Il Cielo Di Nadira

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Il Cielo Di Nadira
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Giovanni Mongiovì

IL CIELO DI NADIRA

Regnum

In copertina: gli occhi di Luana (per gentile concessione);

scudo normanno, Atene, Museo della Guerra.

giovannimongiovi.com

Copyright © 2019 - Giovanni Mongiovì

Non serve che io scriva dell'indescrivibile,

che azzardi la descrizione dell'immensamente perfetto,

la consapevolezza a cui risorgo è già poesia,

la più alta e monda, scritta da mani intangibili,

concepita da mente eccelsa,

ispirata da un cuore smisurato;

amore mio, siamo finiti nell'arte di Dio:

"che un essere ne ami un altro con amore sempre più indissolubile".

Che io ami te ogni giorno di più...

A Valentina e Tommaso... lustru dê me òcchii...

Premessa

PARTE I - LO STRANIERO LEGATO AL PALO

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

PARTE II - LA GUERRA DEI QĀ’ID

Capitolo 15

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

PARTE III - LA TREGUA DEL MUḤARRAM

Capitolo 22

Capitolo 23

Capitolo 24

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28

PARTE IV - IL RITORNO DI CONRAD

Capitolo 29

Capitolo 30

Capitolo 31

Capitolo 32

Capitolo 33

Capitolo 34

Capitolo 35

PARTE V - LE TRAME DEL POTERE

Capitolo 36

Capitolo 37

Capitolo 38

Capitolo 39

Capitolo 40

Capitolo 41

Capitolo 42

PARTE VI - LA MALEDIZIONE DI PENTESILEA

Capitolo 43

Capitolo 44

Capitolo 45

Capitolo 46

Capitolo 47

Capitolo 48

Capitolo 49

PARTE VII - LE CONDIZIONI DELLA LIBERTÀ

Capitolo 50

Capitolo 51

Capitolo 52

Capitolo 53

Regnum - Il cercatore di coralli

Opere dell’autore

Biografia

Premessa

Per quanto mille fiumi sfoceranno a mare, essi non avranno mai il nome delle acque in cui si gettano, per il ragionevole motivo che il mare non può essere la ragione di un fiume. Allo stesso modo il principio non può ricalcare la definizione del fine, né può superare la sua importanza. Si guardi alla sorgente di un fiume, alle alte rupi da cui sgorga, se ne assaggino le acque, e gli si dia un nome in base a questo.

Non è l’azione a fare l’uomo, non è la mano a compiere l’atto, bensì il cuore, lì dove sorge il motivo, la ragione di tutto. L’essenza del peccato originale non fu cogliere un frutto, ma tutto ciò che mosse quel gesto.

E così la cupidigia può nascondersi in ogni cosa, nella carne succulenta, nel rossore del vino, nelle forme di una fanciulla… o almeno in tale maniera giustifica chi cede. Ma la verità è che essa si nasconde esclusivamente negli occhi e nel cuore di chi sente quell’incendio consumante, quella fiamma divoratrice che è la concupiscenza.

Tra gli illustri di questa gente di antica stirpe greca si narrava una storia, una di quelle sopravvissute al battesimo del cristianesimo e alla spada dell’Islam. Pentesilea, potente amazzone, fu chiamata a combattere in difesa dei troiani. Era una donna bellissima e, come spesso accade nei miti greci, le dee la invidiavano. Per tale motivo Afrodite la volle punire con la più terribile delle condanne: ogni uomo che l’avesse vista avrebbe provato un così inarrestabile desiderio di averla che avrebbe per certo cercato di violentarla. Pentesilea si nascose sotto la sua armatura per tutto il tempo che poté, sennonché, durante una battaglia, Achille la uccise e la spogliò delle sue armi. Solo allora fu evidente come la condanna di Pentesilea superasse la stessa morte… Achille non seppe resisterle…

Al di là del mito, può esistere davvero qualcosa di così straordinariamente irresistibile e maledetto da scuotere irrimediabilmente i desideri di chi lo sta a guardare? Una bellezza di tale potenza da lasciar emergere le malizie dei cuori, ma anche ambivalente, in quanto capace di far affiorare le nobili virtù nell’animo dei meritevoli.

