Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2

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CAPITOLO CINQUE

3:45 p.m. Ora legale orientale

Contea di Queen Anne, Maryland

Sponda orientale di Chesapeake Bay

“Sei tornato a casa presto.”

Luke guardò la suocera, Audrey, prendendosi il suo tempo e soppesandola. La donna aveva occhi infossati dalle iridi tanto scure da sembrare quasi nere e un naso affilato come un becco. La sua ossatura era sottile e minuta. Gli ricordava un uccello, un corvo o magari un avvoltoio. E tuttavia a modo suo era attraente.

A cinquantanove anni era ancora in forma e lui sapeva che quando era stata giovane, negli anni ’60, aveva lavorato come modella per alcuni giornali e riviste. Per quel che ne sapeva era l’unico mestiere che avesse mai avuto.

Faceva parte della famiglia Outerbridge, facoltosi proprietari terrieri che abitavano nella zona di New York e del New Jersey da prima che gli Stati Uniti diventassero una nazione. Suo marito, Lance, veniva da una famiglia altrettanto antica e ricca, i St John, “baroni del legname” del New England.

In generale Audrey St. John disapprovava il lavoro. Non lo capiva e in particolare non riusciva a comprendere perché qualcuno volesse fare il mestiere sporco e pericoloso che occupava le giornate di Luke Stone. Sembrava perpetuamente sbalordita che la sua stessa figlia, Rebecca St. John, avesse sposato un uomo come Luke.

Audrey e Lance non lo avevano mai accettato come genero. Avevano avuto un’influenza tossica sulla loro relazione da molto prima che lui e Becca si sposassero. La sua presenza in casa avrebbe reso ancora più difficile parlare con la moglie della sua ultima missione.

“Ciao, Audrey,” disse, cercando di sembrare allegro.

Era appena entrato. Si era tolto la cravatta e aveva sbottonato i primi due bottoni della camicia, ma per il momento quelle erano state le sue uniche concessioni all’ambiente familiare. Andò al frigo e tornò con una birra gelata.

Ormai era piena estate e il tempo era gradevole. La zona dove si trovavano era splendida. Lui e Becca vivevano nel cottage della famiglia della donna, nella contea di Queen Anne. La casa era di proprietà dei St. John da oltre un secolo.

L’edificio era una villetta antica e in stile rustico che sorgeva su un piccolo promontorio appena sopra la baia. Erano due piani completamente in legno, che cigolavano e scricchiolavano ovunque si camminasse. La porta della cucina era a molla, e si richiudeva di scatto con energia. Aveva un portico schermato che dava sull’acqua, e una veranda in pietra più nuova con una splendida vista sul promontorio.

Avevano iniziato ad aggiornare gradualmente il mobilio vecchio di generazioni per rendere il posto più adatto alla vita di tutti i giorni. Nel soggiorno c’erano un divano e delle poltrone nuove. Un sabato mattina, con le buone o le cattive e la pura forza bruta, Luke e Big Ed Newsam erano riusciti a trasportare un gigantesco letto matrimoniale nella camera padronale.

Persino con quelle migliorie l’oggetto più robusto della casa era il caminetto di pietra del salotto. Era quasi come se il maestoso e vecchio focolare fosse lì dall’alba dei tempi, e qualcuno con un senso dell’umorismo vi avessi costruito intorno un piccolo cottage estivo.

Era un posto incredibile. Luke amava vivere lì. Sì, era lontano dal suo ufficio e sì, se il lavoro nel Gruppo fosse andato bene (e pareva fosse proprio così) avrebbero dovuto trasferirsi più vicino alla città, ma per il momento? Era il paradiso. Il viaggio di novanta minuti per tornare a casa non sembrava nemmeno tanto male, vista la ricompensa finale.

Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra. Becca era in veranda a dar da mangiare al bambino. Luke non desiderava altro che sedersi là fuori con loro per ammirare l’acqua e il cielo, e godersi l’aria fino a quando il sole non fosse tramontato. Ma non poteva. Sfortunatamente doveva preparare le valige per il viaggio. E prima ancora c’era una cosa molto più difficile da fare: annunciare che sarebbe partito.

