Ndura. Figlio Della Giungla

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GIORNO 3

COME COMINCIANO LE MIE SOFFERENZE

Qualcosa mi stava attaccando, sentivo come mi pungeva su tutto il corpo. Mi alzai di scatto, completamente sveglio di colpo e urlando. Guardai le mie mani ed erano coperte di formiche rossastre con la testa molto grande, il mio corpo ne era completamente ricoperto. Mi pungevano di continuo, da tutte le parti. Mi tolsi i vestiti, quasi strappandoli e iniziai a scuotermi il corpo con le mani, saltare, agitarmi e contorcermi come la coda di una lucertola, urlando e gemendo per il dolore. Alcune mi entrarono in bocca, costringendomi a sputare ancora e ancora, altre le sentivo nel naso, nelle orecchie, ovunque. Era come se un intero sciame di api avesse deciso di attaccarmi nello stesso momento. A poco a poco riuscii a sbarazzarmi delle formiche, ma mi ci vollero circa dieci minuti prima che notassi che nessuna di loro correva più impunemente sul mio corpo. Un'infinita colonna di formiche9 attraversava il punto in cui mi ero sdraiato. Tutto il mio corpo era rosso per i colpi che mi ero dato per staccare le formiche e pieno di macchie ancora più rosse per i morsi ricevuti da quei dannati insetti. Tutto mi prudeva così tanto che non sapevo nemmeno da dove cominciare a grattarmi. Sebbene non ne avessi addosso più nessuna, di tanto in tanto avevo l'impressione di notare qualcosa che correva da qualche parte e mi agitavo di nuovo convulsamente.

Quando riuscii a dominare un po' la mia rabbia e frustrazione, presi lo zaino e lo scossi da tutte le formiche, e feci lo stesso con la coperta e i vestiti che avevo sparso per terra. Indossai solo le scarpe da ginnastica e misi il resto nello zaino. Afferrai alcune pietre e alcuni rami e li lanciai furiosamente contro la colonna ordinata, mentre insultavo le formiche. Per un momento persi il controllo, la rabbia mi investì. Sì, le formiche avevano la colpa di tutto, dovevo ucciderle, mi avevano portato a questa stupida situazione e avrebbero pagato per questo. Le pestai ancora e ancora, furioso, frenetico, come posseduto dall’ardore di una distruzione inarrestabile. Alcune mi salirono su per le gambe e mi morsero di nuovo, ma non sentivo più nulla, il dolore aveva cessato di esistere per un momento. Un pensiero solitario nella mia testa: uccidere le formiche. Calciavo, colpivo quelle a terra e schiacciavo quelle che avevo sul corpo con pesanti manate, spiaccicandole contro le mie gambe, le mie braccia o il mio petto. Per alcuni minuti quella fu la mia unica guerra, il mio unico mondo: pestoni, colpi con le mani, urla di furia, di frustrazione soppressa per troppo tempo. Un Gulliver furioso che distrugge il mondo di Lilliput. Poi mi allontanai di qualche passo, crollai per terra e rimasi per un po' come perso, totalmente abbandonato al mio destino, cieco a ciò che stava accadendo intorno a me, ignaro di qualsiasi cosa che non fosse il niente, il vuoto interiore. Alla fine reagì. Durante la notte mi era sembrato di sentire il mormorio di un ruscello vicino, così andai a cercarlo, nudo, riluttante, tremante, con tutto il corpo che mi pungeva, bastone in mano e zaino in spalla. Dietro di me una miriade di formiche schiacciate e molte altre che correvano in giro nella loro danza particolare di follia disorganizzata.

