Assassino Zero

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CAPITOLO CINQUE

Zero si svegliò con la luce del sole che filtrava dalle persiane e gli scaldava il viso. Si mise a sedere e allungò le braccia per stiracchiarsi. Ma c'era qualcosa che non andava; quella camera da letto era più grande di quanto avrebbe dovuto essere, ma familiare. Non c'era una sola scrivania di fronte a lui, ma due, di cui una più bassa e sormontata da uno specchio.

Non si trovava nel suo appartamento a Bethesda. Si trovava nella sua camera da letto a New York, la loro camera da letto, nella casa in cui vivevano insieme. Prima… prima che accadesse tutto.

E quando girò lentamente la testa vide, sbalordito, che lei era lì. Sdraiata accanto a lui, con la trapunta tirata fino a metà busto, che dormiva pacificamente in una canottiera bianca, come faceva spesso. I suoi capelli biondi erano perfettamente disposti sul cuscino; c'era un leggero sorriso sulle sue labbra. Sembrava un angelo. Spensierata. Tranquilla.

Lui sorrise e si adagiò di nuovo sul cuscino mentre la guardava dormire. Osservando le sue guance perfette e la leggera fossetta sul mento che Sara aveva ereditato. Sua moglie, la madre dei suoi figli, il più grande amore della sua vita.

Sapeva che non era vero, ma desiderava che lo fosse, che quel momento potesse continuare all'infinito. Le toccò delicatamente la spalla, facendo scorrere le punte delle dita lungo la sua pelle liscia, fino al gomito…

Poi si accigliò.

La sua pelle era fredda. Non respirava.

Non stava dormendo. Era morta.

Uccisa da una dose letale di tetrodotossina, somministrata da un uomo che Zero aveva chiamato amico, un uomo a cui Zero aveva risparmiato la vita. Una decisione di cui si pentiva ogni giorno.

“Svegliati”, mormorò. “Per favore. Alzati”.

Non lo fece. Non si sarebbe svegliata mai più.

“Per favore, svegliati”. Ripeté, con voce rotta.

Se era morta, era colpa sua.

“Svegliati”.

È stata colpa sua se era stata assassinata.

“Sveglia!”

Zero fece un respiro mentre si metteva seduto sul letto. Era un sogno; era nella sua camera da letto a Bethesda, dalle pareti bianche e spoglie, con una sola scrivania. Non sapeva se avesse realmente urlato, ma aveva la gola secca e un forte mal di testa.

Gemette e guardò l'ora sul telefono mentre tornava alla realtà. Il sole era alto; era il giorno del Ringraziamento. Doveva alzarsi dal letto. Doveva mettere il tacchino nel forno. Non poteva soffermarsi su un incubo, perché ciò avrebbe significato soffermarsi sul passato e soffermarsi su…

Su…

“Oh mio Dio”, mormorò sottovoce. Le sue mani tremarono e gli si strinse lo stomaco.

Il suo nome. Non riusciva a ricordarlo.

Per un lungo momento rimase seduto in quel modo fissando il copriletto come se la risposta fosse scritta lì. Ma non era lì, e non sembrava nemmeno essere nella sua testa. Non riusciva a ricordare il suo nome.

Zero si strappò le coperte di dosso e praticamente si lasciò cadere dal letto. Allungò una mano sotto il letto, e tirò fuori una cassetta di sicurezza ignifuga grande quanto una valigetta.

“La chiave”, disse ad alta voce. “Dov'è la chiave, maledizione?” Si rialzò di nuovo in piedi e spalancò il cassetto più alto del comò, quasi estraendolo dalle guide. Afferrò la piccola chiave d'argento che giaceva lì, tra i calzini e le cinture arrotolate, e si lasciò cadere di nuovo a terra mentre apriva la cassetta di sicurezza.

All'interno c'erano vari documenti e oggetti importanti, tra cui il passaporto per lui e per le ragazze, il suo certificato di nascita e la tessera di previdenza sociale, due pistole, un migliaio di dollari in contanti e il suo anello nuziale. Tirò fuori tutto e fece una piccola pila sul pavimento, perché nessuno di questi oggetti era quello che stava cercando. Si fermò brevemente su una foto, una foto di loro quattro a San Francisco un'estate, quando Maya aveva cinque anni e Sara tre. Ricordava perfettamente la donna nella foto; nella sua testa risuonava la sua risata allegra, sentiva il suo respiro sull'orecchio, il tocco caldo della sua mano nella sua.

