. Max disapprova. Quando si farà sul serio sarà lui a metterci la faccia. Tornano all’auto. Non c’è vento, in cielo neppure una nuvola.

Max apre di scatto la portiera dell’auto, sale e riparte in direzione della città prendendo vie traverse. Alla stazione ferroviaria fa scendere Fausto, poi prosegue per Bressanone e su fino al suo paese lungo la strada tutta a curve. Continua a rimuginare sui tempi dell’operazione. Le armi. Quando e dove prenderle? Armamento pesante. Mitra, bombe a mano, pistola. Quante munizioni? Per lo meno otto caricatori per il mitra e qualcuno per la pistola. Vanno tenute a portata di mano sul tappetino dell’auto. Non deve volare in giro niente, devono essere sistemate bene. Il mitra all’altezza dei piedi, la pistola addosso. La sera inizia a cadere una pioggia fine, chissà da dove sono sbucate le nuvole.

Max corre verso il fiume, inseguito dai carabinieri. Ma non è un fiume qualsiasi, è immenso come il Rio delle Amazzoni. Max ci si tuffa dentro così com’è, con addosso la camicia e i pantaloni. Nuota a perdifiato, ma le onde si fanno sempre più alte. Alla fine qualcuno gli lancia un guinzaglio, lui lo aggancia al collare e si lascia trascinare a riva. Il collare gli impedisce quasi di respirare.

Di prima mattina va da Notburga. La trova seduta nella Stube intenta a gettare dei pezzetti di pane nero nel caffelatte. Max si siede accanto a lei e le racconta di Fausto, quella testa calda. Ma non fa parola del sogno. Non sia mai che Notburga venga a sapere che aveva addosso un collare e che lo tenevano al guinzaglio come un cane.

“Ti beccheranno”, borbotta Notburga. “Tu e tutta la tua banda di teppisti.” Sorbisce con il cucchiaio la sua zuppa di pane venostano. Poi si alza, va all’angolo con il crocifisso, si inginocchia tra San Martino e Santa Caterina con le mani intrecciate: Buon Gesù, fa’ che Max metta giudizio. È sempre lo stesso rituale. Alzarsi, sospirare – ritornare al tavolo.

Max promette che con il denaro le comprerà un bel vestito. Così non dovrà più andare in giro con i grembiuli tutti consumati. Lei si passa la mano sui capelli grigi raccolti a crocchia sulla testa: una ciocca ispida che non è riuscita ad annodare le penzola tutta sghemba davanti al grosso naso e lei la rimette a posto con gli altri capelli tenuti fermi da uno spillone marrone di corno.

“A cosa mi servono dei vestiti alla moda?”, gli domanda. “Credi che lassù in cielo possa piacere di più al Signore?” No, certo che no.

Notburga afferra Max per il polso. Lui fissa le sue dita deformate dalla gotta. Dove sono finiti i muscoli che danno forza a queste dita? Eppure gli stringono il polso come una morsa.

“Non venerdì”, dice Notburga.

“Perché no?”

“Non andrà bene, lo sento nelle ossa. Alla fine vi prenderanno.”

Franco è seduto al caffè. Sta già spendendo i soldi in anticipo. Accanto a lui c’è una di quelle che costano parecchio, sorseggiano tutti e due un Campari soda. Max non ama le puttane. L’uomo rende già felici le donne, non deve pagare per poterci andare a letto. Non deve essere lui a metterle orizzontali, devono farlo da sole, spontaneamente.

La ragazza costosa indossa un abito beige. Due gambe lunghe e sottili dai polpacci morbidi spuntano dalla gonna corta e aderente. È molto giovane, avrà sì e no vent’anni. E l’abito è di Max Mara o di Armani. Anche quelle a buon mercato vestono Armani, c’è scritto a lettere colorate e luccicanti sul petto delle loro T-shirt lunghe. Quelle a poco prezzo sono tutte malate, quelle costose quasi tutte. Max dice a Franco che deve parlargli. La tipa costosa scompare.