La storia che segue è la prima di tante… la prima di tante storie di uomini e donne, e del sangue che lega ognuno di questi al proprio passato e al veniente futuro. È la storia di questa terra, dei suoi popoli, delle sue guerre, dei suoi vizi e dei suoi sopiti pregi. Tuttavia quella che segue è proprio la prima, ed essendo tale è quindi l’originale… e dunque, in quanto originale, non può che parlare del medesimo desiderio che portò, in principio, l’uomo al suo primo peccato.

PARTE I - LO STRANIERO LEGATO AL PALO

Capitolo 1

Inverno 1060 (452 dall’egira), Rabaḍ di Qasr Yanna

Lì per quella valle in cui le norie1 non fermano mai il loro girare… lì dove il monte di Qasr Yanna poggia le sue radici… lì sul quel pianoro dov’è il Rabaḍ2

 

La valle ai piedi dell’antica Enna si perdeva verso oriente; secoli di ingegno arabo l’avevano resa più fertile di quello che altrimenti sarebbe stata. Guardando ad ovest, QasrbYanna3, l’ombelico di Sicilia, si stagliava alta sul monte. Guardando a est, giù dal pianoro, ci si perdeva con lo sguardo in decine di colline, boschi, prati, pascoli e torrenti… ma anche nelle alte ruote idrauliche, in grado di sollevare l’acqua dalla vallata... e nei canali, scavati per trasportarla agli orti. Il villaggio non aveva molte case, forse una trentina, e solo una piccola moschea, come a testimoniare la poca importanza del luogo.

Era appena passato mezzogiorno e per un terreno destinato alla coltivazione di zucche da fiaschi due uomini trascinavano per le ascelle un giovane quasi trentenne. Con i piedi questi sembrava volesse fare i solchi che generalmente fa l’aratro, tanto li puntava al suolo nudi e recalcitrava alla cattura. Teneva lo sguardo basso, e a coloro che osservavano la scena mostrava solo la testa e i suoi capelli corti. Era inverno e adesso le caviglie affondavano nel freddo fango formatisi con la pioggia del mattino.

Il giovane indossava un calzone e una tunica strappata. Quegli altri vestivano abiti decisamente diversi: a foggia larga e colorati. Uno dei due aveva una sorta di turbante ed entrambi portavano barba e capelli lunghi.

Quando giunsero con il disgraziato prigioniero per le vie del Rabaḍ, ognuno si raccolse curioso. Si conoscevano tutti al villaggio e tutti conoscevano gli abitanti dell’ultima casa in fondo alla strada prima degli orti, la casa dei cristiani, gli unici del Rabaḍ.

Si lavorava alacremente in tutta la zona per rendere il terreno sempre adatto alla vita; l’intera area era a votazione agricola e le famiglie si costituivano in villaggi tutti disseminati tra le colline. Non vi era nobile e non vi era guerriero, ma solo contadini che lavoravano per conto proprio e per conto dell’esattore del Qā’id4 di Qasr Yanna.

Proprio la casa di quest’ultimo si trovava all’esatto opposto della casa dei cristiani, nel punto più elevato. Un largo cortile, in parte recintato, si apriva antistante alla grande casa, ed è qui che giunsero i tre dopo aver percorso le labirintiche stradine e i cortili tipici dei centri ad impianto arabo. Proprio nel punto in cui si montava il mercato, e al centro esatto di tale luogo, legarono il malmenato giovane. Lo legarono alle mani e queste ad un palo. Tirarono quindi la corda all’insù, bloccandola ad una biforcazione naturale del legno dell’asta situata sulla testa del condannato, così che questi non si potesse sedere né piegare.

Adesso entrò in scena un uomo del Qā'id, un tipo fin troppo giovane per il ruolo che ricopriva, un tale Umar. Questi era un uomo di bell’aspetto: di origine berbera, era appena olivastro di carnagione, aveva un bel paio di occhi profondi e neri, e un naso dritto e ben proporzionato. La barba nascondeva la sua età e lo faceva assomigliare di più al padre, Fuad, anche lui esattore del Qā'id e scomparso da quasi due anni.

