Buch lesen: «Eros»
Giovanni Verga
Eros
I
Verso le quattro di una fra le ultime notti del carnevale, la marchesa Alberti, seduta dinanzi allo specchio, e alquanto pallida, stava guardandosi con occhi stanchi e distratti, mentre la cameriera le acconciava i capelli per la notte.
«Che rumore è cotesto?» domandò dopo un lungo silenzio.
«La carrozza del signor marchese.»
«Cosí presto!» mormorò essa soffocando uno sbadiglio.
La cameriera era per chiudere l’uscio del salottino che metteva nelle stanze del marchese, allorché entrò bruscamente un uomo in abito da maschera, col passo malfermo, e il riso scuro.
«Cecilia dorme?» domandò senza fermarsi.
«L’ho lasciata or ora, signor marchese» rispose la cameriera mal dissimulando la sorpresa.
«Domandatele se può accordarmi cinque minuti.»
Egli rimase immobile, col ciglio corrugato, e lo sguardo fiso dinanzi a sé. La cameriera ritornando sollevò la pesante portiera di velluto; il marchese fece alcuni passi verso l’uscio, volse gli occhi a caso su di un grande specchio che gli stava di faccia: sembrò esitare un istante, poscia alzò le spalle, aggrottò il sopracciglio, ed entrò col sigaro in bocca.
La marchesa leggeva, voltata verso il muro: udendo il passo di lui chiuse il libro, e domandò senza muovere il capo:
«Siete voi?»
«Sí.»
Ella alzò gli occhi verso l’orologio appeso alla parete.
«Son le quattro e mezzo,» rispose il marito a quella muta e significativa interrogazione, masticando il sigaro fra i denti.
«Datemi quella boccettina che è lí sul tavolino, vi prego.» Egli buttò il sigaro nel camino, e non si mosse.
Allora la marchesa si voltò verso di lui, con un brusco movimento che modellò le coperte sulla sua elegante figura di donna; si passò una mano piú bianca della batista che le cadeva lungo il braccio, sui folti capelli castani, e fissò in volto al marito i suoi grand’occhi scuri bene aperti
Egli era ritto, immobile, serio – troppo serio per gli abiti che indossava – e avea tuttora un leggiero strato di polvere sui capelli e sul viso: dovea essere giovane, invecchiato anzitempo, pallido, biondo, elegante, alquanto calvo.
«Dovete parlarmi?» domandò la marchesa dopo un breve silenzio.
«Sí.»
«Sedete adunque.»
Egli volse un’occhiata sulle seggiole ed il canapè, ingombri di vesti e di arnesi muliebri, e rispose secco: «Grazie».
«Vi chiedo scusa per la mia cameriera» disse la moglie arrossendo impercettibilmente.
Alberti inchinò appena il capo.
«Scusatemi piuttosto la mia visita importuna. Mi premeva di parlarvi… stasera.»
Cecilia gli lanciò uno sguardo rapido e penetrante, e domandò:
«Avete perduto?»
«Non ho giocato.»
«Vi battete…?»
«Sí.»
Ella impallidí.
«Tranquillizzatevi» soggiunse il marchese. «Non mi batto col conte Armandi.»
Ella si rizzò a sedere sul letto, rossa in viso, coi capelli sciolti, e il corsetto discinto: «Perché mi dite cotesto, ora?».
«Perché il mio amico Armandi è spadaccino famoso, e avreste potuto essere inquieta per me.»
La donna rimase a fissarlo con straordinaria fermezza.
«Perché vi battete?»
Il marito sorrise – sorriso grottesco su quel viso impassibile – e rispose tranquillamente:
«Per voi.»
La marchesa si passò il fazzoletto sulle labbra.
«Galli aveva lo scilinguagnolo un po’ sciolto, e pretendeva avervi vista al veglione, in dominò, nel palco del mio amico Armandi.»
«Eravate a cena?»
«Sí.»