Franco è giovane, le cose se le lascia dire, per questo Max l’ha reclutato. Quelli più vecchi, quelli che hanno raggiunto i quarant’anni ancora a piede libero, pensano di essere più furbi di Max. Ma nessuno ha la sua esperienza, nessuno di loro è capace di avere una visione d’insieme come lui. Appena sentono la cifra di cento milioni di lire il cervello gli va in pappa, come il pane venostano inzuppato nel caffè di Notburga.

Giusto due chiacchiere. Ripassare tutto ancora una volta. Partenza dal paese alle dieci del mattino. Serve un fuoristrada, spazioso, con quattro ruote motrici. Le armi sul tappetino. Non sparare se non è indispensabile.

Alle dieci i ragazzi sono di fronte alla porta, fumano, sembrano tesi. Guidano per un tratto di bosco, poi Max distribuisce i mitra e le pistole, le munizioni vanno messe in tasca. Franco, Fausto e quello con il naso largo e le braccia corte che sembrano di cemento a forza di steroidi sono infilati in jeans stretti e camicie chiare. Sopra hanno dei gilet con le tasche per le cartucce. Solo Max ha addosso la mimetica, come è giusto. Siamo o no in guerra?

Partono. Sopra di loro il cielo è grigio come piombo, le nuvole sono cariche di pioggia. Nei giorni scorsi il tempo era instabile, parecchio freddo per la stagione. Sono i primi di agosto, non è neppure Ferragosto, ma appena il tempo cambia l’aria diventa subito autunnale. Max guarda verso l’alto, al Brennero sta iniziando a piovigginare. Le auto davanti a loro si addensano sempre più, prima vanno a settanta all’ora, poi a sessanta, poi sono ferme. Max aziona i tergicristalli. Il Brennero non è un confine meteorologico? Lassù magari splende il sole.

Il Brennero sarà anche un confine meteorologico, ma lassù sta piovendo a dirotto. L’acqua picchia forte sul parabrezza, sembrano colpi di cannone. Sull’Europabrücke forma delle pozzanghere. Domani da qui qualcuno salterà nel vuoto legato a una corda elastica. Oggi no, non è proprio il caso. Franco è parecchio indietro, ma dopo il ponte la strada è libera. All’uscita sud di Innsbruck Max rallenta. Sale per una stradina, raggiunge una zona che ha esplorato tante volte. C’è un punto riparato da cui si vedono arrivare le auto. Stanno aspettando un piccolo furgone grigio. Ma tutte le auto sono grigie ed è difficile capire quanto siano grandi. Non si riescono neppure a leggere le scritte. I tergicristalli fendono la pioggia, riempiono il parabrezza, si abbassano e sul vetro si forma di nuovo un muro d’acqua.

“Ci inzupperemo completamente”, urla Franco nel walkie-talkie.

“Sì, merda!”

“Con questo tempo schifoso come facciamo a riconoscere il furgone della Prosegur?”

Aspettano ancora. Le auto sfrecciano veloci sotto di loro, con questo tempo è da pazzi. Ci saranno certamente degli incidenti. Ma qui non c’è alcun pericolo. Non ci sono strettoie o rallentamenti, niente che possa aiutarli a identificare il portavalori.

“Rinunciamo”, dice Max.

Invertono la rotta. Il mitra sbatte sul tappetino, le cartucce premono contro il petto.

Max entra velocemente in autostrada. Il commando è carico di adrenalina. Max non riesce a smettere di imprecare e di picchiare le mani sul volante. Il piede destro preme sull’acceleratore come se li inseguisse il diavolo in persona. Calma! Se la polizia stradale lo ferma per eccesso di velocità e dà un’occhiata sul tappetino o nel bagagliaio… Notburga ha bisogno di un televisore nuovo, sul suo non si vede più niente. In casa ci sono tante cose da sistemare. Un divano nuovo di pelle, Kathi vorrebbe un Rolf Benz. E la bimba una console per i videogiochi. Non oggi, pensa.

Si fermano a un distributore, bevono un caffè e tornano alle auto. Punto della situazione domattina alle undici da Franco.

La ragazza di Franco ha messo sul tavolo caffè nero e pane croccante, bevono tutti rumorosamente dalle tazze decorate con le solite massime: “L’amore è…” La caffeina non riesce a vincere la stanchezza, sembrano tutti quanti un po’ pallidi e hanno le occhiaie.