Effettivamente, il mio orecchio non mi aveva ingannato. Un fiume largo circa cinque metri si apriva la strada attraverso la foresta sotto il mio naso. La mia prima intenzione fu quella di togliermi le scarpe e gettarmi in acqua, ma mi ricordai qualcosa sulle sanguisughe, così prima ispezionai attentamente l'acqua sulla riva, permettendo alla prudenza di vincere la mia disperazione per un momento. Il solo pensiero che una sanguisuga potesse attaccarsi al mio corpo, agganciata, succhiandomi il sangue, mi scosse. Toccando l'acqua con la mano, notai che non era così fredda da non poterla sopportare per un po'. Mi sembrò di non vedere nulla, tranne alcuni bellissimi pesciolini rossi, alcuni più colorati di altri; erano troppo piccoli per sfamare e troppo carini per ucciderli. Avevano un corpo allungato e appiattito, la coda divisa in tre parti, quella centrale simile alle piume degli uccelli, gli occhi proporzionalmente grandi rispetto alla testa, avevano una colorazione blu iridescente, ma, quando i raggi del sole si riflettevano su tutto il loro corpo, una gamma incredibile dal blu al viola si sfumava sulle loro squame10. Cercai qualcos'altro come piranha, coccodrilli o qualcosa del genere ma non trovai nulla. Così decisi di farmi un bagno dopo aver bevuto un po' d'acqua.

Entrai un po' in acqua, assicurandomi prima con il bastone che il terreno fosse solido, con le scarpe addosso, perché avevo paura che mi mordesse un insetto o qualcosa mi si conficcasse. Il primo impatto mi causò un brivido per il contrasto dell'acqua con la temperatura esterna, anche se presto mi abituai. Intorno a me volavano alcune libellule dai colori vivaci, con le loro forme allungate e il loro volo veloce e sicuro; c’erano anche molti insetti, che volavano tanto quanto correvano sulla superficie dell'acqua come se fosse una pista di pattinaggio.

Quando l'acqua raggiunse le mie ginocchia mi fermai e mi bagnai tutto il corpo con l'aiuto delle mani. L'effetto rinfrescante dell'acqua sugli infiniti morsi delle formiche, sugli innumerevoli graffi e sul ginocchio infiammato mi diede una indescrivibile sensazione di sollievo. Poter stare in acqua per un po', dimenticandomi di tutto, godendo di ogni secondo, mi produsse uno stato di profondo rilassamento. Chiusi gli occhi e immersi la testa nell'acqua, trattenendo il respiro il più possibile, sentendo la freschezza che scorreva attraverso la mia pelle, avvolgendola e accarezzandola delicatamente. Per un breve momento tutti i problemi e le preoccupazioni svanirono. Bevvi anche grandi boccate d'acqua, fino a quando mi sentii completamente sazio. Quando uscii dall'acqua, ero determinato a sopravvivere in un modo o nell’altro, il mio animo si era rinforzato, il mio spirito pronto per la lotta.

Udii un rumore in un albero vicino e mi nascosi rapidamente nella boscaglia. Mi avevano già trovato, nudo e impreparato, sicuramente mi avrebbero ucciso, assassinato senza pietà, sacrificandomi come un vile animale. Non volevo morire, non avrei potuto ingannarli? Non meritavo un po' di pace? Non ne avevo avuto abbastanza con le formiche? Le immagini di Juan mitragliate dai ribelli apparvero nella mia testa come una successione di brevi lampi, il corpo senza vita di Alex seduto sull'aereo dopo l'incidente con il sangue che gli scorreva sulla fronte mi tormentò di nuovo. Mi immaginai sanguinante dai vari buchi nel mio corpo prodotti dagli spari dei ribelli, steso a terra ai piedi di un grande albero, loro ridendo, io agonizzando. Il dolore... Sbirciai tra le foglie degli alberi e finalmente scoprii l'origine del suono: una scimmia alta circa cinquanta centimetri con una coda altrettanto lunga, la faccia bluastra, su ogni lato tra occhio e orecchio una fascia di pelo scuro, una chiara fascia trasversale sopra gli occhi, la maggior parte del corpo di colore marrone giallastro, con gola, petto e pancia bianchi11. Forse non ero predestinato a morire quel giorno. A poco a poco ne apparvero altre e cinque di loro si unirono, saltando da un ramo all'altro e lanciando strilli acuti. Stavano giocando o qualcosa del genere, si appollaiavano su un ramo e lo agitavano con energia mentre urlavano. Forse erano in calore, non lo sapevo, ma fu un grande spettacolo. Lentamente il mio cuore ricominciò a battere alle sue pulsazioni normali. L'ultima cosa che vidi fu una di loro raccogliere qualcosa dal suolo, che da lontano sembrava una scolopendra, e mangiarsela.

