Il Giuramento

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Una guardia del corpo se ne stava zitta e tranquilla vicino alla porta.

Omar fece un cenno all’uomo, e questi si avvicinò alla ringhiera.

“Aabha,” disse Omar. Lei si voltò, e lui si accorse di quanto fosse assonnata.

Sorrise, e lui le sorrise a sua volta. “Hai fatto una cosa meravigliosa,” le disse. “Sono molto orgoglioso di te. Forse è ora che tu dorma.”

Annuì. “Sono stanchissima.”

Omar si curvò e le loro labbra si incontrarono. La baciò profondamente, assaporando il suo sapore e il ricordo delle curve del suo corpo, dei suoi movimenti, e dei suoi gemiti.

“Per te, tesoro mio, il riposo è decisamente meritato.”

Omar lanciò un’occhiata alla guardia. Era un uomo alto e forte. Lui prese una borsa di plastica dalla tasca della giacca, avvicinò la ragazza da dietro, e con un unico abile movimento le fece scivolare la borsa sulla testa e la strinse forte.

Istantaneamente il corpo di lei si fece elettrico. Si allungò all’indietro nel tentativo di graffiarlo e colpirlo. I piedi le saltarono in aria. Combatté, ma era impossibile. L’uomo era decisamente troppo forte. Aveva i polsi e gli avambracci tesi, con le vene che si increspavano e i muscoli che facevano il loro dovere.

Attraverso la borsa traslucida, il viso di lei divenne una maschera di terrore e disperazione, gli occhi spalancati. La bocca era una grossa O, una luna piena, che rantolava in cerca di aria senza trovarne. Risucchiava sottile plastica invece di ossigeno.

Il corpo le si tese, e divenne rigido. Era come un intaglio nel legno di donna, il corpo in pendenza, leggermente curvato all’indietro nel mezzo. Gradualmente cominciò a scendere. Si indebolì, calò, e poi si fermò del tutto. La guardia allora le permise di affondare lentamente di nuovo sulla sedia. Lui affondò con lei, guidandola. Adesso che era morta, la trattava con dolcezza.

L’uomo fece un respiro profondo e alzò lo sguardo su Omar.

“Cosa devo farne?”

Omar fissò la notte buia.

Era un peccato uccidere una ragazza tanto brava come Aabha, ma era macchiata. A un certo punto, presto, forse addirittura l’indomani mattina, gli americani avrebbero scoperto che il virus era sparito. Subito dopo avrebbero scoperto che Aabha era stata l’ultima persona a mettere piede nel laboratorio, e che si trovava lì quando era mancata la luce.

Sarebbero giunti alla conclusione che la mancanza di elettricità era dovuta a un cavo sotterraneo tagliato deliberatamente, e che il mancato funzionamento dei generatori di scorta era il risultato di un attento sabotaggio condotto molte settimane prima. Avrebbero cercato disperatamente Aabha, avrebbero fatto una ricerca senza regole, e non avrebbero mai dovuto trovarla.

“Fatti aiutare da Abdul. Ha dei secchi vuoti e del cemento a presa rapida nell’armadietto dell’attrezzatura, nella stanza dei motori. Portala lì. Appesantiscila con un secchio di cemento attorno ai piedi e ai polpacci, e gettala nel punto più profondo del mare. Un migliaio di piedi di profondità o più, per cortesia. I dati sono subito disponibili, vero?”

L’uomo annuì. “Sì, signore.”

“Perfetto. In seguito fa’ lavare tutte le mie lenzuola, i cuscini e le coperte. Dobbiamo stare attenti a distruggere tutte le prove. Nell’ipotesi molto improbabile che gli americani assaltino la barca, non voglio avere nei miei paraggi il DNA della ragazza.”

L’uomo annuì. “Certamente.”

“Benissimo,” disse Omar.

Lasciò la sua guardia del corpo con il cadavere e tornò nella camera padronale. Era ora di fare un bagno caldo.

CAPITOLO CINQUE

10 giugno

11:15

Contea di Queen Anne, Maryland – Spiaggia orientale della baia di Chesapeake

“Be’, magari dovremmo solo vendere la casa,” disse Luke.