«Ah, vi battete per un cattivo scherzo da dessert!» disse ella sorridendo amaramente.
Il marchese la guardò fiso. Poscia, coll’aria piú indifferente del mondo, prese un dominò ch’era sulla seggiola piú vicina lo buttò sul canapè, e sedette di faccia a lei. «Perdonatemi» soggiunse; «non potevo lasciar calunniare mia moglie.»
Ella s’inchinò, troppo profondamente ed ironicamente forse, e perciò tutto il sangue le corse al viso:
«Tutti sanno che Galli è geloso di voi perché gli avete rubato l’Adalgisa!»
«Lo sapete anche voi?» rispose il marchese accavallando l’una gamba sull’altra.
«Scusatemi, debolezze di donne!» diss’ella un po’ pallida, e cercando di sorridere.
«E di uomini, se volete» aggiunse il marito con galanteria.
Ci fu un istante di silenzio: ella giocherellava collo sparato del suo corsetto; egli dondolava la gamba posta a cavalcioni: evitavano di guardarsi.
«Ora, siccome vi confesso che mi preme di non rimetterci la pelle, e farò il possibile per evitarlo, domani sarò ben lontano di qua.»
Ella rialzò gli occhi su di lui, e ascoltava in silenzio.
«Desidero risparmiarvi tutti i piccoli disturbi della mia lontananza, e vorrei perciò regolare di comune accordo l’amministrazione della vostra dote…»
Cecilia non rispose.
«Vi lascerò procura affinché possiate riscuotere da per voi quella somma che crederete…»
«Starete via molto tempo?» interruppe bruscamente la marchesa.
«Non lo so io stesso… e se volete suggerirmi la cifra…»
«Fate voi.»
«Ma io… francamente… dividerei in parti eguali, come fra buoni amici.»
Ella, piú pallida del lenzuolo che la copriva, inchinò il capo.
Il marchese si alzò, accese un sigaro alla candela,– e al momento di andarsene aggiunse, colla medesima aria di noncuranza:
«Rimarrebbe ad intenderci sull’educazione di Alberto, nel caso che la mia assenza si prolungasse indefinitamente; ma il meglio, mi pare, è di uniformarci alla prescrizione della legge. Voi vi occuperete di lui sino a’ sette anni; dopo me ne incarico io.»
E volgeva diggià le spalle. «Come desiderate che sia educato vostro figlio sino ai sette anni?» domandò la marchesa con voce malferma
Il marito si fermò su due piedi, e parve riflettere un istante «Mah!.. come vorrete…» aggiunse poscia. «Se vi dessi alcun suggerimento vi farei torto. Ed ora perdonatemi il disturbo, e buona notte.»
Cecilia rimase immobile, muta, pallida, cogli occhi fissi; ma nel momento in cui egli stava per passare l’uscio, esclamò, con accento improvviso e soffocato, come se tutto il sangue le fosse corso impetuosamente al cuore: «Sentite!…». Egli si voltò. «Sentite!…» e le mancavano le parole. «Parlatemi francamente, in nome di Dio!…»
Egli vide le lagrime che luccicavano negli occhi della moglie senza batter ciglio. Istintivamente ella si arretrò, spaventata dallo sguardo freddo ed incisivo di quell’uomo che sembrava ricercare le angosce orribili di lei sin nelle pieghe piú riposte del suo cuore, per scrutarla con quel viso pallido e glaciale.
«Sembrami d’avervi detto abbastanza. Mi batto con Galli perché ha insultato la marchesa Alberti, e Armandi sarà il mio secondo. Parto per l’estero, vi lascio la metà della vostra rendita, il mio nome, ed il nostro Alberto sino ai sette anni. Ma il mio sigaro vi appesta la camera. Buona notte.»
Egli non si volse, ed ella non disse motto.
Passando dall’anticamera udí scampanellare nelle stanze della marchesa.