“Ti hanno preso a pugni sul lavoro?” domandò Audrey.

Luke scrollò le spalle. Anche se li sentiva ancora bene, si era quasi dimenticato del graffio sulla guancia e della mascella gonfia. Il dolore era un suo vecchio amico. Quando non era straziante, quasi non lo percepiva. In un certo senso era quasi confortante.

Aprì la birra e prese una sorsata. Era ghiacciata e deliziosa. “Qualcosa del genere, ma avresti dovuto vedere l’altro tizio.”

La suocera non rise. Emise un mezzo grugnito e andò al piano di sopra.

Luke era stanco. Era già stata una giornata lunga, tra il funerale di Martinez, lo scontro con Murphy e tutto il resto. E in realtà era appena iniziata. Aveva solo un’ora da passare a casa prima di dover tornare in città, da lì prendere un aereo per la Turchia e poi, se tutto si fosse incastrato a dovere, volare fino in Russia.

Uscì in veranda. Mentre allattava il bambino Becca sembrava un dipinto impressionista, con il maglione rosso acceso e il cappello floscio vividi contro il verde dell’erba e le lunghe pennellate azzurre del cielo e blu dell’acqua. In lontananza si vedeva un veliero a due alberi con le vele spiegate, che avanzava pigramente verso ovest. Se Luke avesse potuto premere STOP e catturare per sempre quell’istante, lo avrebbe fatto.

La moglie alzò lo sguardo, lo vide e gli sorrise. Il suo volto gli trasmise gioia. Becca era incantevole come sempre. E un sorriso era un buon segno, in particolare di quei tempi. Magari l’oscurità della depressione post partum stava iniziando a svanire.

Luke prese un lungo respiro, sospirò e sorrise tra sé e sé.

“Ehi, bellissima,” la salutò.

“Ehi, stupendo.”

Lui si chinò per baciarla.

“E come sta oggi il nostro ragazzo?”

La donna annuì. “Bene. Ha dormito tre ore, mamma l’ha tenuto d’occhio quindi sono persino riuscita a fare un pisolino. Non voglio prometterti niente, ma forse il peggio potrebbe essere passato. Per lo meno lo spero.”

Entrambi rimasero in silenzio per un po’.

“Sei tornato a casa presto,” notò lei. Era la seconda volta in cinque minuti che glielo facevano notare. Lo prese come un brutto segno. “Come è andata la tua giornata?”

Luke si sedette al tavolo davanti a Becca e prese un sorso di birra. Come sempre, era convinto che quando c’erano dei problemi in vista, tanto valeva arrivare subito al sodo. E se fosse riuscito a limitare in fretta i danni, forse avrebbero potuto discutere della situazione senza che Audrey intervenisse per infierire.

“Beh, mi hanno affidato un incarico.”

Non era esattamente la verità. Non l’aveva definita una missione, né un’operazione. Che genere di incarico era? Così sembrava che avrebbe dovuto intervistare un artigiano locale per il giornale, o magari fare un progetto per il liceo.

Lei si mise subito sull’attenti.

Lo fissò dritto negli occhi, cercando di capire cosa le stava dicendo. “Di che cosa si tratta?”

Luke scrollò le spalle. “È una specie di pasticcio diplomatico. I russi hanno preso prigionieri tre archeologi americani e gli hanno confiscato un piccolo sommergibile. Erano nel Mar Nero a cercare un’antica nave greca. Sono acque internazionali ma i russi hanno pensato che fossero un po’ troppo vicini a casa loro.”

Lo sguardo di Becca non lo lasciò nemmeno un momento. “Sono spie?”

Lui prese un altro sorso della sua birra. Emise un suono, una secca risata. Era brava a quel gioco. Sua moglie ormai era un’esperta. Era arrivata dritta al punto.

Scosse la testa. “Lo sai che non posso dirtelo.”

“E tu dove dovresti andare, e a fare cosa?”