Stava parlando della loro vecchia casa di campagna sul litorale, a venti minuti di strada da dove si trovavano in quel momento. Luke e Becca avevano preso in affitto un’altra casa, molto più spaziosa e moderna, per le due settimane seguenti. A Luke la nuova casa piaceva di più, ma erano lì solo perché Becca non sarebbe mai tornata a casa loro.

Capiva la sua riluttanza. Ovvio che la capiva. Quattro notti prima sia Becca che Gunner erano stati rapiti, in quella casa. Luke non era lì a proteggerli. Avrebbero potuto essere uccisi. Sarebbe potuto succedere di tutto.

Diede un’occhiata alla grande e luminosa finestra della cucina. Gunner era fuori in jeans e t-shirt a fare un gioco immaginario, come ogni tanto fanno i bambini di nove anni. Tra pochi minuti Gunner e Luke avrebbero tirato fuori la barca a vela per andare a pesca.

Vedere suo figlio gli diede una stilettata di terrore.

E se Gunner fosse rimasto ucciso? E se entrambi fossero semplicemente scomparsi, per sempre? E se tra due anni Gunner non avesse più fatto giochi immaginari? Luke aveva una baraonda in testa.

Sì, era stato orribile. Sì, non sarebbe mai dovuto accadere. Ma c’erano problemi più importanti. Luke e Ed Newsam e una manciata di persone avevano bloccato un violento tentativo di colpo di Stato, e avevano reinstallato ciò che era rimasto del governo degli Stati Uniti eletto democraticamente. Era possibile che avessero salvato la democrazia americana stessa.

Era stata una bella cosa, ma Becca non sembrava interessata ai problemi più importanti in quel momento.

Sedeva al tavolo della cucina in un abito celeste, a bere la sua seconda tazza di caffè. “È facile dirlo per te. Quella casa appartiene alla mia famiglia da cent’anni.”

Rebecca aveva i capelli lunghi che le ricadevano sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri, incorniciati da folte ciglia. Per Luke il suo bel viso era magro e tirato. Gli dispiaceva. Gli dispiaceva per tutto, ma non riusciva a pensare a qualcosa da dire che potesse migliorare le cose.

Una lacrima le rotolò giù per la guancia. “Lì c’è il mio giardino, Luke.”

“Lo so.”

“Non posso lavorare nel mio giardino perché ho paura. Ho paura di casa mia, la casa alla quale torno da quando sono nata.”

Luke non disse nulla.

“E il signore e la signora Thompson… sono morti. Lo sai, no? Quegli uomini li hanno uccisi.” Guardò tagliente Luke. Aveva gli occhi cattivi. Becca aveva la tendenza ad arrabbiarsi con lui, a volte per questioni davvero minori. Si dimenticava di fare i piatti, o di portar fuori la spazzatura. Quando lei si arrabbiava, aveva negli occhi sempre uno sguardo simile a quello di adesso. Luke tra sé e sé lo chiamava lo Sguardo che incolpa. E per Luke, in quel momento, lo Sguardo che incolpa era troppo.

Riportò alla mente una breve immagine dei suoi vicini, il signore e la signora Thompson. Se a Hollywood avessero dovuto ingaggiare una gentile e anziana coppietta della porta accanto, i Thompson sarebbero stati perfetti per il ruolo. A lui piacevano i Thompson, e non avrebbe mai voluto che le loro vite finissero così. Ma quel giorno erano morte molte persone.

“Becca, non li ho uccisi io i Thompson. Okay? Mi dispiace che siano morti, e mi dispiace che tu e Gunner siate stati rapiti – me ne dispiacerò per il resto della vita e farò tutto ciò che posso per sistemare le cose con voi due. Ma non sono stato io. Non ho ucciso i Thompson. Non ho mandato delle persone a rapirvi. Sembri aver confuso le cose, e questo proprio non mi va.”

Fece una pausa. Era un buon momento per smettere di parlare, ma non smise. Le parole gli uscirono in torrenti.

“Tutto quello che ho fatto è stato farmi strada in una tormenta di proiettili e bombe. Hanno cercato di uccidermi per tutto il giorno e per tutta la notte. Mi hanno sparato, sono saltato per aria, sono stato mandato fuori strada. E ho salvato la presidente degli Stati Uniti, la tua presidente, da morte praticamente certa. Questo ho fatto.”