Sull'altra sponda del fiume apparve un'altra scimmia di forma simile ma con colori diversi. Questa aveva una faccia nera, basette e barba bianche che continuavano sul suo petto e parte delle sue braccia. Il suo colore era più nerastro e aveva una macchia triangolare rosso-arancio sul dorso. Era più grande della precedente e considerevolmente più robusta12. Bevve un po' d'acqua portandosela alla bocca con la zampa e scomparve. Rimasi un po' a guardare gli altri giocare e saltare. Era un'esperienza unica che non avrei mai pensato di vivere. Ancora una volta mi ricordai dei miei due amici morti e di quanto si sarebbero divertiti a vedere tutto ciò, specialmente il gioviale Alex, sempre così curioso di tutto. Con chi avrei commentato questi momenti, con chi li avrei condivisi? Non c'era nessuno che li avrebbe vissuti con me, che avrebbe potuto capirli. No, non dovevo pensarci, non mi aiutava ad andare avanti, mentre avevo bisogno di raccogliere quanta più energia possibile per sopravvivere. Uscire da questa dannata giungla doveva essere il mio unico obiettivo. Fuga da questo inferno verde.

Mi tolsi le scarpe, le strizzai un po' per far uscire l'acqua e le agganciai alle estremità di alcuni rami per asciugarle. Poi presi la bottiglia d'acqua e cercai un posto con acqua corrente per riempirla, mi sembrava di aver letto che era peggio prenderla in luoghi dove l'acqua era stagnante perché c'erano più possibilità che non fosse salutare o che contenesse qualche tipo di parassita. Certo, avrei potuto ricordarmene prima di bere. Tutto il mio corpo non smetteva di prudere, anche se con meno intensità di prima. Sentivo delle fitte alla coscia e quando la guardai per vedere se avesse preso qualche botta, trovai una sanguisuga che mi si era attaccata alla gamba per succhiare il sangue. Era una specie di lumaca, forse più sottile. Prima mi spaventai, poi reagii e pensai a come risolvere la cosa. Se non mi ricordavo male, le sanguisughe venivano rimosse con il sale o bruciandole. Tirai fuori l'accendino e le avvicinai la fiamma fino a quando non si restrinse, approfittai di quel momento per staccarla con il coltello. Dove prima era attaccata restava solo una macchia rossa, una goccia di sangue trasudava dal bordo. Bruciai la punta del coltello con l'accendino e accuratamente cauterizzai la ferita. Non avevo idea se le sanguisughe infettassero o meno la ferita che producevano e preferivo non rischiare. Mi fece così male che dovetti fare grandi sforzi per non urlare con tutte le mie forze. Controllai il resto del corpo per vedere se ne avevo altre, ma era l'unica. Sulla gamba avevo la forma della punta del mio coltello incisa a fuoco. Mi sarebbe uscita una vescica tremenda. Forse non avrei dovuto fare quella barbarie.

 

La pigrizia prese il controllo del mio corpo e decisi di concedermi una mattinata libera. Così tante emozioni di seguito stancavano, ero devastato e il mio corpo pesava uno sproposito. Cercai un posto ombreggiato e quando mi asciugai mi misi i vestiti e la maglietta ricordo della Namibia, che portavo nello zaino, la usai per coprirmi tutta la testa, inclusa la faccia, per evitare i fastidiosi e numerosi insetti che popolavano la riva. Prima di coricarmi osservai un cespuglio lì vicino, ne avevo visti abbastanza come questo, con un vistoso frutto color carminio con piccoli semi bluastri13. Sarebbe stato commestibile? Schiacciai qualche formica sbadata che non era ancora riuscita e scrollarsi dai vestiti. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da uno stato di sonnolenza, di torpore, il calore e l'umidità producevano pesantezza nei muscoli e nella volontà.