II
Il marchesino Alberti fu educato lontano da’ suoi, alla spartana, nel collegio Cicognini. Il padre era morto fuori d’Italia, quasi senza averlo conosciuto. La marchesa, sempre giovane ed elegante, la piú bella toscana che fosse in Milano, andava a fargli visita una volta all’anno, quando c’erano le corse a Firenze, l’abbracciava, l’accarezzava, gli recava dei confetti, e rimontava in carrozza sorridente. Ella era stata colta da una pleurite, all’uscire dalla Scala, ed era morta prima che i suoi amici avessero tempo di far venire il figliuolo da Prato. Il povero orfanello aveva allora dodici anni e conservava religiosamente le poche lettere che il babbo gli aveva scritto, e le scatole dei confetti che la mamma gli aveva regalato. Una volta aveva chinato il capo, tutto vergognoso, allorché il suo amico Gemmati gli aveva detto: «O perché il tuo babbo non vien mai a vederti?». Un’altra volta avea arrossito perché certi forestieri che visitavano il collegio avevano mostrato di conoscerlo come il figliuolo della marchesa Alberti, e poi aveva arrossito di avere arrossito. Sua madre non gli parlava mai del babbo. Di tutte coteste cose si rammentò piú tardi.
Le prime inquietudini del cuore gettarono nella sua mente il germe funesto dello esame.
A sedici anni Alberto era un giovinetto alto e delicato, coi capelli biondi, il profilo aristocratico, un po’ freddo e duro il pallore marmoreo del padre, e i grandi occhi azzurri, il sorriso affascinante e mobilissimo della madre – cuore aperto a due battenti, immaginazione vivace, affettuosa, ma inquieta, vagabonda, diremmo nervosa, ingegno piú acuto che penetrante, analitico per inquietudine e per debolezza di carattere – un ingegno che vi sgusciava dalle mani ad ogni istante – diceva il suo professore di filosofia – atto a fargli cercare la decomposizione dell’unità, o a dargli i peggiori guai della vita quando il cuore si fosse mescolato della bisogna. Egli aveva preso di buon’ora l’abitudine di pensare, come tutti i solitari. Piú tardi trovò un amico, Gemmati, pel quale ebbe tenerezze e gelosie d’amante, sino a tenergli il broncio quando seppe che sorrideva alla figliuola del barbiere che stava di faccia. Molto tempo dopo, e in circostanze assai diverse, mentre stava seduto accanto al fuoco, cogli occhi fissi sulla fiamma, e le labbra contratte sul sigaro spento, il ricordo di quella ridicola gelosia della sua infanzia gli balenò in mente colla strana bizzarria delle reminiscenze. Egli buttò il sigaro, e si alzò piú pallido ed accigliato di prima.
Aveva fatto tranquillamente i suoi studi in collegio sino a quell’età; era passato per le lingue, per i numeri, per l’analisi della parola e del pensiero; a sedici anni era diventato sognatore, fantastico, ipocondriaco, e sentí d’amare la prima volta, perché tutti i poeti parlavano d’amore. Allora, trionfante di mistero, mostrò di nascosto all’amico Gemmati i primi fiori vizzi che la cuginetta gli avea dato, o che egli le avea rubati: «Ami l’Adele?» gli domandò Gemmati ch’era anch’esso un po’ parente della ragazza. «Sí!» rispose Alberto facendosi rosso. «O come? se non la vedi quasi mai?» «Quando penso a lei mi par d’impazzire,» ed era vero, ché le prestava tutte le amplificazioni della sua fantasia; ma allorché le stava accanto, una volta all’anno, rimaneva ingrullito vicino a quell’amante che gli proponeva di giocare a volano.