Luke alzò le spalle. “Vado in Turchia per vedere se riusciamo a farceli ridare.” Era vero, strettamente parlando. Solo che così aveva tralasciato abbastanza dettagli da riempire un intero continente. Era un peccato d’omissione.

Anche lei lo sapeva. “Per vedere se riusciamo a farceli ridare? Chi sarebbe questo noi?”

Ora era una partita a scacchi. “Gli Stati Uniti d’America.”

“Andiamo, Luke. Che cos’è che non mi stai dicendo?”

Lui sorseggiò di nuovo la birra e si grattò la testa. “Niente di importante, tesoro. I russi hanno tre dei nostri e io devo andare in Turchia. Vogliono me perché ho esperienza in missioni legate a questo genere di evento. Se i russi sono disposti a negoziare, forse non sarò nemmeno direttamente coinvolto.”

Alle sue spalle, la porta della veranda si chiuse con un tonfo. Per un secondo Becca guardò dietro di lui. Maledizione! Ecco che arrivava Audrey.

All’improvviso sua moglie perse il controllo. Le si riempirono gli occhi di lacrime. No! Non poteva avere un tempismo peggiore. “Luke, l’ultima volta che sei andato all’estero ero incinta di quasi nove mesi. Dovevi andare in Iraq per arrestare qualcuno, ricordi? Un lavoro di polizia, mi pare che l’avessi definito. Ma in realtà sei andato a salvare la figlia del…”

Lui alzò un dito. “Becca, lo sai che non è vero. Sono andato per arrestare un uomo, e quella missione è stata tranquilla…’

Era una bugia. Un’altra. Anche l’arresto era stato un macello.

“… la figlia del presidente dai terroristi islamici. Il tuo elicottero è caduto. Tu ed Ed avete combattuto contro dei miliziani di Al Qaeda in cima a una montagna.”

“È successo tutto quando ormai eravamo già lì.”

“Non sono stupida, Luke. So leggere tra le righe di un articolo sul giornale. C’era scritto che sono morti a dozzine. Significa che è stato un bagno di sangue e tu c’eri proprio in mezzo.”

Luke alzò di nuovo la mano in maniera impercettibile, come se lei gli avesse puntato contro una minuscola pistola. Tra di loro c’era ancora il bambino, che continuava a mangiare senza una sola preoccupazione al mondo.

 

“È solo un incarico, tesoro. È il mio lavoro. Don Morris…”

Ora fu Becca a sollevare una mano per fermarlo. “Non cominciare con Don Morris. Ormai non biasimo più neanche lui. Se non volessi andare in queste missioni suicide non ti potrebbe costringere. È semplice.”

Aveva iniziato a piangere, le sue guance erano striate di lacrime.

“Che cosa sta succedendo?” intervenne una voce. Era eccitata. Aveva percepito il sangue nell’acqua e non vedeva l’ora di sferrare il colpo di grazia.

“Ciao, Audrey,” disse Luke, senza nemmeno girarsi.

Becca si alzò e tese il bambino alla madre. Abbassò lo sguardo sul marito. Era furiosa. Tutto il suo corpo tremava per la forza dei singhiozzi.

“E se muori?” chiese. “Adesso abbiamo un figlio.”

“Questo lo so e non morirò. Come sempre, farò molta attenzione. Anche di più, perché ora abbiamo Gunner.”

La donna si fermò accanto alla madre, con le mani chiuse a pugno. Sembrava una bambina sul punto di iniziare a strillare nel bel mezzo del supermercato. Per contro Audrey era calma e soddisfatta. Sul suo volto aleggiava un sorriso affettato. Stava cullando il bambino tra le braccia sottili da uccello e gli tubava a voce bassa.

“Andrà tutto bene,” insistette Luke. “Andrà tutto bene. So che sarà così.”

Senza un’altra parola Becca si allontanò, diretta verso casa. Un istante più tardi la porta sbatté fragorosamente.

Luke e Audrey si fissarono a vicenda. La suocera aveva lo sguardo feroce e intento di un falco. Aprì la bocca.

Lui la fermò con un gesto della mano e uno scossone del capo. “Ti prego, non dire niente.”