“Qual è il suo nome, maledizione?!” La sua voce tremò mentre gettava da parte la foto e continuava a scavare. Doveva essere lì. Molte delle sue cose erano ancora nel seminterrato di Maria, ma era certo di averlo messo nella cassetta di sicurezza…

“Grazie a Dio!” Riconobbe la busta e la aprì rapidamente. All'interno c'era un solo foglio, stampato su cartoncino spesso con il timbro di una corte di New York. Il loro certificato di matrimonio.

La sua gola si asciugò mentre fissava il nome. “Katherine”, si disse. “Si chiamava Katherine”. Ma non si sentì sollevato; quello che provò fu soltanto terrore. Il nome non gli suonava familiare, non riportava in lui alcun ricordo. Era come una parola nuova sulla sua bocca. “Katherine”, disse di nuovo. Katherine Lawson”.

Non gli suonava bene, anche se quel nome era stampato proprio lì davanti ai suoi occhi in nero su bianco. Si chiamava Katherine? Lui la chiamava Katherine? O forse era…

Kate.

Zero fece un enorme sospiro di sollievo. Kate. La chiamava Kate. I ricordi ritornarono tutti insieme all'improvviso come un rubinetto che si apriva. Ora finalmente provava sollievo, seppur accompagnato dalla consapevolezza che per quei pochi minuti strazianti, aveva completamente dimenticato il nome di sua moglie e non era qualcosa che potesse giustificare come un lapsus momentaneo.

Zero afferrò il suo cellulare e cercò tra i suoi contatti. Aveva bisogno di risposte. L'orario in Svizzera era indietro di sei ore rispetto a lì. Probabilmente era il primo pomeriggio, forse il loro ufficio era già aperto.

“Rispondi”, supplicò Zero. “Rispondi, rispondi…”

“Pronto, qui è l'ufficio del dottor Guyer”. La voce femminile che rispose alla chiamata era sommessa, tinta di un accento svizzero-tedesco. L'avrebbe trovata sensuale se non fosse stato preso dal panico.

“Alina?” chiese rapidamente. “Devo parlare con il dottor Guyer, è molto importante…”

“Mi scusi”, disse, “posso chiedere chi parla?”

Giusto. “Sono Reid. Voglio dire, Kent. Kent Steele. Zero”.

“Ah, Agente Steele”, disse lei allegramente. “Che bello sentirla”.

“Alina, è urgente”.

“Certo”. Immediatamente tornò seria. “Lo chiamo, attenda un momento”.

Il dottor Guyer era un geniale neurologo svizzero, probabilmente tra i migliori al mondo, ed era anche l'uomo che aveva installato il soppressore della memoria delle dimensioni di un chicco di riso nella testa di Zero quattro anni prima, che aveva cancellato dalla sua memoria qualsiasi ricordo della CIA. Ma Guyer aveva agito su richiesta di Zero, e in seguito fu anche il medico che eseguì la procedura che gli aveva riportato tutti quei ricordi, molto tempo dopo.

Entrambi erano stati in contatto costantemente durante l'ultimo anno; il dottore era stato felice di apprendere che i ricordi di Zero erano tornati e si era mostrato desideroso di eseguire ulteriori test, ma ciò avrebbe richiesto un viaggio in Svizzera, che Zero non aveva avuto il tempo o l'energia per fare, sebbene ammettesse che glielo doveva. Tuttavia, se qualcuno avesse potuto dirgli cosa stesse succedendo nella sua mente, quello era Guyer.

“Agente Steele” disse una voce profonda attraverso il telefono, accentuata e abbastanza cupa da suggerire che avrebbero saltato i convenevoli. “Alina ha detto che sembravi angosciato. Qual è il problema?”

