Buch lesen: «Le figlie dei faraoni»
CAPITOLO PRIMO. Sulle rive del Nilo
Tutto era calmo sulle rive del maestoso Nilo.
Il sole stava per scomparire dietro le altissime cime delle immense palme piumate, fra un mare di fuoco che arrossava le acque del fiume, facendole sembrare bronzo appena fuso, mentre a levante un vapore violaceo, che diventava di momento in momento più fosco, annunciava le prime tenebre.
Un uomo stava ritto sulla riva, appoggiato al fusto d’una giovane palma, in una specie di molle abbandono e come immerso in profondi pensieri. Il suo sguardo vago errava sulle acque che si frangevano con un dolce gorgoglìo fra le radici dei papiri affondate nella melma.
Era un bel giovane egiziano, forse appena diciottenne, con spalle piuttosto larghe e piene, le braccia nervose, terminanti in mani lunghe e sottili, i lineamenti bellissimi, regolari, ed i capelli e gli occhi nerissimi.
Indossava un semplice camice, che gli scendeva fino ai piedi a larghe pieghe, stretto alle anche da una fascia di lino a righe bianche ed azzurre.
Sul capo, per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, portava quella specie di bonetto, usato dagli Egiziani cinquemila anni or sono, formato da un fazzoletto triangolare, a liste colorate, stretto alla fronte da una sottile lista di pelle, colle punte cadenti dietro le spalle.
Quel giovane conservava una immobilità assoluta e sembrava che non si accorgesse nemmeno che le prime ombre della notte cominciavano ad avvolgere le palme ed il fiume, e che non pensasse nemmeno che il soffermarsi troppo su quelle rive, dopo il tramonto, poteva essere pericoloso.
Il suo sguardo nerissimo, dal lampo fosco, si fissava sempre nel vuoto come se seguisse qualche cosa che gli fuggiva dinanzi e che scompariva fra le ombre della notte.
Ad un tratto un lungo sospiro gli uscì dalle labbra, poi si scosse facendo colle mani come un moto di scoraggiamento.
«Il Nilo non me la ricondurrà forse più mai,» mormorò «gli dei non proteggono che i Faraoni.»
Alzò gli occhi. Le stelle cominciavano a brillare in cielo e il lieve rossore porpureo che si discerneva ancora vagamente verso ponente, là dove il sole era scomparso, si dileguava con fantastica rapidità.
«Torniamo,» mormorò il giovane. «Ounis sarà molto inquieto e forse sta cercandomi nel bosco.»
Aveva fatto tre o quattro passi, quando si arrestò, fissando gli sguardi sulle erbe secche che crescevano sotto le palme. Qualche cosa scintillava fra le foglie cadute dagli alberi. Si chinò rapidamente e lo raccolse, mandando nel medesimo tempo un grido a malapena soffocato.
Era un gioiello in forma di vipera ripiegata, colla testa d’avvoltoio, tutto d’oro, con smalto policromo lungo i lati.
«Il simbolo del diritto di vita e di morte!» esclamò.
Stette parecchi minuti come perplesso, tenendo gli occhi sempre fissi su quello strano gioiello, mentre la pelle del suo viso, che era solamente un po’ abbronzata e non oscura come quella dei moderni fellah, ossia lavoratori delle campagne, e dei beduini del deserto, a poco a poco si scoloriva.
«Sì,» ripetè, con un accento che tradiva una profonda angoscia, «questo è il simbolo del diritto di vita e di morte, che solo i Faraoni possono portare. Ounis me lo ha fatto vedere parecchie volte, scolpito sulle statue delle piramidi e sulla fronte di Khâfri Grande Osiride! Chi sarà la fanciulla che ho strappato alle fauci del coccodrillo?»
Si passò più volte una mano sulla fronte che era bagnata di sudore, poi riprese:
«Me lo ricordo, questo gioiello brillava in mezzo ai suoi capelli, nel momento in cui la trassi dall’acqua.»
Un’angoscia inesprimibile traspariva sul bel viso del giovane.
«Sono pazzo,» disse. «Un umile uomo come sono io, alzare gli occhi su quella fanciulla che mi apparve come una dea del Nilo! Che cosa sono io per ardire tanto e vivere con una simile speranza nel cuore? Un miserabile che erra sulle rive del Nilo assieme ad un povero sacerdote. Folle! Eppure quegli occhi mi han tolto per sempre la tranquillità e mi hanno spezzata l’esistenza. Io non sono più il giovane spensierato d’un giorno. La mia vita è finita ed il Nilo è qui, dinanzi a me, pronto a trascinare la mia spoglia verso il lontano mare.»