Respirò pesantemente, come se avesse appena fatto una corsa.

Si pentì di tutto. Che fosse la verità. Lo feriva pensare che il lavoro che faceva le avesse causato del dolore, lo feriva più di quanto lei avrebbe mai saputo. Aveva lasciato il suo lavoro l’anno precedente proprio per quella ragione, ma era stato richiamato per una sola notte – una notte che si era trasformata in una notte, un giorno, un’altra notte incredibilmente lunga. Una notte durante la quale aveva pensato di aver perso per sempre la sua famiglia.

Becca non si fidava più di lui. Lui lo vedeva bene. La sua sola presenza la spaventava. Lui era la ragione di quello che era accaduto. Era spericolato, fanatico, e avrebbe fatto ammazzare lei e suo figlio.

Le lacrime le scendevano silenziose lungo il viso. Passò un lungo minuto.

“Ha poi importanza?” gli disse.

“Che cosa?”

“Ha importanza chi è presidente? Se io e Gunner fossimo morti, ti importerebbe davvero di chi è presidente?”

“Ma siete vivi,” disse. “Non siete morti. Siete vivi e vegeti. C’è una bella differenza.”

“Okay,” disse lei. “Siamo vivi.” Era un’intesa che non era un’intesa.

“Voglio dirti una cosa,” disse Luke. “Lascio. Non ho intenzione di farlo più. Nei prossimi giorni magari avrò qualche riunione a cui partecipare, ma non prenderò più nessun incarico. Ho fatto la mia parte. Adesso ho finito.”

Lei scosse la testa, ma appena appena. Era come se non avesse neanche l’energia di muoversi. “Me l’hai già detto in passato.”

“Sì. Ma questa volta dico sul serio.”

*

“Tieni sempre la barca in equilibrio.”

“Okay,” disse Gunner.

Lui e il padre caricavano l’attrezzatura. Gunner indossava i jeans, una t-shirt e un grande e floscio cappello da pescatore per ripararsi il viso dal sole. Aveva anche un paio di occhiali da sole Oakley che gli aveva dato il padre perché erano fighi. Suo padre ne indossava un paio identico.

La t-shirt andava bene – era di 28 giorni dopo, un filmetto carino di zombie con gli inglesi. Il problema della maglietta era che non aveva veri e propri zombie disegnati sopra. C’era solo il simbolo rosso del rischio biologico su sfondo nero. Immaginò che avesse senso. Gli zombie del film non erano davvero dei non-morti. Erano persone infettate da un virus.

 

“Metti di traverso il frigo portatile,” gli disse il padre.

Suo padre conosceva tutte queste parole strane che usava ogni volta che andavano a pescare. A volte facevano ridere Gunner. “Di traverso!” urlò. “Signorsì, capitano.”

Suo padre spostò la mano per mostrargli dove voleva che lo mettesse; nel mezzo, di lato, non vicino al parapetto posteriore dove Gunner l’aveva invece messo. Gunner fece scivolare il grosso frigo azzurro al suo posto.

Rimasero lì, a fissarsi l’uno con l’altro. Suo padre gli rivolse un’occhiata buffa da dietro gli occhiali. “Come stai, figliolo?”

Gunner esitò. Sapeva che era preoccupato per lui. L’aveva sentito sussurrare il suo nome, la notte precedente. Ma stava bene. Davvero. Era stato spaventato, ed era ancora un po’ spaventato. Aveva anche pianto molto, il che andava bene. Si doveva piangere, ogni tanto. Non si doveva tenere tutto dentro.

“Gunner?”

Be’, poteva anche parlarne.

“Papà, a volte tu uccidi persone, vero?”

Suo padre annuì. “A volte lo faccio, sì. Fa parte del mio lavoro. Ma uccido solo i cattivi.”

“Come fai a sapere che sono cattivi?”

“A volte è difficile capirlo. E a volte è facile. I cattivi fanno male alle persone che sono più deboli, oppure a persone innocenti che pensano solo ai fatti loro. Il mio lavoro consiste nell’impedir loro di farlo.”

“Come gli uomini che hanno ucciso il presidente?”

Il padre annuì.

“Li hai uccisi?”

“Ne ho uccisi alcuni, sì.”