Audrey lo ignorò. “Un giorno tornerai qui e non avrai più una moglie,” dichiarò. “E neanche una casa in cui vivere.”

CAPITOLO SEI

8:35 p.m. Ora legale orientale

I cieli sopra all’oceano Atlantico

“Rock and roll,” esclamò Mark Swann.

“Hip-hop, figliolo,” lo corresse Ed Newsam. “Hip-hop.”

Tese una grande mano dall’altra parte della stretta corsia del piccolo jet mentre Swann gli faceva un lento applauso. Poi l’altro si allungò e i due si scambiarono una serie di pugni, manate e segni, come in una specie di stretta di mano segreta.

Dopo l’ultima missione, Newsam e Swann erano diventati inaspettatamente amici.

Luke li guardò. Ed era sprofondato nel suo sedile. Era un uomo enorme e dallo sguardo di ghiaccio, vestito ordinatamente con un paio di pantaloni beige militari e un’aderente maglietta del Gruppo d’Intervento Speciale. Le sue specialità erano le armi e la strategia. Portava barba e capelli tagliati corti e con i bordi rifiniti alla perfezione. Il suo aspetto metteva in chiaro il genere d’uomo che era, e cioè uno con cui non si scherzava.

Invece Swann sembrava tutto fuorché un agente federale. Portava occhiali dalla grossa montatura nera e i suoi capelli lunghi erano raccolti in una coda. Indossava una maglietta su cui campeggiava la scritta BLACK FLAG, con la foto di un uomo che si stava gettando da un palco sopra una folla brulicante. Aveva steso le lunghe gambe coperte da jeans strappati nella corsia centrale e le sue scarpe da ginnastica All Star giallo acceso erano un ostacolo per chiunque dovesse passare. I suoi piedi erano giganteschi.

All’inizio i due avevano legato perché erano entrambi fan del gruppo degli anni ’80 Public Enemy, e perché avevano lo stesso senso dell’umorismo sarcastico. Ora erano uniti da chissà cos’altro. Era perché erano entrambi giovani uomini energici? Perché si sentivano inarrestabili?

Si stavano divertendo, caricandosi per gettarsi in un altro viaggio in mezzo al nulla. Era una cosa positiva. Era importante che fossero concentrati e attenti.

Luke invece non si sentiva affatto entusiasta quanto loro. Era esausto, più emotivamente che fisicamente. Ovvio, lì era l’unico con un bambino appena nato, una moglie arrabbiata e un’infida suocera. Era anche il solo ad aver fatto un viaggio di andata e ritorno di tre ore verso la costa est.

Nel frattempo Newsam e Swann erano andati a mangiare al Red Lobster. Pareva che avessero anche bevuto qualche drink insieme alla loro cena a base di crostacei.

“Siete pronti a mettervi a lavoro?” chiese loro.

Ed scrollò le spalle. “Sono nato pronto.”

“Rock and roll,” ripeté Swann.

Il jet Lear a sei posti stava sfrecciando verso nord-est attraverso i cieli. Era un velivolo blu scuro senza contrassegni di nessun genere. Erano partiti venti minuti prima da un piccolo aeroporto privato a ovest della città. Avrebbero potuto scambiarli per una piccola agenzia impegnata in un viaggio d’affari con il suo jet privato, o per un mucchio di ragazzetti ricchi che voleva spassarsela in Europa.

Dietro di loro, sulla sinistra, si intravedevano gli ultimi raggi del tramonto. Davanti e sulla destra c’era solo buio.

In momenti come quello Luke si sentiva sempre come se stesse precipitando in un’avventura al di là della sua comprensione. Le missioni non gli davano problemi. Era nervoso, ma non aveva paura. Ormai aveva visto talmente tanti combattimenti che poche cose scuotevano la sua sicurezza. Quello che non capiva era il contesto.

Perché? Perché lo stavano facendo? Perché i pezzi grossi facevano quel che facevano? Perché esistevano terroristi e gruppi terroristici? Perché la Russia e l’America, insieme a chissà quanti altri paesi, erano in continua lotta dietro le quinte, tirando fili e manipolando le azioni dei popoli come burattinai?