Aveva ripreso il cammino, colla testa bassa, le braccia penzolanti. Le tenebre avevano tutto avvolto e l’oscurità era profonda sotto le immense foglie delle palme.
Cantavano i grilli, sussurravano dolcemente le fronde, scosse da un legger venticello e gorgogliavano le acque del maestoso Nilo fra le foglie di loto e le radici dei papiri, ma il giovane pareva che nulla udisse. Camminava come un sonnambulo, come se sognasse, senza parlare.
Aveva già raggiunto il margine della foresta, che si stendeva d’ambe le parti, su una larga zona, lungo le rive del fiume, quando una voce lo strappò improvvisamente dai suoi pensieri.
«Mirinri!»
Il giovane s’arrestò e aprì gli occhi che teneva socchiusi e fece un gesto vago. Pareva che si svegliasse in quel momento da un lungo sogno.
«Non vedi che il sole è tramontato da un po’ e non odi le risa sgangherate delle jene? Dimentichi forse che noi siamo come in mezzo ad un deserto?»
«Hai ragione Ounis,» rispose il giovane. «Vi erano dei coccodrilli che giuocavano nel fiume e mi sono fermato un po’ troppo a guardarli.»
«Sono imprudenze che possono costare ben sovente la vita.»
Un uomo era sbucato fra un folto gruppo di suffarah (acacie fistulose) avanzandosi verso il giovane, che era sempre fermo. Era un bellissimo vecchio, d’aspetto maestoso, con una lunga barba bianca che gli scendeva fino a metà del petto, tutto racchiuso in un ampio camice di lino bianchissimo, col capo avvolto in un fazzoletto rigato, simile a quello che portava Mirinri. I suoi occhi erano nerissimi, dal lampo vivissimo e la sua pelle appena abbronzata, quantunque un po’ incartapecorita dall’età.
«È un’ora che ti cerco, Mirinri,» disse «e sono molte sere che tu torni tardi. Bada, figlio mio: le rive del Nilo sono pericolose. Anche stamane ho veduto un coccodrillo addentare pel naso un toro, che stava dissetandosi e trascinarlo sotto le acque.»
Un sorriso quasi sprezzante apparve sulle labbra del giovane.
«Vieni, Mirinri, è già molto tardi e devo parlarti a lungo questa sera, perché hai già compiuti diciotto anni e la profezia si è avverata.»
«Quale?»
Il vecchio alzò una mano verso il cielo, dicendo poi:
«Guarda: non la vedi brillare verso oriente? I tuoi occhi sono migliori dei miei e tu la distinguerai più facilmente.»
Il giovane guardò nella direzione che il vecchio gl’indicava ed ebbe un trasalimento.
«Una stella colla coda!» esclamò.
«È quella che attendevo,» rispose il vecchio. «Quella stella è legata al tuo destino.»
«Me lo hai detto sovente.»
«Segna l’ora delle rivelazioni.» Si curvò rapidamente dinanzi al giovane e gli baciò l’orlo della veste.
«Che cosa fai, Ounis?» chiese Mirinri con stupore, e arretrando di qualche passo.
«Saluto il futuro signore dell’Egitto,» rispose il vecchio.
Il giovane era rimasto muto, guardando Ounis con uno stupore impossibile a descriversi.
Un lampo ardente animava solo i suoi occhi, che si erano fissati intensamente sulla cometa scintillante in cielo, fra miriadi di stelle.
«Il mio destino!» esclamò finalmente. Poi un altro grido gli irruppe dalle labbra:
«Mia! Potrà essere mia! Il simbolo di vita e di morte non mi fa più paura! Ma no, è impossibile, tu sei pazzo, Ounis; quantunque tu sia sacerdote, non ti credo. Il mio corpo, travolto dalle acque del sacro fiume andrà a finire nel mare lontano e s’immergerà là dove i suoi occhi mi hanno fissato per la prima volta e mi hanno bruciata l’anima.»
«Di chi parli, Mirinri?» chiese Ounis, sorpreso.
«Lascia che il segreto muoia con me,» rispose il giovane.
Un’ansietà estrema si era dipinta sul viso del vecchio sacerdote.
«Parlerai,» disse con tono autorevole. «Vieni!»
Prese per una mano il giovane e si rimisero in cammino, attraverso una landa quasi sabbiosa, interrotta qua e là da qualche magro arbusto e da qualche palma semidisseccata.
Né l’uno, né l’altro parlavano. Entrambi parevano molto preoccupati e fissavano, quasi nel medesimo istante, la stella caudata, che saliva lentamente in cielo scintillando vivamente.