Venendo fuori dall’ufficio delle tasse, ubicato sul lato della casa, Umar tirò per i capelli biondo-ramati la testa del prigioniero e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Per come quest’ultimo era livido in volto, quei due dovevano essersi sbizzarriti a malmenarlo.

Dunque furono a tu per tu, e nulla divideva quei fieri occhi neri dal fissare quegli occhi ancor più fieri ma verdi del prigioniero.

«E così hai creduto di potermi insultare e farla franca…» fece Umar.

Ma quell’altro non rispose; non perché non comprendesse l’arabo, ma perché qualunque parola sarebbe stata una parola inutile.

«Non vale la pena di starci a perdere tempo.» completò l’esattore.

Poi fece cenno col capo a uno dei due che glielo avevano riportato in legami, e questi, strappatagli del tutto la tunica, lo sferzò con una corda bagnata.

Gli abitanti del villaggio se ne stavano tutti lì, eppure nessuno aveva il coraggio di mettere piede oltre la recinzione del cortile. I gemiti abortiti in gola da quell’uomo non fecero più impressione dei rossori sanguigni che gli si andavano configurando sulla schiena.

Ognuno commentava con quello accanto che una cosa del genere non era mai accaduta al Rabaḍ. I familiari del tale si nascondevano invece tra la folla, avendo il buon senso e il pudore di non parlare. Gli unici assenti erano quelli della casa dell’esattore, madre, moglie e sorella, i quali preferivano non immischiarsi negli affari del capofamiglia.

Quando poi l’incaricato di quella tortura finì il suo servizio e lasciarono a sé stesso il giovane legato al palo, la folla ritornò alle sue mansioni. Lo lasciarono lì, in balia del freddo della sera e del gelo della notte.

Solo verso mezzanotte qualcuno ebbe la pietà e il permesso di portargli una coperta. Gli uomini di Umar lo lasciarono fare, capendo che passare la notte in pieno inverno e all’addiaccio tra i monti di Qasr Yanna sarebbe stato troppo per chiunque.

In molti videro quel giovane tremare e saltellare per tenersi in moto per gran parte della notte. Poi, al mattino, quando montarono il mercato tutto intorno al cortile, lo videro addormentarsi appeso per i polsi; sembrava una bisaccia legata ad un tronco d’albero. Qualcuno lo credette perfino morto, e addirittura se ne volle accertare mollandogli un ceffone.

Si fece di nuovo pomeriggio; adesso il condannato non mangiava e beveva da un giorno intero. Un gregge di capre calve stazionava nel cortile, belando e addentando fili d’erba. Quella cantilena di animali al pascolo fecero riassopire l’uomo legato a quella gogna, il quale aveva creduto che gli si stessero per rompere le ginocchia e per staccare i polsi... Poi, ad un certo punto, avvertendo una sorta di presenza, questi riaprì gli occhi; in effetti qualcuno se ne stava ad osservarlo già da un pezzo. A tre passi di distanza una ragazza lo fissava ad occhi spalancati. Occhi bellissimi, di taglio meraviglioso, mai visti dal più delle persone, ma che il condannato e tutti gli altri del Rabaḍ conoscevano. Occhi azzurri di un turchese così intenso da perdersi e mai più ritrovarsi; uno strano colore che sfumava verso l’esterno dell’iride in un blu scuro come le profondità del mare. Occhi capaci di causare la confusione delle menti e la dannazione dei cuori.

La ragazza vestiva un bell’abito verde a rifiniture gialle e blu di forma tipica delle genti del Nordafrica, e si teneva stretta al volto un lembo del velo al fine di nascondere le sue fattezze. L’aspetto fisico dal carattere esotico, così differente da quello degli indigeni dell’Isola, costituiva la base per l’opera incommensurabile dei suoi occhi, i quali risaltavano atipicamente. Un ricciolo ribelle sfuggiva dalla costrizione del velo rosso rivelando la tonalità bruna dei capelli.