Quando era stato più giovane quelle domande non lo avevano turbato. La comprensione della geopolitica non faceva parte del suo lavoro. Da un lato c’erano i buoni e dall’altro c’erano i cattivi.

Aveva citato deliberatamente in maniera sbagliata la frase della poesia ‘La carica della brigata leggera’, ‘Loro non fecero domande, loro non si chiesero perché, loro non fecero altro che farlo e morire’. Invece di ‘loro’, diceva ‘noi’. Per anni l’aveva usata come una specie di motto personale.

Ma adesso voleva saperne di più. Non gli bastava più vivere e morire per ragioni mai spiegate. Forse era stato il suicidio di Martinez a fargli cambiare definitivamente idea.

Per il momento la fonte della maggior parte delle sue conoscenze era una donna quasi dieci anni più giovane di lui. Lanciò uno sguardo a Trudy Wellington, l’agente scientifico e analista della squadra, seduta una fila dietro di loro.

Era vestita casualmente in un paio di jeans, una maglietta blu e calzini rosa. Sulla maglia c’erano due parole stampate in piccole lettere bianche: SII GENTILE. Si era sfilata le scarpe da ginnastica non appena erano saliti in aereo e si era accoccolata nel sedile con una cartelletta, un grosso fascicolo e diversi documenti. Stava studiando le carte e appuntandosi chissà che a penna. Quasi non aveva detto una parola da quando il jet era partito.

Avvertendo gli occhi di Luke su di sé, alzò la testa per guardarlo da dietro i suoi occhiali rotondi dalla montatura rossa. Era bellissima.

Trudy… che cosa le passava per la testa?

“Sì?” disse lei.

Luke sorrise. “Pensavo che potresti spiegarci che cosa ci facciamo qui. Non ci hanno detto praticamente niente al briefing, dato che erano quasi tutte informazioni riservate. Quando Don ha accettato la missione, ci ha avvisati che tu avresti saputo com’era la situazione una volta che fossimo stati in volo.”

Ed e Swann si erano girato a guardarli.

“E ormai siamo ufficialmente in volo,” calcò Swann.

Luke guardò di nuovo fuori dal finestrino. Il sole era alle loro spalle e la giornata era finita. Da lì a qualche ora, man mano che avanzavano verso est, il cielo avrebbe iniziato a schiarirsi. Controllò l’orologio. Erano quasi le nove di sera.

“Che ne dici, Trudy? Sei pronta a farci una lezioncina?”

La ragazza fece un bizzarro saluto militare con la mano destra. Era terribile. Luke si rifiutò di guardare verso Ed per paura di scoppiare a ridere.

“Pronta, capitano.”

Si alzò per accomodarsi un sedile più avanti, avvicinandosi a loro.

“Fingerò che nessuno di voi sappia niente di questa missione, delle persone coinvolte, dell’attuale stato dei nostri rapporti con la Russia né dell’obiettivo che ci hanno dato,” esordì. “Potrebbe rendere la conversazione un po’ più lunga del necessario, oppure no, ma almeno sarò certa che saremo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Va bene?”

Luke annuì. “Bene.”

“Anche per me,” confermò Ed.

“Tanto è un lungo volo,” commentò Swann.

Trudy annuì. “Allora cominciamo.”

Fece una pausa per prendere fiato e guardò la pagina che aveva in grembo. Poi cominciò a raccontar loro una storia.

* * *

“All’inizio di questa giornata per noi, ieri per il loro fuso orario, i russi si sono impadroniti del sommergibile americano per la ricerca Nereus nelle acque internazionali del Mar Nero. Il confronto è avvenuto a centotrenta chilometri a sud-est della città di Yalta. Sì, dove si è tenuto il famoso incontro tra FDR, Winston Churchill e Joseph Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale.”

Ed Newsam sorrise. “Stiamo sguazzando nella storia qui.”

“FDR?” ripeté Swann. “Il tizio che è stato assassinato a, uhm… Denver?”