“Dottor Guyer”, disse Zero. “Ho bisogno di aiuto. Non sono sicuro di cosa stia succedendo, ma…” Si fermò quando un altro orribile pensiero lo colpì. E se quella non fosse una chiamata privata? E se qualcuno stesse ascoltando? La CIA aveva già tracciato le sue telefonate in precedenza. E se avessero sentito tutto ciò…

Stai diventando paranoico. Non fare sempre gli stessi errori.

Nonostante ciò, una volta che quel pensiero si trovò nella sua mente, non riuscì più ad allontanarlo. Dopotutto, era sempre meglio essere cauti. Era appena tornato alla CIA, ed era felice. Come se la sua vita avesse di nuovo uno scopo. Se avessero saputo di tutto ciò, le cose sarebbero cambiate molto rapidamente per lui e non voleva tornare alla fase depressiva che aveva vissuto per più di un anno.

“Agente Steele? Ci sei ancora?”

“Sì. Scusi”. Zero fece del suo meglio per mantenere la sua voce calma e uniforme mentre diceva: “Solo che… ho qualche problema a ricordare alcune cose”.

“Hmm”, disse Guyer pensieroso. “A breve o lungo termine?”

“Direi più a lungo termine”.

“E credi che questo possa essere… preoccupante?” Guyer stava scegliendo con cura le parole. Zero si chiese se il dottore stesse pensando la stessa cosa, che la loro chiamata potesse essere monitorata. Un dottore come Guyer avrebbe potuto trovarsi nei guai per ciò che aveva fatto, sicuramente avrebbe perso la sua licenza medica, o forse sarebbe stato addirittura arrestato e sarebbe finito in prigione.

“Direi che penso che dovrei programmare quel viaggio per vederla prima o poi”, gli disse Zero.

“Capisco”. Guyer rimase in silenzio, e quella pausa confermò a Zero il fatto che il dottore stesse attento come lui. “Beh, sei fortunato. Non dovrai venire da me; ho una conferenza la prossima settimana al Johns Hopkins a Baltimora. Posso vederti in quei giorni. Sono sicuro che uno dei miei colleghi mi permetterà di utilizzare una sua sala”.

“Perfetto”. Zero si sentì immediatamente sollevato. Era certo che il dottore sapesse cosa fare, o almeno fosse in grado di spiegare cosa gli stesse succedendo in testa. “Mi mandi i dettagli, ci vediamo lì”.

“Va bene. A presto, agente Steele”. Guyer riattaccò e Zero si sedette frustrato sul bordo del letto. Le sue mani tremavano ancora e il pavimento della sua camera da letto era pieno di ricordi.

Forse è stato solo un lapsus del momento, si disse. Forse quel sogno mi ha scosso ed è stata solo una breve dimenticanza. Forse sono andato nel panico per niente.

 

Ovviamente non credeva a nessuna delle bugie che si stava ripetendo.

Ma qualsiasi cosa stesse accadendo nella sua testa, la vita doveva continuare. Si costrinse ad alzarsi, a indossare un paio di jeans e una camicia. Rimise tutti gli oggetti nella cassetta di sicurezza, la chiuse a chiave e la spinse sotto il letto.

In bagno si lavò i denti e si spruzzò un po' d'acqua fredda sul viso prima di dirigersi verso la cucina, giusto in tempo per vedere Maya che chiudeva lo sportello del forno e impostava il timer digitale.

Zero la guardò stupito. “Che stai facendo?”

Lei si strinse nelle spalle e si scostò la frangia dalla fronte. “Ho messo il tacchino nel forno”.

Lui sbatté le palpebre. “Stai cucinando il tacchino? Ti insegnano anche questo a West Point?”

Maya sorrise. “No”. Poi sollevò il telefono. “Ma Google sì”.

“Beh, ottimo. Allora mi farò un caffè”. Fu di nuovo piacevolmente sorpreso di scoprire che aveva già preparato anche quello. Maya era sempre stata tanto indipendente quanto intelligente, ma gli sembrava quasi che stesse cercando di aiutarlo. Non poté fare a meno di chiedersi se si sentisse impotente in merito alla situazione di Sara tanto quanto lui; forse quello era un modo di dimostrargli il suo supporto.