“E quelli che hanno rapito me e la mamma? Hai ucciso anche loro, vero?”

“Sì, li ho uccisi.”

“Sono contento che tu l’abbia fatto, papà.”

“Anch’io, mostriciattolo. Erano proprio il tipo di uomini che è giusto uccidere.”

“Sei tu il miglior killer del mondo?”

Suo padre scosse la testa e sorrise. “Non lo so, campione. Non credo che ci diano punti. Non è uno sport. Non c’è un campione mondiale dell’omicidio. In ogni caso, non lo farò più. Voglio trascorrere più tempo con te e con la mamma.”

Gunner ci pensò su. In tv aveva visto un notiziario su suo padre, il giorno prima. Era un servizio molto breve, ma c’erano la foto e il nome del padre, e un video di quando era più giovane e stava nell’esercito. Luke Stone, agente della Delta Force. Luke Stone, Special Response Team dell’FBI. Luke Stone e la sua squadra hanno salvato il governo degli Stati Uniti.

“Sono orgoglioso di te, papà. Anche se non sarai mai il campione mondiale.”

Suo padre rise. Fece un cenno in direzione del molo. “Okay; siamo pronti?”

Gunner annuì.

“Andiamo al largo, buttiamo l’ancora, vediamo se troviamo un po’ di persici spigola sulla bassa marea.”

Gunner annuì. Si allontanarono dal molo per spostarsi lentamente attraverso la zona in cui si doveva procedere a velocità ridottissima. Si preparò quando la barca prese velocità.

Gunner scrutava l’orizzonte davanti a loro. Era l’osservatore, e doveva tenere gli occhi bene aperti, come a suo padre piaceva dire. Erano usciti a pesca insieme tre volte quella primavera, ma non avevano preso niente. Quando si andava a pescare e non si prendeva niente, papà diceva che erano “in magra”. Adesso erano decisamente in magra.

Poco dopo Gunner vide degli spruzzi a mezza via del fianco di tribordo. C’erano delle sterne che si tuffavano, gettandosi in acqua come bombe.

“Ehi, guarda!”

Il padre annuì e sorrise.

“Persici spigola?”

Il padre scosse la testa. “Pesce serra.” E poi disse, “Aspetta.”

Accelerò e poco dopo schiumavano, correvano, sempre prendendo velocità, mentre la barca si metteva in piano e Gunner quasi veniva buttato all’indietro. Un attimo dopo andavano con calma per la forte rapida, la barca si immerse e si risistemarono sulle lunghe onde.

Gunner afferrò due lunghe canne da pesca con uncini singoli. Ne porse una al padre e poi lanciò la sua senza aspettare. Quasi istantaneamente si sentì strattonare forte. Adesso nella canna c’era un vigore selvaggio, che vibrava di vita. Una forza invisibile quasi gliela strappò dalle mani. Il filo si spezzò e si afflosciò. Il pesce serra si era liberato. Si girò per dirlo al padre, ma anche lui adesso era preso dalla canna, che era piegata in due.

Gunner prese una rete e si preparò. Il pesce serra – argentato e azzurro e verde e bianco e molto, molto arrabbiato, fu issato dall’acqua fin sull’abitacolo.

“Bel pesce.”

“Finalmente!”

Il pesce cadde di peso sul ponte, preso nella maglia verde della rete.

“Lo teniamo?”

“No. Ci ha liberato dalla magra, ma siamo qui per i persici spigola. I pesci serra sono forti, ma i persici spigola sono più grossi, e poi grigliati vengono meglio.”

Liberarono il pesce – Gunner osservò il padre agguantare il pesce che ancora si dimenava e contorceva e rimuovere l’uncino, con le dita a pochi centimetri da quei famelici denti. Suo padre gettò il pesce oltre la sponda, dove con una rapida frustata della coda si tuffò nelle profondità dell’oceano.

Non appena fu scomparso il telefono di suo padre prese a suonare. Lui sorrise e guardò il telefono. Poi lo mise da parte. Vibrava e vibrava. Dopo un po’ smise. Passarono dieci secondi prima che ricominciasse.

“Non rispondi?” disse Gunner.

Scosse la testa. “No. Anzi, lo spengo.”

Gunner sentì un’improvvisa paura nello stomaco. “Papà, ma devi rispondere. E se è un’emergenza? E se i cattivi stanno tornando?”