Trudy fece un smorfia. Sembrò quasi arrossire. Luke scosse la testa e trattenne una risata. Un pubblico difficile per una lezione di storia.

“Il Nereus è stato un bersaglio facile. Un cacciatorpediniere russo lo ha seguito sin da quando ha abbandonato la nave madre. Poi insieme a due navi più piccole della Guardia Costiera Russa è converso sul sommergibile. Una volta che l’hanno circondato hanno mandato tre batiscafi, che gli si sono avvicinati e lo hanno scortato fino alla superficie. Lì hanno preso l’equipaggio in custodia.”

“Chi sono gli uomini dell’equipaggio?” domandò Luke.

Trudy cercò tra i documenti ed estrasse un foglio.

“Si tratta di tre uomini. Il pilota del sommergibile è Peter Bolger, di quarantaquattro anni, residente a Falmouth, nel Massachusetts. Si è diplomato alla Maine Maritime Academy nel 1983. Quattro anni nella Guardia Costiera, congedato con onore nel 1987 con il rango di tenente. Ha passato quasi un decennio a pilotare navi per il Wood’s Hole Oceanographic Institution di Cape Cod, collaborando con diversi college, università e acquari. Nel novembre del 1996 è stato assunto dalla Poseidon Research International. A un occhio inesperto, sembrerebbe un civile che ha passato quasi tutta la sua vita da adulto sull’acqua, a svolgere delle ricerche. La sua presenza probabilmente serve a dare una patina di rispettabilità alla PRI.”

“Sarà l’anello debole quando si tratterà di tirarli fuori,” commentò Luke.

Trudy annuì. “Secondo il suo dossier, è alto un metro e settantacinque e pesa un po’ più di cento chili.”

“Come fa a stare nel sommergibile?” domandò Swann.

Ed scrollò le spalle. “Potrebbero essere tutti muscoli.”

Fu il turno di Trudy di scuotere la testa. “Non è così.” Sollevò una foto di Peter Bolger. Non era morbosamente obeso, ma non aveva neanche un fisico da corridore.

“Prossimo,” disse Luke.

Trudy prese il foglio seguente.

“Eric Davis, ventiseienne dottorando all’Università delle Hawaii, con una borsa di studio per Wood’s Hole. Come se le inventano queste cose? In realtà è un SEAL di ventotto anni di nome Thomas Franks. ROTC navale all’Università del Michigan, laureato con lode. Dopo la laurea è entrato in Marina e ha subito fatta domanda per la BUD/S. È stato in missione in Afghanistan e in Iraq, e anche in operazioni segrete sotto il Joint Special Operations Command. In questo caso il suo compito era di proteggere gli altri due uomini, e di liberarsi del Nereus nell’eventualità di un incidente o altro. È chiaro che non ha fatto nessuna delle due cose.”

“Chiaro,” disse Swann.

“Sarà il più utile,” intervenne Luke. “Se raggiungiamo gli uomini e sono ancora vivi, cerchiamo di mettergli un’arma o diverse armi nelle mani. Il maggior rischio con Franks è che potrebbe cercare di organizzare un tentativo di fuga prima del nostro arrivo, o rubare una pistola e cercare di uscirne sparando. Okay, prossimo.”

Trudy prese l’ultimo foglio di carta. “Reed Smith, il comandante della missione di trentasei anni,” disse. “Un fantasma. Una completa mina vagante. La sua vera identità e l’età sono Top Secret. Non so niente su di lui, a parte il fatto che negli ultimi sei mesi ha lavorato come ricercatore associato alla PRI. Nessuno ha idea di dove venga e che cosa abbia combinato. È l’uomo per cui sono più preoccupati alla CIA e al Pentagono. A quanto pare nella sua testolina ci sono molti segreti.”

 

Swann guardò Luke. “Operazioni clandestine. Sono sorpreso che lui e Franks non abbiano già rovesciato il governo russo.”

Lui sorrise. “Amo il tuo senso dell’umorismo, Swann. È per questo che ti lascio vivere.”