“Stanotte non ho dormito”, annuncia Fausto.

“Cosa ci insegna il fallimento di ieri?”, chiede Max con un’aria dura. Tacciono.

“A portarci un giubbotto impermeabile?”, domanda Franco.

“A guardare le previsioni del tempo!”, lo fulmina Max.

“Ma va’, non ci azzeccano mai”, gli risponde Franco.

“Erano giuste! Avevano previsto la pioggia.”

“E allora se lo sapevi perché siamo andati?”

“Non lo sapevo. La commessa del negozio Despar mi ha detto che avevano avvertito del brutto tempo da giorni.”

UNA LEGGENDA

C’erano una volta tre cavalieri. Si chiamavano Osso, Mastrosso e Carcagnosso e vivevano pacificamente in Spagna. Ma un giorno la sorella di uno di loro subì violenza, e i tre cavalieri si vendicarono del colpevole e dovettero fuggire. Salirono su una nave e raggiunsero l’isola di Favignana, dove si nascosero nelle grotte. Gli abitanti dell’estremo sud d’Italia erano poveri, avevano bisogno di cibo, vestiti, alloggio e di qualcuno che li guidasse. Così i tre cavalieri fondarono una società segreta dalle regole rigide. Perché erano uomini d’onore.

 

La regola più importante era l’omertà. Non rivelare mai niente a nessuno. Se qualcuno non avesse rispettato questa regola, i boss della società segreta avrebbero dovuto ucciderlo. Perché erano uomini d’onore.

Poi ci fu una guerra. I nobili possedevano molte terre. Non potevano sorvegliarle da soli, perciò chiesero ai boss della società segreta di diventare i loro scagnozzi. I piccoli contadini malvagi volevano portare via ai nobili tutti i loro averi. E i boss dovevano ucciderli. Perché erano uomini d’onore.

In quel periodo un fantasma si aggirava per l’Europa e raccoglieva intorno a sé altri spiriti maligni. Volevano rovesciare l’ordine stabilito da Dio. I boss dovettero combattere contro questo fantasma e gli spettri suoi seguaci. Perché erano uomini d’onore.

Così i boss salvaguardarono la moralità. La domenica e a ogni festa comandata andavano in chiesa e pregavano, e quando c’era una processione portavano le teche e le reliquie e mettevano molto denaro nella borsa delle elemosine. Perché erano uomini d’onore.

Più avanti due grandi guerre imperversarono per il paese. Si combatteva in tutto il mondo e di conseguenza gli uomini divennero così poveri che seguivano il fantasma a frotte. Allora i boss dovettero scendere di nuovo in campo contro il fantasma. Perché erano uomini d’onore.

Ma per farlo avevano bisogno di molti soldi. Perciò la società segreta fu costretta a mettersi in affari e iniziò a commerciare con ogni angolo del mondo. I suoi membri commerciavano esseri umani, donne che offrivano i loro servigi amorosi ed erbe officinali che facevano fare alle persone dei sogni piacevoli. E aiutavano anche le persone a trovare fortuna nel gioco. Perché erano uomini d’onore.

I signori del paese erano buoni sovrani. Aiutavano i boss e i boss aiutavano loro. Perché erano uomini d’onore.

Poi però l’accumularsi di queste ricchezze favolose indebolì i sovrani e così incaricarono i giudici di combattere contro i boss. I giudici iniziarono a perseguirli e cercarono di recidere tutti i rami della società segreta. I boss dovevano uccidere questi giudici. Perché erano uomini d’onore.

Oggi si parla molto delle vittime innocenti della mafia, delle persone assassinate da Cosa Nostra, dalla camorra e dalla ’ndrangheta. Ma ci sono anche casi molto meno spettacolari: uno di questi riguarda il sottoscritto. A sei anni fui strappato via dalla calda terra del sud, sradicato e trapiantato nel freddo e inospitale nord.