Così decise di non intervenire e di lasciarle fare quello che voleva. Si sedette al bancone e mescolò il caffè, cercando di allontanare dalla mente l'episodio spiacevole del suo risveglio. Pochi minuti dopo Sara si avventurò in cucina, ancora in pigiama, con gli occhi parzialmente aperti e i capelli arruffati.

“Buongiorno”, disse Maya allegramente.

“Buona festa del Ringraziamento”, intervenne Zero.

“Mm”, borbottò Sara mentre si trascinava verso il caffè.

“Sei rimasta una persona non molto mattiniera, eh, topolina?” Maya la stuzzicò leggermente.

Sara bofonchiò qualcos'altro, ma lasciò trapelare il cenno di un sorriso sulle sue labbra al suono del suo soprannome d'infanzia. Sentì un calore dentro, e non era solo il caffè; era una sensazione che gli mancava da tempo, la sensazione di essere veramente a casa.

E poi squillò il telefono.

Maria lo stava chiamando; immediatamente fece una smorfia. Si era dimenticato di scriverle l'ora e l'indirizzo. Quindi fu preso nuovamente dal panico; non era da lui dimenticare qualcosa del genere. Era un altro sintomo dei suoi problemi di memoria? E se non l'avesse soltanto dimenticato, ma se fosse stato eliminato dai suoi pensieri, proprio come era successo con il nome di Kate?

Calmati, si disse. È solo un momento di distrazione, niente di più.

Fece un respiro e rispose al telefono. “Mi dispiace tanto”, disse immediatamente. “Avrei dovuto scriverti un messaggio, e mi è sfuggito di mente…”

“Non è per questo che chiamo, Kent”. Maria aveva un tono preoccupato. “E sono io a dovermi dispiacere. Ho bisogno che tu venga”.

Zero si fece cupo. Maya notò la sua espressione e si incupì a sua volta mentre Zero si alzava dallo sgabello e si allontanava dirigendosi in salotto. “Vuoi che io venga? Intendi dire a Langley?”

“Sì. Mi dispiace, so che il tempismo è pessimo, ma c'è un problema e ho bisogno di te in questo momento”.

“Io…”, Il suo primo istinto fu di rifiutare categoricamente. Non solo era un giorno di festa, stava ancora affrontando la guarigione di Sara, ma Maya era tornata per la prima volta dopo molto tempo. Considerando anche la perdita di memoria, Maria aveva ragione: il tempismo non poteva essere dei peggiori.

Quasi sbottò, “Devo proprio?” ma si trattenne per non sembrare petulante.

“Nemmeno io sono felice”, disse Maria prima che lui potesse pensare a un modo di rifiutare. “E non voglio certo far pesare il mio ruolo”. Zero capì perfettamente; Maria gli stava ricordando che adesso era il suo capo. “Ma non ho scelta. Non è stata una mia idea. Il presidente Rutledge ha chiesto di te”.

“Ha chiesto di me?” Ripeté Zero debolmente.

“Beh, ha chiesto dell'uomo che ha scoperto il caso Kozlovsky, c'è andato piuttosto vicino…”

“Forse parlava di Alan…”, suggerì Zero speranzoso.

Maria ridacchiò, ma sembrò un sospiro più che una vera e propria risata. “Mi dispiace, Kent”, disse per la terza volta. “Proverò ad essere breve, ma…”

Ma questo significa che verrò mandato sul campo. Il sottinteso era chiarissimo. E peggio ancora, non poteva in alcun modo rifiutare. Era sotto il controllo della CIA per quello che aveva fatto, ora più che mai e non poteva certo dire di no al presidente, che era a tutti gli effetti il capo del suo capo.

“Va bene”, cedette. “Dammi trenta minuti”. Terminò la chiamata e gemette piano.

“Va tutto bene”. Si voltò rapidamente e trovò Maya in piedi dietro di lui. L’appartamento non era abbastanza grande da consentirgli di avere una chiamata privata, ed era certo che lei potesse aver capito la natura della conversazione anche sentendo solo le sue parole. “Vai, fai quello che devi fare”.