Poi guardò Trudy. “Vorrei un po’ di contesto, se ce l’hai. Dove hanno portato il Nereus, e quanto sono pronti i russi quando… se… arriveremo.”

La donna annuì. “Ho qualcosa. Il Nereus è stato chiuso nella stiva di una vecchia nave cargo ed è stato portato al Porto d’Adler, appena a sud della città di Sochi, e a nord del confine russo con la Georgia. Stanno cercando di nasconderlo e di fingere di non averlo. Si comportano come se il cargo avesse fatto una normale sosta nel porto. E almeno fino al momento della nostra partenza da Washington, non c’erano prove che avessero spostato l’equipaggio del Nereus in un altro posto. Praticamente non si è mosso nessuno su quei pontili.”

“Sanno che li stiamo guardando,” disse Swann.

“Sembra che sia così,” rispose Trudy.

“E i russi?” domandò Luke. “Quanto sono pronti?”

Trudy strinse le labbra. “Posso dirti la mia teoria.”

“Dimmi,” disse lui.

“È un po’ complicata.”

Luke agitò una mano. “Ancora non è l’ora della nanna.”

Trudy annuì. “Vladimir Putin sta cercando di tenere a bada diversi problemi alla volta. Il disastro del Kursk, il massacro della scuola Beslan. Chi sa quando si calmeranno le acque? Ma nel frattempo sta anche facendo progressi su diversi fronti. Ha una salda presa sul governo. L’economia russa, anche se per i nostri standard è ancora un disastro, gode della massima prosperità degli ultimi quindici anni, principalmente per via degli alti prezzi del petrolio e del gas naturale in tutto il mondo. La valutazione delle minacce del Pentagono suggerisce che il loro esercito sia meglio finanziato, meglio addestrato e che i soldati siano pagati di più di quanto non succeda da molto tempo. Hanno modernizzato il sistema degli armamenti, e in particolare i sistemi missilistici.

“La Russia ha ancora una lunga strada da fare per tornare al posto che un tempo occupava nel mondo. Non è neanche sicuro che ci riesca. Ma non ci sono dubbi che da quando Putin ha preso il controllo, almeno si è messa sulla strada giusta. In passato era più come una macchina rovesciata in un fosso.”

“Che cosa significa per noi?” chiese Luke.

“Significa che hanno preso il sommergibile per avvertirci,” disse Trudy. “Il Mar Nero è stato dei russi per generazioni. A eccezione della costa turca, è stato praticamente la loro vasca da bagno. Per anni non siamo riusciti a metterci dentro neanche una nave. Ora ci stanno dicendo che sono tornati e che non possiamo più mandargli mezzi spia come ci pare e piace.”

“Sì, ma è davvero così?” le domandò lui. “Sono tornati? Se entriamo lì e cerchiamo di salvare quegli uomini, finiamo in una trappola letale?”

La giovane donna scosse la testa, offrendogli un pallido sorriso. “No. Non sono tornati. Non ancora. Hanno tuttora il morale molto basso. Il loro centri di comando hanno poca autorità. La corruzione è ovunque. Moltissime infrastrutture ed equipaggiamento sono degradati o non funzionali. Con un piano intelligente e un attacco rapido, credo che potremo prenderli alla sprovvista. Non voglio sembrare troppo sicura, ma secondo me potremmo riuscire a salvare quegli uomini.”

Lui la fissò. Ripensò al suo piano per arrestare il mercenario rinnegato americano Edwin Lee Parr e i suoi miliziani in Iraq, e la sua valutazione ottimistica delle loro probabilità di vittoria. All’epoca Luke aveva provato ben poco rispetto per lei, per il suo piano e la sua valutazione.

Poi tutto si era svolto quasi come Trudy l’aveva descritto. Luke ed Ed avevano comunque dovuto andare di persona a sbrigare il lavoro, ma quello era scontato.

“Speriamo che tu abbia ragione.”