Suo padre lo fissò per un lungo secondo. Il telefono aveva smesso di vibrare. Poi ricominciò. Rispose.

“Stone,” disse.

Fece una pausa e il suo viso si oscurò. “Ciao, Richard. Sì, il capo dello staff di Susan. Certo. Ho sentito parlare di te. Be’, senta. Lo sa che mi sto prendendo del tempo per me, no? Non ho nemmeno deciso se faccio ancora parte dello Special Response Team, o in qualsiasi modo si chiami adesso. Sì, lo capisco, ma c’è sempre qualcosa di urgente. Non capita mai che mi chiamino a casa per dirmi che non è urgente. Okay… okay. Se la presidente a questa riunione ci tiene davvero, mi può chiamare di persona. Sa dove trovarmi. Okay? Grazie.”

Quando riappese, Gunner lo osservò.  Non sembrava che si stesse divertendo quanto si divertiva appena un minuto prima. Gunner sapeva che se chiamava la presidente, suo padre avrebbe fatto di corsa i bagagli per andarsene da qualche parte. Un’altra missione, magari altri cattivi da uccidere. E avrebbe lasciato lui e sua madre di nuovo a casa da soli.

“Papà, ti chiamerà la presidente?”

Il padre gli scompigliò i capelli. “Mostriciattolo, di certo spero di no. Adesso che dici? Andiamo a prendere qualche persico spigola.”

*

Ore dopo, la presidente non aveva ancora chiamato.

Luke e Gunner avevano preso tre bei persici spigola, e Luke mostrò a Gunner come eviscerarli, pulirli e tagliarli in filetti. Non era una novità, ma è con la ripetizione che si apprende. Si era aggiunta anche Becca, che aveva portato una bottiglia di vino sul patio e un piatto di formaggio e cracker sulla tavola.

Luke stava accendendo la griglia quando suonò il telefono.

Guardò la sua famiglia. Erano raggelati al primo squillo. Lui e Becca si scambiarono uno sguardo. Lui non riusciva più a leggere i suoi occhi. Qualunque cosa dicessero, non si trattava di un sostegno. Rispose al telefono.

Una voce profonda, di uomo: “Agente Stone?”

“Sì.”

“La prego di attendere in linea la presidente degli Stati Uniti.”

Rimase lì ottuso, ad ascoltare il vuoto.

Si sentì un click e arrivò lei. “Luke?”

“Susan.”

La mente gli ritornò un’immagine della donna, a guidare tutto il Paese, e la maggior parte del mondo, cantando “God Bless America.” Era stato un momento fantastico, ma era tutto ciò che era – un momento. Ed era il tipo di cosa che i politici erano bravi a fare. Era praticamente un trucchetto da salotto.

“Luke, abbiamo per le mani una crisi.”

“Susan, abbiamo sempre una crisi per le mani.”

“In questo momento ci sono dentro fino al collo.”

Ottimo. Era da un po’ che non sentiva un’espressione del genere.

“Faremo una riunione. Qui a casa. Ho bisogno che venga anche lei.”

“Quand’è la riunione?”

Non esitò. “Tra un’ora.”

“Susan, con il traffico sono a due ore di distanza. In una giornata buona. Adesso la metà delle strade è ancora chiusa.”

“Non se ne starà in mezzo al traffico. Sta arrivando un elicottero. Sarà lì tra quattordici minuti.”

Luke guardò di nuovo la sua famiglia. Becca si era versata un bicchiere di vino e sedeva dandogli le spalle, fissando il sole del tardo pomeriggio che affondava nell’acqua. Gunner fissava il pesce sulla griglia.

“Okay,” disse Luke al telefono.

CAPITOLO SEI

18:45

Osservatorio navale degli Stati Uniti – Washington, DC

“Agente Stone, io sono Richard Monk, il capo dello staff della presidente. Abbiamo parlato al telefono, prima.”

Luke era sceso sull’elisuperficie dell’osservatorio navale da cinque minuti. Strinse la mano del tizio alto e in forma di poco meno di quarant’anni, probabilmente dell’età sua. L’uomo indossava una camicia azzurra con le maniche arrotolate sugli avambracci. La cravatta pendeva sbilenca. La parte alta del corpo era rigorosamente muscolosa, come in una pubblicità di Men’s Health. Lavorava duro e giocava duro – questo diceva il look di Richard Monk a chiunque avesse voglia prestare orecchio.