“Quello che devo fare”, disse lui, “è stare qui con te e Sara. È il giorno del Ringraziamento, maledizione…”

“Sembra che non tutti se ne ricordino”. Stava facendo la stessa cosa che lui stesso era solito fare; tentare di alleggerire la situazione con un po' di umorismo. “Non preoccuparti. Sara e io ci occuperemo della cena. Torna quando puoi”.

Lui annuì, grato per la sua comprensione; voleva aggiungere altro, ma alla fine mormorò solo “grazie” e tornò in camera da letto per cambiarsi. Non c'era altro da dire, perché Maya sapeva bene che probabilmente la sua giornata si sarebbe evoluta su un aereo piuttosto che a una cena del Ringraziamento insieme alle sue figlie.

CAPITOLO SEI

Chiunque pensi all'America centrale, probabilmente potrebbe pensare a un paesaggio molto simile a quello di Springfield, nel Kansas, una cittadina circondata da terreni agricoli in leggera pendenza, un luogo in cui le mucche erano più numerose dei cittadini, così piccola che era possibile percorrerla da parte a parte trattenendo in breve tempo. Alcuni la potrebbero definire idilliaca. Altri potrebbero trovarla affascinante.

Samara la trovava semplicemente disgustosa.

C'erano quarantuno città chiamate Springfield negli Stati Uniti, e questo la rendeva ancora più insignificante. I suoi abitanti erano meno di un migliaio; sulla strada principale erano collocati un ufficio postale, un bar e un ristorante, un negozio di alimentari, una farmacia e un piccolo supermercato.

Per questa ragione e per molte altre, era un luogo perfetto.

Samara raccolse i suoi capelli rosso vivo in una coda di cavallo, mostrando un piccolo tatuaggio sul collo, un carattere che significava “fuoco”, Pinyin in Huŏ, il cognome che aveva adottato dopo aver disertato.

Si appoggiò al furgone e si esaminò le unghie, in attesa. La musica suonata da giovani e adolescenti mentre marciavano al ritmo di un rullante arrivava fino a lì. Presto sarebbero arrivati.

Dietro di lei, nell'area di carico del furgone, c'erano quattro uomini e l'arma. L'attacco all'Avana era andato benissimo, era stato quasi facile. Con un po’di fortuna, i governi cubano e americano avrebbero creduto che fosse un banco di prova, ma la loro arma era già stata testata abbondantemente. Lo scopo dell'attacco all'Avana era molto più di questo; era creare il caos. Seminare confusione. Dare l'illusione di un avvertimento mentre gli uomini di potere si grattano il capo confusi.

Lì vicino, Mischa sedeva sul marciapiede dietro il furgoncino colorato e tirava pigramente le erbacce marroni che si erano fatte strada attraverso le fessure del marciapiede. La ragazza aveva dodici anni ed era spesso seria, diligentemente calma e deliziosamente letale. Indossava jeans e scarpe da ginnastica bianche e, ironia della sorte, una felpa azzurra con cappuccio con la scritta BROOKLYN serigrafata in lettere bianche sul davanti.

“Mischa”. La ragazza sollevò lo sguardo; i suoi occhi verdi erano opachi e inespressivi. Samara allungò un pugno e la ragazza aprì la mano. “È quasi ora”, le disse Samara in russo mentre lasciava cadere due oggetti sul palmo della mano: tappi per le orecchie elettronici, appositamente progettati per attutire una particolare frequenza.

Anche l'arma era insignificante, perfino brutta. La maggior parte delle persone difficilmente avrebbe creduto che un simile dispositivo fosse un'arma, e questo era un grande vantaggio. La frequenza veniva emessa da un ampio disco nero del diametro di un metro e uno spessore di diversi centimetri, che produceva onde sonore ultra-basse in un cono unidirezionale. Gli effetti più potenti si verificavano in un raggio di circa cento metri, ma gli effetti deleteri dell'arma si potevano sentire fino a trecento metri di distanza. Il disco era montato su una piattaforma girevole che non solo lo teneva in piedi come una parabola satellitare, ma gli permetteva di girare in qualsiasi direzione. La piattaforma era a sua volta saldata a un carrello d'acciaio con quattro spesse ruote, il quale conteneva anche il pacco batteria agli ioni di litio che alimentava l'arma. La sola batteria pesava trenta chili; tutto insieme, incluso il carrello dei dolly, l'arma ad ultrasuoni pesava quasi centocinquanta chili, motivo per cui tali armi venivano generalmente montate sulle navi o in cima a delle jeep.