Mio padre era cresciuto in un paese fuori Napoli. Si dice che ci sia un abisso tra città e campagna, che le persone in campagna avrebbero meno opportunità. Nel paese di mio padre tutti potevano emergere, si provvedeva ad allevare i bambini, istruirli e avviarli al lavoro. Solo i fifoni e gli scansafatiche, quelli che si rifiutavano di imparare il mestiere, avevano dei problemi. Mio padre era uno di questi indolenti. Più tardi sostenne che si sarebbe fatto arrestare persino se a un passante fosse caduto il portafoglio dalla tasca dei pantaloni proprio davanti a lui e gli fosse toccato semplicemente raccoglierlo. Non era proprio tagliato per fare il borseggiatore, il truffatore o l’assassino. Anche a scuola questo suo difetto caratteriale era emerso presto. La sua pagella era tutta piena di dieci, solo di dieci. A casa aveva eretto un muro di libri intorno a sé. Eppure la sua vita non era piacevole, almeno fino a quando i suoi genitori non lo mandarono al liceo a Napoli. Più tardi frequentò l’università, un vero covo di vigliacchi e di falliti. In ogni caso io sono stato concepito laggiù, almeno così si dice. In un’aula universitaria di chirurgia, dove mio padre aveva conosciuto mia madre. Anche se dire che i due fossero andati subito al sodo non è esatto. Si incontrarono spesso, andarono insieme a una festa studentesca ed è allora che accadde. O forse avvenne solo in una delle notti successive, chi può dirlo con precisione?

Questa leggenda, comunque, viene raccontata nella famiglia di mio padre per riabilitarlo. Sua madre era preoccupata che lui potesse essere dell’altra sponda perché – anche se era già alla fine dell’università – non aveva ancora una ragazza. Quando infine mia madre comparve improvvisamente all’orizzonte, si sposarono subito.

Mio padre lavorava in ospedale e lì si trovò di fronte dei vecchi nemici. I quali tutto d’un tratto fecero finta di non averlo mai insultato, maltrattato o addirittura pestato anni addietro nel cortile della scuola o sulla strada per tornare a casa. Fecero a mio padre un’offerta: gli chiesero se poteva togliere a questo o quell’altro simpatico giovane una pallottola dalla pancia, o procurare della morfina dalla farmacia della clinica. Un piccolo gesto per rinsaldare la vecchia amicizia e proteggere la sua famiglia – la graziosa moglie e il principe ereditario.

Mio padre si rifiutò. A un congresso conobbe un collega che aveva un ambulatorio in Alto Adige. Il bonario e un po’ noioso Alto Adige, in cui persino i terroristi avevano una mentalità talmente piccolo-borghese da fare solo danni materiali e da scusarsi prima di far saltare i piloni dell’alta tensione. Nel paese vicino si era liberato proprio allora un ambulatorio. Bieder, piccolo-borghese: il suono di questa parola per lui era evocativo quanto per gli ebrei la Terra Promessa. Non avrebbe più dovuto far rotolare incessantemente la sua pietra come Sisifo. E così poté lasciarsi conquistare dalla sua seconda grande passione, oltre all’essere piccolo-borghese: camminare inutilmente su e giù per le montagne. Ed io con lui. Io, Fabio Pagano, un ragazzetto delle pianure campane abituato ai piaceri della spiaggia, ogni domenica dovevo raggiungere faticosamente la vetta di qualche montagna vestito da perfetto sudtirolese con i pantaloni grigi alla zuava, i calzettoni di lana ruvida, la camicia a quadretti bianchi e rossi e il cappello con il pennacchio di peli di camoscio. E alla fine arrivavamo a un rifugio dove ci ingozzavamo di panini imbottiti di salsiccia di fegato, salamini affumicati chiamati Kaminwurzen e mele dall’aspetto rubicondo e bevevamo acqua pura di fonte. Il cappello con il pennacchio mi rifiutavo di portarlo, una piccola vittoria in questo insulso mare di indegnità.

Dovetti imparare una nuova lingua. Il che è una vera benedizione per il cervello di un bambino, perché si sa che i bambini assimilano tutte le frasi e le parole nuove che passano loro accanto. Solo l’1,27 per cento dei bambini fa fatica a imparare una lingua straniera, ci sono degli studi che lo confermano, mentre solo il 5,32 per cento degli adulti riesce a impararla alla perfezione o quasi.

Nella nostra famiglia solo mio padre rientrava in quella statistica. Ecco perché aveva solo pazienti di lingua italiana. Quelli che si ostinavano a parlare in tedesco li mandava al volo da mia madre, anche se non avevano problemi urologici ma solo i piedi piatti o qualche chiazza sulla pelle.