Uno sparo, poi una raffica di qualche arma automatica, altri colpi. Mi alzai di scatto. Si sentivano dall'altra sponda del fiume, sebbene lontani. Davvero non me lo aspettavo, mi avrebbero trovato da un momento all'altro. All'improvviso ripresi nuovamente coscienza che la mia situazione non mi permetteva di rilassarmi, che non mantenere tutti i miei sensi in costante allerta sarebbe stata la mia rovina.

Rapidamente raccolsi tutte le cose, misi la maglietta nello zaino, indossai le calze e le scarpe e raccolsi il bastone. Erano ancora bagnate, ma in quel momento non avevo tempo di fissarmi su quei dettagli. Decisi che il modo migliore per arrivare da qualche parte era di continuare lungo il letto del fiume, ma dal momento che seguirlo lungo la riva mi sembrava molto pericoloso, mi addentrai di nuovo nella giungla per cercare di passare inosservato tra il fogliame e camminare a quattro o cinque metri parallelamente al fiume. Era un mondo chiuso, dove guardando in qualsiasi direzione non trovavo altro che un impenetrabile muro verde senza via d'uscita. Al massimo vedevo a tre o quattro metri di distanza da me. Presto persi il fiume e ancora una volta mi ritrovai sulla strada verso il nulla.

Continuai a camminare a un ritmo a volte molto veloce e talvolta più morbido per tutto il pomeriggio, con pochi momenti di tregua. Quanto bastava per riprendere fiato e ascoltare se si udivano altri spari. Dovetti sopportare permanentemente il suono, simile a quello prodotto quando si pesta una pozzanghera, che facevano le mie scarpe ad ogni passo e sporadici avvertimenti di crampi al polpaccio. A volte la densità del fogliame aumentava, immergendo alcuni luoghi nell'ombra. C'erano zanzare dappertutto, non smettevano di tormentarmi come se si trattasse di una battaglia senza fine. A volte mi ricordavano i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale, che piombavano sul bersaglio senza preoccuparsi della propria vita. Le zanzare erano uguali, si lanciavano continuamente sul mio corpo senza preoccuparsi delle vittime che causavano i miei colpi, usando le mie mani come artiglieria antiaerea. Alcune erano così grandi che, piuttosto che aerei da combattimento, sembravano giganteschi bombardieri la cui semplice presenza produceva apprensione nel nemico. Quando le vedevo avvicinarsi, mi mettevo immediatamente in tensione, pronto a evitarle. Ce n’era sempre qualcuna con appetito e avevo infiniti morsi su braccia e gambe, lì dove i vestiti non mi coprivano il corpo. Alcune stavano persino sulle stesse punture che mi avevano causato le formiche quando mi ero svegliato. Era una battaglia persa in partenza, una lotta banale, futile, inutile, poiché loro non avevano fine e io ero sempre più stanco. Mi infastidivano così tanto che decisi di coprire le parti su cui non avevo vestiti con della terra umida, formando una barriera impenetrabile per loro. Quell'idea fugace mi salvò. Era scomodo per muoversi, specialmente quando si seccava, ma erano peggiori i loro continui attacchi. Grazie a questo trucco potei dimenticarmi a lungo degli implacabili insetti e, anche se non ottenni la vittoria, almeno ottenni una tregua temporanea. Inoltre, ebbe l'effetto sorprendente di spegnere il prurito lì dove erano passate le formiche. Un po' di fortuna finalmente.

Continuavo ad osservare tutto ciò che mi circondava, avevo la costante sensazione di essere seguito, di essere sempre più circondato, messo alle strette in una giungla illimitata. Mi sembrava persino di sentire passi e voci dietro di me o di vedere volti fugaci di guerriglieri che mi fissavano ferocemente tra gli alberi, sorvegliandomi senza sosta. La verità è che non riuscii a vedere nessuno chiaramente, non potei nemmeno notare alcuna traccia della loro presenza nell'area. Mi sembrava che gli alberi si piegassero sulla mia testa, imprigionandomi sempre più in una cella di legno vivente. Non sapevo se stavo diventando paranoico o cosa, ma dovevo calmarmi per sopravvivere in quella giungla sconosciuta e mortale.