A venti anni egli uscí dal collegio piú bambino di quando c’era entrato; vuol dire con nessuna nozione esatta della vita, con molte fisime pel capo, e certi giudizi strampalati e preconcetti, nei quali si ostinava con cocciutaggine di uomo che pretenda conoscere il mondo dai libri. Il direttore del collegio fece trapelare tutte coteste brutte verità da una bella lettera che scrisse al signor Bartolomeo Forlani, il babbo dell’Adele, zio materno di Alberto, aggiungendo che il nipote non era riescito a superare gli esami dell’ultimo anno, malgrado il suo bell’ingegno. Lo zio, che era tutore per soprammercato, e tornava giusto dal fare i conti col fattore del nipote, rispose ringraziando, come meglio sapeva e poteva, il signor direttore per l’ottima riuscita del giovanetto – una lettera che fece montare la mosca al naso al buon direttore – come se lo si volesse minchionare, e non era vero! – Scrisse anche al nipote, invitandolo a venire a Belmonte, nome della sua villa sulla montagna pistoiese, e andò tutto festante a prevenire la figliuola del prossimo arrivo del cuginetto, che il signor direttore scriveva essersi fatto un bel giovane, e pieno zeppo d’ingegno. La fanciulla, che non giocava piú a volano, arrossí; il babbo se ne avvide, aggiunse che, secondo gli ultimi affitti, i poderi del cugino rendevano trentaduemila lire di netto, e se ne andò fregandosi le mani.
A Belmonte si aspettava cotesto bel giovanetto, di cui il signor direttore diceva tanto bene, e che aveva trentaduemila lire di rendita.
III
Come Alberto aveva il suo amico Gemmati, Adele avea anche lei la sua amica di collegio, la contessina Manfredini, ch’era venuta a stare con lei per qualche settimana. Le due amiche passeggiavano sulla terrazza sovrastante alla via che menava alla villa, tenendosi abbracciate, ridendo e cinguettando come allegri uccelletti. Il sole tramontava dietro i monti che si disegnavano con una vaga trasparenza violetta sulle calde tinte dell’occidente; l’aria era imbalsamata da mille fragranze estive; una nebbia sottile si levava dal fondo della valle, dove si udiva mormorare il torrente, i buoi che c’erano stati a bere risalivano l’erta lentamente, brucando l’erba qua e là, e facendo risuonare di tanto in tanto i loro campanacci.
Le due fanciulle, silenziose da un pezzo, stavano appoggiate alla balaustrata della terrazza, e guardavano sbadatamente.
«Tuo cugino verrà stasera?»
«Sí.»
E dopo una breve pausa:
«È biondo tuo cugino?»
«Sí.»
«Alto?»
«Sí»
«È bello?»
Adele sorrise e chinò il capo.
La sua amica si voltò verso di lei, la guardò in viso, e disse lentamente:
«L’ami?»
«Oh!…» esclamò Adele tirandosi bruscamente indietro e facendosi di fuoco.
Le parole hanno il valore che dà loro chi le ascolta. Tutta la verginità che c’era nel cuore della fanciulla sembrò trasalire a quella domanda. L’altra, ch’era di due o tre anni maggiore di lei, l’abbracciò strettamente, viso contro viso, cullandosi insieme a lei sulla ringhiera, con un movimento di grazia inimitabile, e le susurrò piano all’orecchio: «L’ami?».
Ella si voltò all’improvviso, rossa come fiamma, e le stampò un bacio sulla guancia.
«Ed egli ti ama?»
Adele rispose senza alzare il capo: «Non lo so».
«Eh, via!»
«Non me l’ha mai detto.»
«Certe cose non c’è bisogno di dirle.»
«O come si fa allora?»
L’altra la guardò ridendo: «Deve amarti moltissimo, perché sei carina davvero!»
«Come sei bella tu!» esclamò Adele, buttandole le braccia al collo.
Una carrozza s’avvicinava rapidamente; il bel giovanetto che c’era dentro levò, fra timido e sorridente, i grandi occhi azzurri verso la terrazza, fece un saluto un po’ imbarazzato, volse uno sguardo festoso, e arrossí leggermente.
«Come s’è fatto grande!» esclamò sottovoce Adele, aggrappandosi, senza saper perché, al vestito della sua amica.