Quando il prigioniero la vide, tornò a riabbassare lo sguardo, e quindi, ritornando a guardarla poco dopo, recitò lentamente:

«“Conosci tu, oh mio Signore, il cielo di Nadira, i confini dei suoi occhi?”»

Lei lo guardò smarrita e chiese:

«Come conosci queste parole?»

«Da che il Qā'id ha visitato questi luoghi, i versi di questa poesia si sono diffusi per tutto il villaggio e oltre.»

Perciò, fissandola con lo sguardo turbato, la supplicò:

«Slegami, Nadira, mia Signora, te ne prego!»

Ma lei sembrava impassibile, persa in quella richiesta che non riusciva ad accogliere.

«Non conosco i confini dei tuoi occhi, Nadira… ma posso spiegartene le origini se lo desideri… Dammi almeno un po’ d’acqua però...»

A ciò Nadira rientrò in casa senza voltarsi e senza dare peso a quella richiesta; il tintinnio delle cavigliere echeggiò per tutto il cortile mentre correva verso l’ingresso, tutta infreddolita a causa dell'abbigliamento troppo leggero e inadatto per stare fuori.

L’acqua non arrivò mai al condannato, ma appena Nadira mise piede dentro casa e vide Umar, suo fratello, starsene a contare denaro ad un tavolo, domandò:

«Che cosa ha fatto il cristiano perché tu gli riservi questo trattamento?»

Adesso non si copriva più il volto ed era chiaro come le sue labbra carnose e il suo naso perfetto contornassero armoniosamente i suoi occhi.

«Chi?»

«L’uomo legato al palo lì fuori.»

«La sua famiglia si è rifiutata di pagare la jizya5

Dunque Umar ritornò a contare il denaro al solito tavolo, credendo di averla liquidata con una sola frase.

«Si congelerà! Sono già due giorni che se ne sta legato a quel palo.»

«Da quando in qua ti sta a cuore la sorte degli infedeli?»

«Stamattina ho visto i tuoi figli giocare attorno a quell’uomo. Dovevi vedere come lo guardava la piccola!»

«Lo slegherò, sta’ tranquilla… ma un’altra notte al fresco non gli farà male.»

«Suvvia, Umar, stanotte si potrebbe gelare più di ieri.»

«Gli porteranno un’altra coperta. Non hai visto come non ho impedito che sua sorella gli prestasse aiuto?»

«“Umar il magnanimo”! Che ne pensi di questo nome?» fece sarcastica lei.

Al che lui sbuffò e con un gesto di stizza diede un colpo di braccio ad una pila di dirham6 d'argento guadagnati tra tasse e commercio.

«Ma io dovrei farmi insultare da quella gente?» domandò lui, alzando lievemente la voce.

«Hai detto che si sono rifiutati di pagare; che ne sai se non hanno potuto? Quella famiglia è la più povera dell’intero Rabaḍ. Ricordo come nostro padre spesso lasciasse perdere una tassa o un tributo pur di non opprimere la povera gente.»

«I dhimmi7 avevano sempre pagato, anche con nostro padre.»

«Tanto meglio! Se i protetti hanno sempre pagato, che cosa sarà una sola volta?»

«Quel tale Corrado, quel rosso, quando suo padre si è presentato senza avere con sé la tassa per la protezione degli infedeli credenti in Dio, si è fatto avanti e, guardandomi con aria di sfida, mi ha detto:

«Lavoriamo per la vostra famiglia da vent’anni… la jizya, quando ci sarà, te la daremo, altrimenti accontentati del semplice fatto che lavoriamo per te.»

Poi se n’è andato per i suoi orti come se nulla fosse. Come avrei dovuto trattarlo?»

«Ma questo dopo che hai colpito suo padre sulla guancia!» s’intromise Jala, loro madre, la quale, avendo udito i toni dall’altra stanza, si era preoccupata che la discussione tra fratello e sorella degenerasse.

Nadira somigliava molto a Jala, eccezion fatta per gli inconsueti occhi azzurri e per la pelle di una sfumatura più chiara. Inoltre Nadira era ben più alta di Jala, la quale amava dire con orgoglio che sua figlia fosse una palma di donna, per via della statura e del fisico longilineo.