In quel folle vagare trovai uno spettacolo dantesco. Ciò che sembrava essere stata una famiglia di primati, delle dimensioni di uno scimpanzé o simili, giaceva in una radura senza mani, piedi o teste, in mezzo a grandi pozze di sangue secco e circondati da miriadi di mosche e ogni sorta di insetti e animali spazzini. La puzza che emanavano era insopportabile e non riuscii a evitare il vomito, che mi salì all'istante su per la gola. Raccolsi il mio coraggio e guardai di nuovo. Ce n'erano due che dovevano essere adulti e uno più piccolo. Sembrava che non ci fossero piccoli, ciò che non sapevo era se non c’erano perché non li avevano catturati, perché non ne avevano, o se perché li avevano portati via per venderli sul mercato nero. Sapevo che c'erano alcune parti di animali che si vendevano molto bene come afrodisiaci nei paesi asiatici: corni di rinoceronte, ossa di tigre e simili. Forse era qualcosa del genere. Decisi di allontanarmi da quel luogo maledetto il prima possibile. Quella scoperta non solo mi dimostrò ancora una volta la crudeltà umana, ma mi mostrò anche che stavo camminando in zone frequentate da bracconieri, sicuramente non molto amichevoli con gli estranei.

Era troppo scioccato da tutto ciò che stava succedendo. Alla fine, a un certo punto, mi venne un forte crampo al polpaccio della gamba destra che mi costrinse a fermarmi per allungare il polpaccio, mentre serravo forte la bocca per il dolore e mi dimenavo per terra. Dovetti restare seduto a lungo prima di potermi muovere di nuovo e mi tormentò senza sosta per tutto il resto della giornata. Diverse volte pensai che il crampo stesse tornando e mi dovetti fermare per allungare la gamba. Al crepuscolo ero completamente esausto e non ero avanzato troppo a causa del ritmo lento che avevo dovuto tenere. Soprattutto, avevo le gambe esauste per il tanto camminare, il ginocchio e il polpaccio erano doloranti e i piedi intorpiditi. Guardando la cosa da un punto di vista positivo, se ne fossi uscito, avrei eliminato l’incipiente pancetta da birra che mi stava uscendo. Ere già qualcosa. Non dovevo perdere il senso dell'umorismo, quello avrebbe potuto salvarmi. Era l'unica cosa che mi rimaneva, quello e il mio desiderio di vivere. Elena, cosa non darei adesso per un tuo abbraccio, per il tuo sorriso! O per uno di quei deliziosi piatti che preparavi!

Mi sedetti sopra un tronco caduto e mangiai tutte le mele cotogne che mi erano rimaste e un lungo sorso d'acqua. Mi restava solo un quinto della bottiglia circa e niente cibo. Quella terza notte l'avrei passata di nuovo su un albero, dopo l'esperienza delle formiche non pensavo che mi sarei addormentato, poiché le formiche erano le stesse, sul terreno come sugli alberi, ma mi andava ancora meno di venire catturato, mentre dormivo, dalle canaglie degli spari. Come la prima notte, cercai un albero adatto e quando lo trovai, cercai di salire sul ramo prescelto con l'aiuto di un rampicante. Non appena gli misi la mano sopra dovetti ritirarla perché sentii una puntura acuta. Il rampicante era spinoso. Mi massaggiai il palmo della mano e cercai un altro albero dove arrampicarmi. Quando lo trovai mi arrampicai con molta attenzione e mi preparai a passare un'altra notte in quell'inferno. Mi tolsi le scarpe e le calze e pregai per che fossero asciutte al mattino, anche se ne dubitavo, dato che l'aria era quasi permanentemente umida. Avevo i piedi rugosi e di un verde brunastro chiaro. Li asciugai come meglio potei, ma la sensazione di disagio persistette comunque. Provai a scaldarmi, ma non c'era modo di riuscirci né con la coperta né sfregandomi il corpo. Le punture delle zanzare e delle formiche mi tormentavano incessantemente, ma non c'era nulla che potessi fare. L'unica cosa che alleviava quel tormento era mettere il fango bagnato sul mio corpo per evitare le punture, in quei momenti il costante prurito si era trasformato in una sensazione confortante che non sapevo descrivere. Provavo un dolore costante e non localizzato alle gambe come alla schiena. Il braccio destro era addormentato per la stanchezza dovuta al simulare colpi di macete con il bastone per tutto il giorno.