«E un bel giovane» disse costei.
«Aveva il sigaro in bocca, hai visto?»
«Non è elegante, ma ha un’aria distinta. È marchese, non è vero?»
«Sí, a momenti sarà qui.»
Velleda rizzò il capo con un movimento impercettibilmente altero, civettuolo e grazioso al tempo istesso, e si mise a frustare i ramoscelli piú bassi con una bacchetta che aveva in mano.
«Se fossi bella come te!» esclamò ingenuamente l’Adele, forse colpita da quel rapido corruscare della vanità, o forse rispondendo ai pensieri che le si affollavano in mente.
La sua amica era infatti una magnifica bionda, aristocratica e delicata beltà, modellata come una Venere, e leggiadra come un figurino di mode, dalle folte e morbide chiome cinerine, dai grand’occhi azzurri e dalle labbra rugiadose; sotto i suoi guanti grigi celava unghie d’acciaio, colorate di rosa; il suo stivalino sembrava animato da fremiti impazienti, e con quel suo tacco alto, con quella sua curva elegante, avea l’aria di gentile arroganza, come se sentisse di render beata l’erba che calpestava; il sorriso di lei era affascinante, lo sguardo profondo ed un po’ altero, l’accento carezzevole, il vestito avea artificiose semplicità, e la blonda pudiche civetterie – ecco che cosa era quella fanciulla che frustava i ramoscelli con un virgulto di salcio, e che si chiamava Velleda, al modo stesso che era bionda, che era capricciosa, che era elegante, e che un bel fiore da stufa ha un bel nome straniero. Ella sembrava sopraffare la verginale leggiadria della sua amica col semplice portamento superbo del capo, o con un solo de’ suoi sorrisi affascinanti. Adele era magrina, delicata, pallidetta, cosí bianca che sembrava diafana, e che le piú piccole vene trasparivano con vaga sfumatura azzurrina; avea grand’occhi turchini, folte trecce nere, mani candide e un po’ troppo affusolate; il vento, innamorato, modellava le vesti sul suo corpiccino svelto e gentile come una statua d’Ebe; i movimenti di lei avevano certa elasticità carezzevole e felina; – accanto a ciò una timidità quasi selvaggia, un sorriso spensierato, e dei rossori improvvisi. Un conoscitore avrebbe indovinato nella leggiadria modesta e quasi infantile della fanciulla il prossimo sbocciare di una bellezza tale da rivaleggiare con quella della superba bionda; ma Alberto non era conoscitore, e allorché la cuginetta gli corse incontro stendendogli le mani e salutandolo col suo grazioso rossore, i capelli biondi, la veste di seta, e lo sguardo da regina dell’altra gli si gettarono, direi, alla testa, in un lampo. Povera Adele! se avesse potuto udire il ronzío di tutti quei calabroni inquieti che si destavano nella mente di Alberto, mentre ella credeva di fare una presentazione in regola, dicendo: «Mio cugino!» «La signorina Velleda!»
La signorina Velleda fece una bella riverenza da ballo, ed Alberto se ne rammentò scrivendo il giorno stesso all’amico Gemmati: “Se avessi visto con quanta grazia inchinandosi spingeva indietro il suo vestito!”.
Velleda andava innanzi, giocherellando sempre colla sua bacchettina a mo’ di frustino, un po’ da bambina capricciosa, un po’ da leggiadra civettuola. Allo svoltar d’un viale scomparve.
Adele, che chiacchierava col cugino, tutta giuliva, arrossí improvvisamente, ed Alberto se ne avvide.
«Che hai?» le domandò.
«Il babbo non sa nulla del tuo arrivo… cerco di vederlo.»
Il babbo li vedeva benissimo dalla sua finestra, e si fregava le mani.