Arrivò il momento di andare a scuola. Mia madre si rivelò una spietata sostenitrice della stimolazione cognitiva e mi spedì alla scuola elementare di lingua tedesca. Il tedesco lo capivo a malapena, a parlarlo non riuscivo proprio. In classe non avevo nessun amico e restavo in silenzio. Tutto quello che accadeva durante la lezione mi passava davanti come un film muto. In compenso avevo tanto tempo per studiare le preferenze della maestra in fatto di moda. La signorina Linninger era una donna piuttosto anziana e grassa, con i capelli biondi che tendevano a diradarsi. Il suo guardaroba comprendeva due vestiti d’ordinanza per la scuola, uno verde pisello e uno grigio chiaro. Avevano entrambi lo stesso taglio ed erano di lana sottile, cosa molto pratica perché così la signorina Linninger poteva indossarli sia in estate che in inverno. I vestiti avevano il colletto ed erano abbottonati fin sulla pancia. La gonna era cucita alla giacca. Sul davanti i vestiti arrivavano appena sopra il ginocchio, sul dietro erano più corti. Se allora avessi già posseduto le giuste nozioni fisico-matematiche sullo spostamento dei corpi avrei saputo perché era così. I due vestiti avevano un altro vantaggio non da poco: la signorina Linninger poteva anche spiegazzarli, ma nonostante questo mantenevano sempre la loro forma. Insomma, li sfruttava per bene.

Nei giorni di festa grande la signorina Linninger portava un abito di colore beige. In effetti era una mise alquanto particolare, perché la gonna e la giacchetta erano elementi separati. Anche se la lunghezza della gonna non era diversa dal solito: davanti sopra il ginocchio, dietro fino a metà della coscia.

Una di queste feste era il giorno della distribuzione delle pagelle. Una come quella di Fabio Pagano la maestra non l’aveva mai consegnata. Era piena in gran parte di brutti voti – in una scuola elementare! La mamma si precipitò con la pagella dalla maestra e quest’ultima disse che poteva darmi solo degli uno e dei due perché non aprivo mai bocca e mi limitavo a copiare dalla lavagna in modo meccanico; di capire non se ne parlava neppure. Solo in aritmetica riuscivo a tenere il passo con gli altri bambini, ecco perché nella mia pagella spiccava un luminoso dieci.

La mamma mi trascinò da uno psichiatra, il quale constatò che non sapevo il tedesco perché non aprivo bocca. Nella mia infanzia la storia dell’uovo e della gallina non era pura teoria. Mia madre minacciò di chiudere l’ambulatorio e di fare esercizi con me tutto il giorno. Io restavo imperturbabile, non dicevo una parola.

In tutta la scuola c’era un solo bambino i cui risultati scolastici erano scarsi come i miei. Era due classi avanti a me e si chiamava Max Leitner. Già allora si rifiutava di collaborare con le autorità. A quell’età l’unica autorità con cui avevamo a che fare era quella scolastica ed era a quella che lui si ribellava. Marinò la scuola così tante volte che alla fine fu trasferito a Cesenatico. Cesenatico! Una città di mare. Ogni giorno sole, spiaggia, bagni, conchiglie da raccogliere. E soprattutto poter parlare, con chiunque capiti a tiro. Feci di tutto per poter andare a Cesenatico ma a nessuno veniva in mente di mandarmi laggiù. In compenso nella mia cameretta si accumulavano i fogli con gli esercizi e i libri: “Impariamo il tedesco con Hansi e Petzi”. Se facevo bene i compiti ero ricompensato con un vasetto di miele dall’orsetto Petzi o con delle carote dal coniglietto Hansi. E dovevo incollarle su un quaderno.

Raccolsi tante carote di carta e così per qualche domenica ebbi il permesso di restare a casa a guardare la televisione. Quando persino mia madre si rese conto che invece di un piccolo Einstein stavo diventando un analfabeta mi tirò fuori dai guai. Potei passare alla scuola in lingua italiana. In tedesco ero persino il migliore. È una lingua complicata e poco affascinante che solo in seguito mi è diventata utile.