* * *

Luke era caduto in un sonno agitato. Fece sogni strani, spaventosi e mutevoli. Un salto nel vuoto notturno. Quando si buttò, il paracadute non si aprì. Sotto di lui c’erano le vaste acque di un fiume nero. Alligatori, a decine, lo guardarono cadere dal cielo. Si gettarono verso di lui. Ma aveva le gambe legate a una corda per bungee jumping. Rimbalzò, un salto al rallentatore, appena sopra l’acqua. Rimase con le braccia tese verso il basso e gli alligatori cercarono di morderlo.

Poi divenne giorno. Un elicottero Black Hawk era stato abbattuto e stava precipitando giù dal cielo. Il rotore sulla coda era sparito, il mezzo roteava fuori controllo e stava crollando verso terra. Luke stava correndo in mezzo a un campo, un vecchio stadio da calcio, in direzione dell’elicottero. Se fosse riuscito a raggiungerlo prima che arrivasse al suolo, avrebbe potuto prenderlo e salvare gli uomini a bordo. Ma l’erba cresceva tutto intorno a lui, si alzava e si arrotolava, afferrandogli le gambe, rallentandolo. Spalancò le braccia, sporgendosi… ma arrivò tardi. Era troppo tardi.

Dio, l’elicottero stava atterrando su un fianco. Ecco… che… arriva…

Si svegliò di colpo nel bel mezzo di una turbolenza. L’aereo sobbalzò, e seguì le correnti d’aria come se fosse sulle montagne russe. Luke si guardò intorno. Le luci erano spente. Per un momento non capì se era sveglio o se stava ancora dormendo. Poi notò il resto della sua squadra, stesi e addormentati in vari punti della cabina buia.

Guardò fuori dal finestrino, ma non vide nulla oltre alle luci lampeggianti sull’ala. Molto più in basso, l’oceano era vasto, infinito e nero. Si erano lasciati il sole alle spalle da parecchio, il giorno era ormai finito.

Volavano da ore, e il viaggio era ancora lungo.

Tra diverse ore, mano a mano che si fossero avvicinati a est, il cielo avrebbe iniziato a rischiararsi. Controllò l’orologio. A DC era appena passata la mezzanotte, che significava che a Sochi erano passate da poco le otto del mattino.

Fissare l’orologio gli diede il senso degli eventi che precipitavano. I russi potevano spostare quegli uomini quando volevano. Magari lo avevano già fatto quella notte.

Era frustrante essere intrappolato su quell’aereo mentre le lancette correvano.

Non aveva dormito molto, ma sapeva che non si sarebbe riaddormentato. Aveva molti pensieri per la testa. I fantasmi del suo passato. Becca e Gunner. Il futuro incerto di un bambino nato in un mondo terribile. Quella missione pericolosa.

Si alzò, andò nel piccolo cucinotto in fondo all’aereo. Superò Ed Newsam e Mark Swann, che stavano sonnecchiando sui lati opposti del corridoi, uno di fianco all’altro. Senza accendere la luce, riempì metà tazza di acqua calda e la mescolò con la polvere di caffè istantaneo. Lo preparò nero con solo un po’ di zucchero. La assaggiò. Eh. Non era cattivo. Prese una mela Danish avvolta nella plastica e tornò al suo posto.

Accese il faretto sopra la sua testa.

Guardò dall’altra parte del corridoio. Trudy dormiva, raggomitolata su se stessa. Era giovane per quel lavoro. Doveva essere bello sapere tante cose a quell’età. Ripensò a come era stato quando aveva avuto vent’anni. Era stato una specie di supereroe dozzinale, che reagiva correndo a testa bassa attraverso i muri. Non era stato un tipo molto riflessivo.

Scosse il capo e abbassò lo sguardo sui documenti che aveva in grembo. La ragazza gli aveva consegnato molti dati utili. C’erano immagini satellitari del cargo, inclusi i primi piani delle passerelle in cima e delle stanze dove si riteneva stessero tenendo gli uomini. Anche della stiva dove probabilmente si trovava il sommergibile.

Doveva ammettere che non lo considerava una sua priorità, ma sapeva che gli altri non concordavano. Volevano che il mezzo venisse distrutto. Okay. Se fosse stato possibile e non avesse messo in pericolo gli uomini, okay. L’avrebbe fatto.