Al rammentarsi dello zio il giovane si fe’ scuro in viso, e pensò agli esami andati a monte. Ma lo zio, ch’era il miglior zio del mondo, abbracciò teneramente il nipote, come se costui non avesse delle palle nere sulla coscienza; anzi a tavola comparve un certo fiasco di vecchio chianti, di quel delle grandi occasioni, e se l’avessero lasciato fare, lo zio avrebbe fatto crepare il nipote di indigestione, per provargli la sua tenerezza. L’Adele fu ciarliera e taciturna a sproposito, la signorina Manfredini disinvolta e piena di brio, Alberto un po’ imbarazzato, un po’ distratto, e di quando in quando aveva certi assalti di allegria che gli montavano al viso, gli luccicavano negli occhi e si risolvevano in bizzarre effusioni di affetto per lo zio Bartolomeo.
«La bella luna!» esclamò Adele affacciandosi alla finestra. «O che non si va in giardino?»
Velleda, interrogata a quel modo, si mise a ridere.
«Vacci anche tu» disse lo zio ad Alberto, che non faceva le viste di muoversi.
«E lei, zio?»
«O cosa vuoi che venga a farci io? Ci ho il mio giornale da digerire. Vai pure.»
IV
Le due ragazze irruppero in giardino allegre e chiassose; la luna sembrava inondarle di un pallido chiarore, traeva dei riflessi turchinicci dai capelli di Adele, dava un che di vaporoso a quelli di Velleda, luccicava sulla seta, giocava colle ombre, frastagliavasi fra i cespugli, disegnava nettamente in bianco i viali; il cielo era terso, leggermente azzurro; le gaie voci e gli allegri scrosci di risa avevano cristalline sonorità.
«Sono stanca!» disse Adele lasciandosi andare su di un sedile, e raccolse la sua vesticciuola volgendosi verso di Alberto con un tacito invito; costui che chiacchierava spensieratamente tacque all’improvviso.
«Ho dimenticato il mio scialletto» disse Velleda con singolare vivacità.
«Andrò a prenderlo» rispose premuroso Alberto.
La ragazza non poté dissimulare un sorriso maliziosetto.
«Grazie, non s’incomodi» rispose, e partí correndo.
Adele s’era ritirata in là per far posto al cugino accanto a lei; ma egli si mise a passeggiare innanzi e indietro, gettando di tempo in tempo sguardi avidi e imbarazzati sul sedile.
«Vuoi metterti a sedere?» diss’ella.
«No… grazie… non ti comoda?»
«Che!»
Ella si mise a strappare le foglie del rosaio. Alberto accavallava ora una gamba ora l’altra, guardava gli alberi, il viale, la punta dei suoi stivali, e non sapeva che farsene delle mani.
«Mi permetti di fumare?» disse dopo un lungo silenzio, e come se avesse fatto una grande scoperta.
«Fai pure.»
Egli trionfante accese un sigaro, e si diede a buffare il fumo con enfasi.
«Ti dà noia il fumo?» le domandò.
«No» rispose Adele tossendo e fregandosi gli occhi.
E tacquero di nuovo.
«Bella sera!» esclamò finalmente Alberto col naso in aria.
«Bellissima.»
«E punta fredda!»
«Punta.»
«È un pezzo che non ci vediamo, sai!»
«Due anni.»
«È vero.»
Ella lo stava a guardare seria seria.
«Hai imparato a fumare!» gli disse finalmente con un sorriso, e come se gli confidasse un segreto che nascondeva da qualche tempo.
«Cosa vuoi, i vizi si imparano facilmente!» rispose Alberto con gravità.
«Però il sigaro ti sta bene!»
Ei la guardò nei grand’occhi turchini che luccicavano al chiaro di luna, chinò i suoi prestamente, e si soffiò il naso. Adele riduceva in pezzi minutissimi le foglie che avea strappato dal rosaio.
«Ma il tuo giardino è molto bello!» disse finalmente Alberto.
La giovanetta guardò attorno, come se vedesse quegli alberi per la prima volta, e rispose:
«Sí, molto bello.»