Ma montare la loro arma su un veicolo l'avrebbe resa molto più difficile da trasportare e anche meno discreta, e per questo motivo erano necessari i quattro uomini nel furgone. Erano tutti mercenari altamente qualificati, ma per lei erano poco più che facchini. Se l'arma fosse stata più leggera, più manovrabile, Samara e Mischa avrebbero potuto gestire questa operazione da sole, ne era certa. Ma dovevano lavorare con quello che avevano, e data la sua potenza l'arma non avrebbe potuto essere più compatta.

Samara si era preoccupata della logistica, ma fino a quel momento non aveva incontrato alcun problema. Immediatamente dopo l'attacco dell'Avana, avevano caricato l'arma su una barca che li aveva portati a nord verso Key West. All'aeroporto si erano imbarcati rapidamente su un aereo cargo di medie dimensioni che li aveva portati a Kansas City. Tutto era stato organizzato diverse settimane prima. Ora non dovevano fare altro che attuare il piano.

Samara si aggirava con discrezione nell'angolo dell'isolato mentre la musica della banda diventava sempre più forte. Ormai poteva vederli dirigersi verso di lei. Il furgoncino era parcheggiato sul marciapiede fuori dalla drogheria, a qualche metro dal punto in cui i coni arancioni chiudevano la strada per la sfilata.

Samara aveva fatto tutte le ricerche. La scuola comunale di Springfield organizzava ogni anno una parata per il Giorno del Ringraziamento, guidata dalla loro banda, lungo un percorso tortuoso di due miglia che partiva da un parco locale, attraversava la città e si chiudeva ad anello. In prima fila nella parata c'era un giovane tamburino, con un cappello ridicolmente alto, che percuoteva il suo strumento con enfasi con un bastone. A seguirli c'era la squadra di football senza vittorie del piccolo college, e poi la squadra di cheerleader. Poi sarebbe arrivato il carro con il sindaco di Springfield e sua moglie seguiti dai loro i vigili del fuoco locali. A chiudere la parata c'erano i membri della facoltà e l'associazione atletica.

Era tutto così disgustosamente americano.

“Mischa”, ripeté Samara. La ragazza annuì seccamente e si infilò i tappi per le orecchie elettronici. Si alzò dal marciapiede e prese posizione vicino alla cabina del furgone, appoggiandosi alla portiera del guidatore per schermarsi parzialmente dalla frequenza.

Samara sganciò una radio dalla cintura. “Due minuti”, disse in russo. “Accendi”. Aveva insegnato lei stessa il russo alla sua squadra, pretendendo che parlassero solo quella lingua in pubblico.

Un vecchio con un maglione di pile si accigliò mentre le passava accanto; sentire qualcuno parlare russo a Springfield, nel Kansas, era strano quanto sentire uno Shar-Pei parlare cantonese. Samara si accigliò e si affrettò per la sua strada, fermandosi quando raggiunse l'angolo per assistere alla sfilata.

Sembrava che l'intera città si fosse radunata per l'evento: c'erano sedie da giardino allineate per diversi isolati, bambini che aspettavano con impazienza di raccogliere le caramelle che sarebbero state lanciate a piene mani.

Samara lanciò un'occhiata alla ragazza alle sue spalle. A volte si chiedeva se dentro di lei fosse rimasto qualche residuo dell'infanzia; se osservasse gli altri bambini desiderando ardentemente di essere al loro posto, o se le sembrassero degli estranei. Ma lo sguardo di Mischa era freddo e distante. Se c'era qualche dubbio dietro quegli occhi, era diventata esperta a nasconderlo.

 

La banda in marcia girò l'angolo portando con sé gli squilli di trombe e i rulli di tamburi, volgendo le spalle a Samara e al furgone. Seguivano, a piedi, dei ragazzi in maglietta: era la squadra di football del college che gettava caramelle tra la folla, risvegliando l'entusiasmo dei bambini che sfrecciavano in avanti e si accovacciavano per afferrarle come degli avvoltoi su una carcassa.