Dopo un quarto d’ora giungevano alla base d’una collina, priva di qualsiasi traccia di vegetazione, che s’alzava in forma di piramide e sulla cui cima si scorgevano delle statue di proporzioni colossali, giganteggianti nell’oscurità.
«Vieni,» ripetè il vecchio sacerdote. «Questa è l’ora.»
Mirinri si lasciò condurre, senza opporre resistenza. Dopo essersi inerpicati su un sentiero aperto nella viva roccia, si cacciarono entro una caverna poco spaziosa, illuminata da una piccola lampada di terra cotta foggiata come un ibis, l’uccello sacro degli antichi egiziani.
Nessun lusso entro quello speco. Solo delle pelli di bufalo e di iena, che dovevan servire da letti, alcuni vasi in forma d’anfora, qualche spada corta e larga appesa alle pareti e qualche scudo di pelle di bue.
In un angolo, su un fornello, improvvisato con quattro o cinque pietre, borbottava una pentola di forma strana, esalando un profumo non cattivo.
Mirinri, appena entrato, si era lasciato cadere su una pelle di iena, prendendosi le ginocchia fra le mani ed immergendosi subito nei suoi pensieri. Il sacerdote invece si era fermato in mezzo alla caverna, guardando il giovane intensamente, con un’affettuosità inesprimibile.
«Ti ho salutato mio signore,» disse con un accento strano, che suonava come un dolce rimprovero. «Lo hai dimenticato, Mirinri?»
«No,» rispose il giovane, quasi distrattamente.
«Eppure lo si direbbe. Quale pensiero profondo turba il cervello di colui che ho chiamato mio figlio ed a cui ho dedicato tutta la mia vita? Non senti dunque fremerti nelle vene il sangue divino dei Faraoni, i dominatori dell’Egitto?»
Udendo quelle parole il giovane era scattato in piedi, tutto trasfigurato, fissando sul vecchio uno sguardo ardente.
«Il sangue dei Faraoni, hai detto tu!» esclamò. «Impazzisci, Ounis.»
«No,» rispose asciuttamente il vecchio. «È l’ora delle rivelazioni, ti ho detto. La stella caudata sale in cielo e la profezia si è avverata. Tu sei un Faraone!»
«Io… un Faraone!» esclamò Mirinri impallidendo. «Sentivo io scorrermi nelle vene un sangue ardente, il sangue dei guerrieri! I miei sogni di glorie e di grandezze, che ogni notte, per anni e anni, hanno turbato i miei sonni, erano dunque veri! Grandezza! Potenza! Eserciti da comandare, regioni da conquistare… e lei… lei… quella divina fanciulla che mi ha stregato… È impossibile… tu mi hai ingannato, Ounis, tu ti sei riso di me!…»
Il giovane si era coperto gli occhi con ambe le mani, come per sfuggire alla grande visione.
Ounis gli si accostò e, scuotendolo dolcemente, gli disse:
«Un sacerdote non può permettersi di scherzare con un uomo che ha nelle sue vene il sangue sacro di Osiride e che diverrà un giorno il suo signore. Siedi e ascoltami.»
Mirinri obbedì, lasciandosi cadere su una pelle di gazzella che copriva il piccolo sedile d’argilla seccata al sole.
«Parla,» disse. «Spiegami come io possa essere un Faraone e perché sono cresciuto qui, sui margini del deserto, lontano dagli splendori di Menfi, come fossi il figlio d’un miserabile pastore.»
«Perché se tu fossi stato lasciato laggiù, probabilmente a quest’ora non saresti più vivo.»
«Perché?» chiese Mirinri scattando.
«Perché a Menfi non regna più, già da undici anni, Teti, il fondatore della sesta dinastia. Un miserabile ha usurpato il trono a tuo padre.»
«Io, figlio di Teti!» esclamò il giovane impallidendo. «Sogni tu, Ounis o continui lo scherzo?»
«Non ti ho forse baciato il lembo della tua veste? Tu vorrai delle prove? Ebbene io te le darò. Domani, prima dell’alba, noi ci recheremo a interrogare le statue di Memnone e tu udrai la pietra a suonare dinanzi a te. Ne vuoi un’altra? Andremo alla piramide che tuo padre ha fatto erigere ed io farò rivivere in tua presenza il fiore meraviglioso d’Osiride, quel fiore che solo dinanzi ai Faraoni dischiude le sue corolle, quando vi lasciano cadere una goccia d’acqua. Se la pietra vibrerà ed il fiore rivivrà, sarà segno che sei figlio di re. Lo vuoi?»
«Sì,» rispose Mirinri tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte. «Solo dinanzi a quelle due prove io ti crederò.»