«Una delizia!»
«Una vera delizia. Quella fontana lí ce l’ho voluta io.»
«Davvero?»
«Sí, non è bellina?»
«Bellina tanto!»
«È tutta di marmo, sai!»
«Oh!»
«Il babbo non voleva, per via della spesa…»
«Deve aver costato parecchio!»
«Altro! Ma il babbo mi vuol tanto bene!»
«Oh! (in un altro tono).»
«E anche te, sai, ti vuol bene!»
Il dialogo che si reggeva sui trampoli, minacciò d’inciampare in quel sassolino.
«Ha detto che ti terrà qui sino a novembre» soggiunse Adele vedendo che il cugino stava zitto.
«Ma…»
«Ti rincresce?»
«No!… no…!»
«Non ti annoierai?»
Egli si volse, la guardò, poi si mise a scuotere col mignolo la cenere del sigaro Adele rimase alquanto pensierosa, la povera bambina, e soggiunse, un po’ trepidante: «Ci starai volentieri?»
«Figurati!»
«Anche Velleda ci starà sino a novembre. Che festa!» Il cugino si senti maledettamente ridicolo per non sapere metter fuori il piú meschino complimento.
«Ti piace la mia Velleda?» riprese Adele.
«A me?…»
«Non è bella?»
«Oh sí!»
«Anch’essa ha detto che sei un bel giovanotto.»
A quelle parole parve ad Alberto che la luna irradiasse di un’aureola l’Adelina.
«Anche te ti sei fatta bella!…» disse col coraggio della gratitudine.
«Davvero?»
«Davvero.»
Ella sorrise, chinò il capo, incrociò le pallide manine sulle ginocchia, e il raggio della luna sembrò farsi vermiglio sulle sue guance.
L’usignuolo cantava: passò un alito di venticello che fece stormire lievemente le foglie. Essi si sentivano l’uno accanto l’altra. Tutt’a un tratto la fanciulla scoppiò a ridere.
«Oggi volevo darti del lei, vedi!»
«O perché?»
«Perché ti sei fatto grande: avevo suggezione di te… ecco!»
«Oh!»
Ella si volse verso di lui, con un improvviso movimento d’espansione e d’abbandono – i sentimenti puri e le anime vergini hanno di codeste arditezze innocenti – ed egli si tirò in là modestamente.
«Ma se tu m’avessi dato del lei non te l’avrei perdonato mai!»
«Perché?»
«Perché… perché… non lo so il perché.»
Tacquero entrambi, e sentivano che quel silenzio li dominava. Alberto era tutto intento a fumare, e l’Adele a pungersi le mani sul rosaio. Si udiva il fruscío della sua veste ad ogni movimento di lei.
«L’ultima volta che partisti pel collegio pioveva, ti rammenti ?»
«Sí, tu mi scrivesti per domandarmi come fossi arrivato.»
«Ti rammenti anche di codesto?»
«Ho ancora la lettera.»
«Davvero?» arrossí e volse il capo. «E Velleda che non ritorna!»
«Mi par di vederla laggiú.»
«Velleda!»
«Oh, siete ancora costà?» gridò Velleda da lontano.
«Parlavamo di te, sai!» esclamò Adele correndole incontro, e buttandole le braccia al collo le sussurrò qualcosa all’orecchio.
«Cattiva!» mormorò Velleda chinando il capo e facendosi rossa.
«Grulla!» borbottò il signor Bartolomeo quando lo seppe.
Alle undici tutti i lumi della villa erano, o sembravano, spenti. Alberto che stava alla finestra, come uno che abbia bisogno di mettersi in cuore tutta la serena bellezza di una notte estiva, credette di scorgere un fil di luce che trapelava fra le stecche della persiana di una finestra al pianterreno, di faccia alla sua. E si sporse in fuori per meglio vedere; ma la luce si fece all’improvviso piú viva, come pel dileguarsi di un’ombra frapposta, e si spense quasi subito.