Qualcosa atterrò vicino ai piedi di Samara. Lei lo raccolse con cautela tra due dita. Era un Tootsie Roll. Non poté fare a meno di sorridere. Che tradizione incredibilmente bizzarra: i giovani del paese più ricco del mondo si accalcavano per accaparrarsi le caramelle più economiche, gettate pigramente sul marciapiede.

Samara si avvicinò a Mischa vicino alla cabina del furgone, volgendo le spalle alla parata e ai suoi avventori. Le porse la caramella. Un lampo di curiosità passò sul giovane viso di Mischa mentre la prendeva.

Spasiba”, mormorò la ragazza. Grazie. Ma invece di scartarla e mangiarla, la infilò nella tasca dei jeans. Samara l'aveva addestrata bene; avrebbe ricevuto una ricompensa quando se la sarebbe meritata.

Samara portò di nuovo la radio alle labbra. “Inizio tra trenta secondi”. Ma non aspettò una risposta; si mise i tappi per le orecchie, una voce acuta ma dolce le sussurrò qualcosa all’orecchio. I quattro uomini nel vano di carico del furgone avrebbero attaccato da lì. Non avrebbero dovuto nemmeno tirare fuori l'arma o aprire lo sportello posteriore del veicolo. La frequenza ultrasonica era in grado di viaggiare attraverso l'acciaio, attraverso il vetro, anche attraverso i mattoni senza venire attutita in modo considerevole.

Samara incrociò le braccia e si mise in piedi accanto a Mischa, facendo mentalmente un conto alla rovescia. Non sentiva più la banda né l'applauso della folla: ogni suono era sovrastato dal rumore lamentoso dei tappi per le orecchie. Era strano vedere così tante cose ma non sentire nulla, era come fissare un televisore muto. Per un momento pensò a quell'assurdo paradosso: se un albero cade in mezzo alla foresta e non c'è nessuno intorno a sentirlo, emette comunque un suono? La loro arma non emise alcun suono. La frequenza era troppo bassa per essere percepita dall'orecchio umano. Ma avrebbe comunque avuto i suoi effetti devastanti.

Samara non sentì la musica né il frastuono generale della folla, e non sentì nemmeno le prime urla. Ma pochi istanti dopo che il suo conto alla rovescia raggiunse lo zero, vide i corpi cadere sull'asfalto. Vide i cittadini di Springfield, nel Kansas, in preda al panico, correre, calpestarsi l'un l'altro come i tanti bambini che si arrampicavano per cercare caramelle. Alcuni si contorcevano; diversi vomitavano. Gli strumenti caddero sull'asfalto con fragore insieme ai secchi pieni di caramelle. A non più di venticinque metri da lei, un giocatore di football cadde sputando sangue.

C'era tanta bellezza in quel caos. L'intera esistenza di Samara si era basata sul regime, sul protocollo, sulla pratica, eppure lei era una delle poche a sapere quanto potesse essere inaffidabile tutto ciò non appena il caos prende il sopravvento. In quelle situazioni, contava solo l'istinto. È in quelle situazioni che si impara a conoscere sé stessi e si scopre ciò di cui si è capaci. Nel caos che si svolgeva in silenzio davanti ai suoi occhi, le famiglie calpestavano i propri cari. Mariti e mogli abbandonavano i loro partner per salvare sé stessi. Regnava la confusione più totale. La folla avrebbe finito per fare più danni di quanti non ne avrebbe fatti l'arma.

Ma non potevano indugiare. Fece un cenno a Mischa, che fece il giro della cabina e salì sul sedile del passeggero mentre Samara si metteva al volante e inseriva la chiave nel blocchetto di accensione. Ma non accese il motore. Sarebbero rimasti ancora un minuto, in modo tale che gli effetti dell'attacco fossero davvero devastanti; dopodiché avrebbero lasciato Springfield, facendo in modo che le autorità si domandassero quale fosse il significato dell'attacco in quell'insignificante cittadina nel Kansas.