Ero così esausto che mi addormentai subito. Il mio ultimo pensiero fu la speranza che, al mio risveglio, ci sarebbe stata ad aspettarmi una colazione con una grande ciotola di latte e miele e un paio di toast con abbondante burro e marmellata di fragole o more.

GIORNO 4

COME SUBISCO UNA TEMPESTA TROPICALE

Un rumore molto ravvicinato mi svegliò e quasi caddi a terra scioccato. Mi avevano scoperto, era finita. Tanto sforzo per niente, avevo lasciato che mi cogliessero alla sprovvista, imprudente, e l’avrei pagata cara. Mi aggrappai saldamente al ramo e guardai terrorizzato in tutte le direzioni alla ricerca dei ribelli, gridando "non sparatemi, non sparatemi!” Ma non vidi nulla. Se fossero stati loro mi avrebbero sparato o almeno mi avrebbero costretto a scendere dall'albero, quindi era un falso allarme. Ero un po’ ossessionato dal sapere che tipo di animale fosse passato.

"Non posso svegliarmi un giorno in pace?" Brontolai ad alta voce. "Non potete lasciarmi in pace per un po’?"

La verità era che non importava. Mi lasciai cadere a terra e mi allungai, sbadigliando. Avevo dormito una manciata di ore di fila, ma la schiena mi faceva molto male. Inoltre, non appena rinsavii un po', notai di nuovo il costante prurito alle gambe e alle braccia, dove formiche e zanzare mi avevano punto. Dormire su un ramo non doveva fare molto bene al corpo, ma a volte mi sembrava preferibile al suolo, dove ero a disposizione di qualsiasi persona o animale che poteva passare. Osservai da vicino le gambe e le braccia e vidi che alcune ferite, in particolare quelle causate dai graffi alle piante, erano infette. Giusto quello che mi mancava. Sentii un ruggito crescente che si rivelò essere il mio stomaco. Avevo una fame terribile e non mi restava nulla da mettere sotto i denti. La mia priorità per quel giorno era trovare del cibo, poiché l'acqua non era un problema dal momento che avevo localizzato di nuovo il fiume. Mi sarebbe piaciuto che il sensibile Alex fosse stato al mio fianco in modo da poter ascoltare i suoi consigli sempre ponderati e saggi. Ma ero solo, Alex era morto, Juan era morto ed io ero solo. Per colpa mia, tutto per colpa mia.

Mi avvicinai al fiume per lavarmi un po' la faccia e bere un po’ d’acqua. Riempii anche la bottiglia. Bevvi così tanta acqua che mi saziai momentaneamente, ma non sarebbe durata a lungo. Mi sedetti su una pietra e riflettei sul modo migliore per procurarmi del cibo. Mentre tentavo di trovare una soluzione notai un albero vicino a me che mi ricordò qualcosa. Lo osservai da vicino. Sapevo che qualcosa mi stava sfuggendo, era quella sensazione di avere qualcosa sulla punta della lingua e non sapere cosa fosse. Poi mi ricordai. Quello era lo stesso albero sul quale avevo visto quella specie di pappagallo mangiare i suoi frutti. Fu lì che la lampadina mi si accese, dove l'idea alla fine ruppe le forme dell'oblio, dove la necessità pose fine al ristagno della mia mente. Se gli animali mangiavano quei frutti, forse anche io avrei potuto. Avevo letto che alcuni avevano un metabolismo in grado di digerire i frutti velenosi, ma la maggior parte di ciò da cui prendevano forza avrebbe dovuto essere commestibile anche per me, soprattutto se veniva mangiato da una scimmia, che era la cosa più vicina all'uomo che c'era in quei posti.