Percorsero il corridoio di marmo della Nuova Casa Bianca verso le ampie porte doppie in fondo. “Abbiamo adattato la nostra vecchia sala conferenze a sala operativa,” disse Monk. “Ci stiamo ancora lavorando, ma ce la faremo.”

“È fortunato a essere vivo, vero?” disse Luke.

La maschera di sicurezza sul viso dell’uomo vacillò, solo per un secondo. Annuì. “Io e la vice… Be’, all’epoca era vicepresidente. Io e la presidente e parte dello staff eravamo sulla costa occidentale quando il presidente Hayes l’ha riconvocata all’est. È stato molto improvviso. Io sono rimasto indietro, a Seattle, con pochi altri per mettere a posto le cose. Quando è accaduto quel che è accaduto a Mount Weather…”

Scosse la testa. “È troppo orribile. Però sì, avrei potuto rimanerci anch’io.”

Luke annuì. Giorni dopo il disastro stavano ancora estraendo corpi da Mount Weather. Trecento finora, e sarebbero aumentati. Tra di loro c’erano l’ex segretario di Stato, l’ex segretario dell’educazione, l’ex segretario degli interni, il capo della NASA e dozzine di altri rappresentanti e senatori degli Stati Uniti.

I vigili del fuoco avevano spento l’incendio sotterraneo principale solo ieri.

“Qual è la crisi per cui Susan mi ha fatto venire qui?” disse Luke.

Monk fece un cenno in direzione della fine del corridoio. “Ah, la presidente Hopkins è nella sala conferenze, insieme ad alcuni membri chiave dello staff. Penso che lascerò che siano loro a dirle che sta accadendo.”

Superarono le doppie porte ed entrarono nella stanza. Erano già sedute a una grande tavola ovale più di una dozzina di persone. Susan Hopkins, la presidente degli Stati Uniti, sedeva nel punto più lontano dalla porta. Era piccola, quasi dimessa, circondata da grossi uomini. Due agenti dei servizi segreti le stavano accanto, da una parte e dall’altra, in piedi. Altri tre erano in vari angoli della stanza.

Un uomo dall’aria nervosa era in piedi in testa al tavolo. Era alto, con una calvizie incipiente, un po’ grasso, portava gli occhiali e un completo della taglia sbagliata. Luke lo valutò in un paio di secondi. Quella non era la sua sede normale, e credeva di essere in guai seri. Sembrava che lo avessero già torchiato in tutti i modi.

Susan si alzò. “Prima di cominciare, voglio presentare a tutti l’agente Luke Stone, ex membro dello Special Response Team dell’FBI. Qualche giorno fa mi ha salvato la vita, ed è stato determinante per salvare la Repubblica per come la conosciamo. Non sto esagerando. Non credo di aver mai conosciuto prima un agente tanto preparato, esperto e coraggioso di fronte alle avversità. È un vanto per la nostra nazione, per le nostre forze armate e per la nostra intelligence il fatto che identifichiamo e addestriamo uomini e donne come l’agente Stone.”

Ora si alzarono tutti per applaudire. Alle orecchie di Luke l’applauso sembrava artefatto e formale. Queste persone dovevano applaudire. La presidente voleva che lo facessero. Alzò la mano, cercando di farle smettere. La situazione era assurda.

 

“Salve,” disse quando l’applauso terminò. “Scusate il ritardo.”

Luke sedette su un posto vuoto. L’uomo in piedi lo fissò direttamente. Adesso Luke non sapeva che cosa ci fosse in quegli occhi. Speranza? Forse. Sembrava un quarterback disperato sul punto di lanciargli addosso un Ave Maria.

“Luke,” disse Susan. “Questo è il dottor Wesley Drinan, direttore del Galveston National Laboratory all’università del Texas, medicina. Ci aggiornerà su una possibile violazione della sicurezza avvenuta al livello 4 di biosicurezza.”

“Ah,” disse Luke. “Benissimo.”

“Agente Stone, se ne intende di laboratori al livello 4 di biosicurezza?”