Quindi Umar si mise in piedi e, sentendosi accusare, rispose:

«Tali questioni non puoi capirle, madre! Come si fa a determinare se chicchessia non può o non vuole pagare? La punizione serve a far desistere i bugiardi.»

«La nostra è sempre stata una comunità unita, lontana dagli intrighi, dalle gelosie tra razze e religioni diverse... e perfino dalle guerre. La casa dei cristiani in fondo alla strada, l’unica del Rabaḍ, è stata sempre trattata con dignità. Tuo padre lo sapeva cos’era giusto al riguardo. Forse avrai ragione tu… ma non al Rabaḍ di Qasr Yanna; qui ci siamo sempre aiutati tra noi. La gente ieri guardava esterrefatta per come hai trattato quel ragazzo. Il nostro è un mestiere di per sé già odiato… ed è giusto che ti rispettino, e non che ti temano.»

«Il Qā'id chiederà conto al suo ‘āmil8 se le casse sono vuote. E poi, da quando in qua colpire un infedele è diventato un reato? Abbiamo permesso loro di restare seduti in presenza di un fratello, abbiamo permesso loro di sellare il mulo, abbiamo permesso alle loro donne di usare i bagni al contempo delle nostre… quando altrove tutto questo non succede e potrebbero perfino chiedercene conto.»

«Ma quel cristiano che tu hai schiaffeggiato ha impugnato la spada quando i soldati di Jirjis Maniakis predarono il villaggio, benché i dhimmi siano esentati dalla guerra e non possano portare armi.»

 

«Allora sappi che ritengo questa realtà sbagliata e sarà mio dovere ristabilire l’ordine delle cose. Si sottomettano all’Islam pure loro come hanno fatto tanti dei cristiani che abitavano queste terre, se non vogliono essere trattati in maniera diversa.»

Perciò adesso fu Nadira a rispondere:

«E queste cose da quando le pensi? Da quando sei diventato il cognato del Qā'id?»

«E tu, bambina, da quando hai imparato a rispondere al tuo walī9, protettore e garante? Da quando il Qā'id ti ha messo gli occhi addosso e gli sei stata promessa in sposa? Pensa se gli raccontassi che ti sei intrattenuta a parlare con un cristiano legato ad un palo.»

«Il mio signore Ali avrebbe avuto compassione per quell’uomo.»

«Bene, venga a rimproverarmi quando glielo racconterai… sempre che prima non ti stacchi la lingua perché dai tali confidenze agli estranei.»

Nadira quindi se ne andò delusa e arrabbiata, correndo a rifugiarsi in camera sua. Al passaggio della ragazza la servitù impicciona si diradò velocemente. Dunque, gettatasi sul suo letto, abbracciando i numerosi cuscini che lo ricoprivano, prese a piangere.

«Nadira, ragazza mia.» la chiamò Jala.

Lei sollevò la testa, adesso con i voluminosi grossi riccioli scoperti, e prese ad ascoltare.

«Nadira, figlia, può essere crudele rendersi conto che apparterrai a qualcuno che non conosci abbastanza; e tu hai solo diciannove anni… forse tanti, ma sei inesperta in tutto!»

«Potrebbe staccarmi davvero la lingua?»

«Lascialo perdere tuo fratello. Però sia chiara una cosa: mai e mai più voglio vederti parlare con quell’uomo!»

«Io non gli ho parlato! È stato lui a chiedermi dell’acqua.»

«E che altro ti ha detto?»

«Niente!»

«Bene, perché sappi che quello è un uomo pericoloso, della peggior specie, Nadira. E tuo fratello ha ragione nel volerlo punire.»

«Poco fa hai detto il contrario…»

«Ho detto ad Umar come si sarebbe comportato suo padre… a te dico come la penso io. Adesso va’ a vedere se tua cognata ha bisogno di aiuto; è per questo che non sei ancora la moglie del Qā'id… per assisterla nella sua gravidanza.»

Così filavano via le ore del secondo giorno di quell’inverno del 1060 - il 452 secondo l’egira10 - in cui Corrado il cristiano era stato legato e umiliato al pari di una bestia testarda.

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