 

Mi alzai e andai all'albero. Poi mi arrampicai attraverso i rami e raccolsi due o tre frutti che trovai più appetitosi. Poi scesi e tagliai il primo a metà con il coltello. L'interno mi ricordò i capelli d'angelo in forma e consistenza, ma di colore rosso. Sbucciai una delle metà e ne presi un piccolo morso. Lo masticai lentamente, quasi succhiandolo. Aveva un sapore strano, ma era buono. Mangiai avidamente le due metà, ne sbucciai una seconda e mangiai anche quella. Quando divisi il terzo a metà vidi che conteneva alcuni piccoli insetti e lo buttai via. Tornai sull'albero e ne presi un'altra mezza dozzina. Cinque di essi, quelli più duri, pensai di portarli nello zaino, mi sarebbero serviti per altri giorni; gli altri li avrei mangiati subito.

Finii la colazione e rimasi pienamente soddisfatto, sia per essere riuscito a mangiare, sia per il fatto stesso che fossi riuscito a trovare del cibo. Comunque, decisi di stare molto attento da quel momento in poi per trovare altre fonti di cibo, fossero esse altri frutti o qualsiasi altra cosa, dal momento che non potevo basarsi esclusivamente su quel frutto. Decisi di osservare gli uccelli e le scimmie. Inoltre, dovevo pensare a un modo per mangiare carne senza doverla riscaldare, poiché, sebbene avessi un accendino, non potevo rischiare di accendere un fuoco per paura dei ribelli, a meno che non avessi scoperto come accendere un fuoco senza produrre fumo. Forse se l’avessi mangiata a pezzi molto piccoli non sarebbe stato così difficile. Qualcosa di simile al carpaccio dei ristoranti italiani.

Guardando il fiume in cerca di alcuni pesci dall'aspetto commestibile, notai alcune piante che crescevano sulla sua riva. Erano alte più di mezzo metro, di colore verde, o rossastro per le foglie nuove. Il gambo era coperto di peli ispidi. Le sue foglie erano di forma ovale con margini seghettati con piccoli denti. Ciò che attirò veramente la mia attenzione fu il suo odore. Aveva un intenso aroma di menta14. Pensai che forse poteva essermi utile e ne presi una buona manciata di foglie. La giungla non smetteva di sorprendermi. Forse sarei riuscito a sopravvivere. Ero euforico di nuovo.

Quel giorno decisi di continuare come il pomeriggio precedente: parallelamente al letto del fiume senza andare lungo la riva. Per quanto ricordavo, la Repubblica del Congo non aveva uno sbocco sul mare, quindi se il fiume sfociava nell'oceano sarebbe stato in un altro paese, dove non ci sarebbero stati i ribelli e dove avrei potuto trovare aiuto. Ad ogni modo, il metodo alternativo di orientarmi in base al sole, non mi sembrava mi avrebbe portato da nessuna parte, dato che avevo perso completamente il senso dell'orientamento.

La mattinata trascorse tranquilla. Camminavo e riposavo, anche se con una sensazione permanente di affaticamento che faceva sembrare le mie gambe pesanti venti chili ciascuna. Occasionalmente avevo la sensazione di essere osservato, di avere continuamente degli occhi fissi sulla schiena, ma, dovunque guardassi, non vedevo mai nessuno, nemmeno una traccia di vita umana. Le calze sorprendentemente si erano asciugate. Le scarpe erano ancora umide, ma almeno non emettevano più quel rumore spiacevole, anche se i miei piedi si erano sicuramente infettati con una specie di fungo, come se fossi stato in una piscina puzzolente. Quando vedevo qualche pappagallo o qualunque animale, rimanevo completamente immobile e li osservavo per cercare di scoprire cosa mangiavano, ma non ebbi fortuna, li vedevo solo muoversi da un posto all'altro senza sembrare molto affamati. Come erano fortunati.