“Mi chiami pure Luke,” disse. “Li ho sentiti nominare. Magari mi può spiegare tutto velocemente, comunque.”

Drinan annuì. “Ma certo. Le faccio la presentazione di trenta secondi. I laboratori BSL-4 sono il più alto livello di sicurezza quando si trattano agenti biologici. Il BSL-4 è il livello richiesto per lavorare con virus e batteri pericolosi ed esotici che comportano un alto rischio di infezioni contratte in laboratorio, così come di quelle che causano malattie gravi e/o mortali negli esseri umani. Queste sono malattie per cui al momento non sono disponibili né vaccini né altri trattamenti. In generale sto parlando di ebola, margur e altri virus emorragici emergenti che stiamo scoprendo nelle regioni profonde dell’Africa e del Sudamerica. A volte ci occupiamo anche di virus dell’influenza mutati finché non capiamo i loro meccanismi di trasmissione, indici di infezione, indici di mortalità, etc.”

“Okay,” disse Luke. “Ho capito. Ed è stato rubato qualcosa?”

“Non lo sappiamo. Manca qualcosa. Ma non sappiamo che cosa è accaduto.”

Luke non parlò. Semplicemente annuì all’uomo che continuava a parlare.

“Due sere fa abbiamo avuto una caduta di corrente. Già questo è raro. Ancor più raro è il fatto che i generatori di emergenza non si siano accesi immediatamente. Stando alla progettazione dell’edificio, in caso di blackout ci dovrebbe essere un cambio senza interruzioni dall’energia centrale a quella di scorta. Così non è stato. Invece l’edificio è passato alle riserve di emergenza, che consistono in uno stato di bassa energia che tiene in vita solo i sistemi essenziali.”

“Che genere di sistemi non essenziali si sono spenti?” chiese Luke.

Drinan fece spallucce. “Le cose che può immaginare. Luci. Computer. Telecamere.”

“Telecamere di sicurezza?”

“Sì.”

“Dentro all’edificio?”

“Sì.”

“Dentro c’era qualcuno?”

L’uomo annuì. “In quel momento dentro c’erano due persone. Una era un addetto alla sicurezza che si chiama Thomas Eder. Lavora all’edificio da quindici anni. Era alla postazione di guardia, non all’interno dell’edificio di isolamento. Gli abbiamo parlato, così come ha fatto la polizia e il Bureau of Investigation del Texas. È stato cooperativo.”

“Chi altro c’era?”

“Ehm, c’era una scienziata, nella zona di isolamento. Si chiama Aabha Rushdie. Viene dall’India. È una bellissima persona e una bravissima scienziata. Ha studiato a Londra, ha superato diversi addestramenti per i BSL-4 e ha tutte le autorizzazioni di sicurezza necessarie. È con noi da tre anni e io ho lavorato direttamente con lei in diverse occasioni.”

“Okay…” disse Luke.

“Quando è mancata la corrente, l’aria temporaneamente ha smesso di arrivare attraverso il tubo. Si tratta di una situazione potenzialmente pericolosa. È rimasta anche nell’oscurità più assoluta. Si è spaventata, e pare che Thomas Eder le abbia permesso di uscire dall’edificio senza seguire tutti i protocolli di sicurezza richiesti.”

Luke sorrise. Sembrava facile. “E poi è sparito qualcosa?”

Drinan esitò. “Il giorno seguente con un inventario è venuto fuori che mancava una fiala di uno specifico virus Ebola.”

“Qualcuno ha parlato con questa Rushdie?”

Drinan scosse la testa. “È sparita anche lei. Ieri un allevatore ha trovato la sua auto su una proprietà isolata nella zona collinare a cinquanta miglia a ovest di Austin. La polizia di Stato dice che macchine abbandonate così indicano spesso che siamo in presenza di un crimine. La ragazza non è nel suo appartamento. Abbiamo cercato di contattare la sua famiglia a Londra, senza fortuna.”

“Avrebbe avuto delle ragioni per rubare il virus Ebola?”

“No. È impossibile da credere. Ho lottato con la questione per due giorni. La Aabha che conosco io non è una persona che… non riesco neanche a dirlo. Ma non è così. Non capisco che cosa stia accadendo. Temo che possa essere stata rapita o che possa essere caduta in mani criminali. Sono senza parole.”