Ad un certo punto qualcosa mi cadde sul naso, ci passai sopra la mano e la guardai, sembrava acqua. Alzai lo sguardo e ne vidi cadere un altra e un altra e poi un altra ancora, finché ad un certo punto sembrava che le nuvole stessero crollando su di me. Il cielo si oscurò quasi all'improvviso. Stava piovendo, o meglio, pioveva a dirotto in un modo che non avevo mai visto prima. Lontano risuonavano i tuoni e, di tanto in tanto, intravedevo il fugace bagliore di un lampo, luci che illuminavano l'ambiente come se fosse stato un lampione. Rapidamente cercai un posto dove potermi rifugiare. L'unica possibilità che trovai, fu quella di rimanere sotto un albero rannicchiato a terra, con lo zaino sotto le gambe. Mi misi il cappello e mi coprii il corpo con la coperta. Quindi, imitando gli uccelli in momenti come quello, mi preparai a rimanere immobile per bagnarmi il meno possibile, lasciando che l'acqua scivolasse sempre negli stessi punti.

Continuò a piovere senza freno per molte ore, così tante che mi sembrarono giorni. Avevo fame ma non osavo muovermi. L'acqua aveva completamente inzuppato la coperta e la maglietta, e la sentivo scorrere lungo la mia schiena. Cadeva anche dal tronco dell'albero passando in alcuni punti sotto di me. Più acqua, più tuoni, più lampi di luce. In quelle ore in cui a malapena muovevo la testa, mi distraevo nel tentativo di intravedere un piccolo insetto sul terreno e, quando lo trovavo, mi divertivo guardando come le gocce cadevano su di esso o come la corrente lo trascinava via. Localizzai anche un paio di lombrichi che banchettavano, rotolandosi nel fango verso la superficie. E continuava a piovere e a tuonare, come se il dio creatore Bantù, Bumba, avesse raccolto tutte le sue forze e liberato tutta la sua rabbia in un solo colpo, sopra la mia testa, per finirmi. Avevo freddo e iniziai a tremare, i denti battevano, anche contro la mia volontà, in modo incontrollabile. In alcuni punti si erano formati piccoli corsi d'acqua che correvano, schivando gli ostacoli, in una direzione sconosciuta. Alle mie spalle sentivo il fiume ruggire più forte del solito, immaginavo che fosse cresciuto a causa della pioggia. La fame mi stringeva sempre più lo stomaco e la pioggia continuava e continuava. E ancora più tuoni e scintille elettriche prodotte dalle scariche degli scontri tra le nuvole. Ogni volta ero più bagnato. Lo stare fermi doveva avere la sua efficacia durante piccoli rovesci, ma, con tempeste del genere, poteva servire solo avere un tetto e quattro pareti, perché credo che nemmeno un ombrello ti avrebbe salvato dal ritrovarti come se stessi nuotando nel fiume. A quel punto non dovevo più preoccuparmi del fatto che le mie scarpe fossero bagnate, volevo solo sapere quando il cielo avrebbe finito di svuotarsi sopra mia testa indifesa.

Ero disperato. Iniziai a pensare che potesse andare avanti così per giorni o addirittura settimane. Mi vennero in mente i monsoni asiatici e i loro effetti devastanti. Non c'era da stupirsi che ci fossero alberi così alti nella giungla se venivano annaffiati così spesso. Ad andare avanti così per tanto, sarebbe sembrato un acquario con scimmie invece di pesci. Era curioso che, con la pioggia, la maggior parte dei suoni e rumori abituali si erano spenti. Doveva essere il frastuono dell'acqua che cadeva a spegnere tutto, o coloro che producevano i suoni erano tornati a casa per rifugiarsi. Tutti tranne me, che ero lì, nel mezzo della tempesta del secolo, senza nemmeno un brutto posto per ripararmi, esposto all’intemperie più estreme. Se avessi continuato a peggiorare così rapidamente, la prossima cosa che avrei scavato sarebbe stata la mia tomba, così avrei potuto essere sepolto quando sarei morto di stanchezza fisica e mentale. In realtà non sembrava un'opzione così brutta, anzi, era quasi un riposo desiderabile.

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