“E non abbiamo ancora raggiunto la parte peggiore,” disse bruscamente Susan Hopkins. “Dottor Drinan, può parlare all’agente Stone del virus, per favore?”

Il buon dottore annuì. Guardò Stone.

“Il virus è stato modificato a scopi militari. È simile a quello che troviamo in natura, come l’ebola che ha ucciso diecimila persona durante l’epidemia dell’Africa occidentale, però peggio. È più virulento, ad azione più veloce, può essere trasmesso più facilmente e ha un indice di mortalità più alto. È una sostanza molto pericolosa. Dobbiamo recuperarlo o distruggerlo o determinare con certezza che è già stato distrutto.”

Luke si voltò verso Susan.

“Vogliamo che lei vada là sotto,” gli disse lei. “A vedere che cosa riesce a scoprire.”

Erano le precise parole che Luke non voleva sentire. Al telefono lei lo aveva invitato a una riunione. Ma lo aveva portato lì per affidargli una missione.

“Mi chiedo,” disse Luke, “se possiamo parlarne in privato.”

*

“Possiamo portarle qualcosa?” disse Richard Monk. “Un caffè?”

“Certo, un caffè, grazie,” disse Luke.

Non gli sarebbe dispiaciuto un po’ di caffè in quel momento, ma più che altro aveva accettato l’offerta perché pensava che così avrebbe costretto Monk a lasciare la stanza. Errore. Monk si limitò a prendere un telefono per ordinare qualcosa dalla cucina che si trovava al piano di sotto.

Luke, Monk e Susan si trovavano in una stanza al piano di sopra vicino alla zona abitabile. Luke sapeva che la famiglia di Susan non viveva lì. Quando era vicepresidente non le aveva prestato molta attenzione, ma si era comunque fatto l’idea che lei e suo marito fossero separati.

Luke si appoggiò allo schienale della comoda poltrona. “Susan, prima di cominciare voglio dirle una cosa. Ho deciso di ritirarmi, con effetto immediato. Glielo dico io prima che lo faccia chiunque altro, in modo che possa trovare qualcun altro da mettere a capo dell’SRT.”

Susan non parlò.

“Stone,” disse Monk, “adesso può anche saperlo. Lo Special Response Team è pronto per la decapitazione. È finito. Don Morris è stato coinvolto nel colpo di Stato fin dall’inizio. È almeno in parte responsabile di una delle peggiori atrocità che abbiano mai avuto luogo sul suolo americano. Ed è stato lui a creare lo Special Response Team. Sono certo che può capire che la sicurezza, soprattutto la sicurezza della presidente, è la cosa più importante sul nostro radar al momento. Non si tratta solo dell’SRT. Stiamo indagando sub-agenzie sospette nella CIA, nell’NSA e al Pentagono, tra le altre. Dobbiamo sradicare i cospiratori, in modo che non accada mai più una cosa del genere.”

“Capisco le vostre preoccupazioni,” disse Luke.

E le capiva davvero. Il governo era fragile al momento, forse più fragile di quanto lo fosse mai stato. Il Congresso era stato spazzato via quasi interamente, e una ex top model era stata elevata alla Presidenza. Gli Stati Uniti aveva dimostrato di avere i piedi di argilla, e se c’erano in giro altri cospiratori non c’era motivo di pensare che non avrebbero fatto un altro tentativo di riprendere il potere.

“Se avete comunque intenzione di eliminare l’SRT, per me è il momento perfetto per andarmene.” Più diceva cose del genere, più gli diventavano reali.

Era ora di rimettere insieme la sua famiglia. Era ora di ricreare il luogo idilliaco della sua mente in cui lui, Becca e Gunner sarebbero potuti stare in pace, lontano da preoccupazioni del genere, dove anche se fosse accaduto il peggio non avrebbe avuto chissà quale importanza.

Diamine, magari sarebbe solo dovuto andare a casa a chiedere a Becca se voleva trasferirsi in Costa Rica. Gunner poteva diventare bilingue. Potevano vivere sulla spiaggia. Becca poteva avere un giardino esotico. Luke poteva fare surf un paio di volte a settimana. La costa occidentale del Costa Rica aveva alcune tra le migliori onde delle Americhe.