«Sta bene,» rispose il sacerdote. «Ora ascolta la storia di tuo padre e la tua.»
Stava per aprire la bocca, quando i suoi occhi scorsero il simbolo di vita e di morte che il giovane si era appeso alla correggia che gli stringeva il fazzoletto un po’ sopra la fronte.
«Un ureo!» esclamò. «Dove hai raccolto quel simbolo, che brilla solo fra i capelli dei re e dei loro figli?»
«Sulla riva del Nilo,» rispose Mirinri, dopo una breve esitazione.
Ounis si era alzato in preda ad una vivissima angoscia. I suoi occhi si erano dilatati e dimostravano un terrore profondo.
«Che abbiano scoperto il nostro rifugio!» esclamò, facendo un gesto di collera. «Eppure io ho preso tutte le precauzioni perché nessuno sapesse il luogo ove io ti ho nascosto. Quell’ureo non può averlo smarrito che un Faraone.»
«O una Faraona?» disse Mirinri, guardandolo fisso e sussultando.
Ounis aveva fatto un soprassalto. S’accostò rapidamente al giovane, scuotendolo quasi brutalmente:
«Una Faraona! Tu mi hai parlato poco fa d’una fanciulla divina… Dove l’hai veduta? Parla, Mirinri! Da ciò può dipendere il tuo destino e fors’anche la tua vita.»
«L’ho veduta sulla riva del Nilo.»
«Sola?»
«No, perché poco dopo giunse una barca tutta scintillante d’oro, montata da una dozzina di negri superbamente vestiti e guidata da quattro guerrieri che reggevano delle aste d’oro con lunghe piume di struzzo disposte a ventaglio.»
«Fra i capelli di quella fanciulla hai osservato questo gioiello?»
«Sì, mi ricordo d’averglielo veduto brillare.»
«Fu lei dunque a perderlo.»
«Lo credo.»
Ounis, che pareva ancora in preda ad una viva eccitazione, si era messo a camminare per la caverna colla fronte aggrottata ed i lineamenti ancora alterati.
Ad un tratto si fermò dinanzi al giovane che lo guardava con crescente stupore, non sapendo spiegarsi l’agitazione che si era impossessata del vecchio sacerdote.
«Quale impressione ti ha prodotto quella fanciulla?»
«Non saprei spiegartela: so solo che da quel giorno la mia pace fu turbata.»
«Me n’ero accorto,» disse il sacerdote, con voce sorda. «Tu da qualche tempo hai perduto la tua gaiezza, ed il tuo sonno non è più tranquillo. Ti ho sorpreso parecchie volte immerso in profondi pensieri, cogli occhi volti verso il settentrione, là dove Menfi irradia la sua potenza e la sua luce.»
«È vero,» rispose Mirinri con un sospiro. «Si direbbe che quella fanciulla abbia portato con sé gran parte del mio cuore. Se chiudo gli occhi non vedo che lei: se dormo sogno lei; quando il vento sussurra fra le palme che costeggiano il Nilo, mi pare di udire la sua voce armoniosa. Vederla, vederla, sia pure una volta sola, dovesse costarmi la vita: ecco il mio solo, il mio unico desiderio, Ounis. Guarda: io mi copro gli occhi colle mani e me la vedo subito apparire dinanzi, e sento il sangue scorrere più veemente nelle mie vene, e battermi il cuore così forte come se volesse balzarmi fuori dal petto. Dolce visione! Quanto sei bella!»
Il sacerdote era rimasto muto dinanzi all’entusiasmo del giovane, anzi sembrava che quella confessione avesse raddoppiato il suo turbamento. I suoi sguardi erravano smarriti, ripieni di terrore, posandosi ora su Mirinri ed ora sul simbolo di vita e di morte dei Faraoni.
«La vedi ancora?» chiese ad un tratto, con accento quasi brutale.
«Sì, sta dinanzi a me,» rispose il giovane, che teneva sempre le mani sugli occhi. «Mi guarda… mi sorride… e provo ancora quel fremito intenso che mi scosse quando, strappatala dalle fauci del coccodrillo, la strinsi fra le mie braccia e la portai, col suo capo posato sul mio petto, sulla sponda e la deposi sull’erba ancora stillante la rugiada notturna.»
«Così intensamente l’ami, dunque?»
«Più della mia vita.»
«Disgraziato!»
Mirinri levò le mani e guardò il sacerdote che gli stava ritto dinanzi, collo sguardo fiammeggiante e le braccia tese, come in atto di scagliare una maledizione.
«Se è vero che io sono un Faraone, come tu mi hai detto, perché non potrei amare una fanciulla di stirpe reale?»
«Perché quella giovane deve appartenere a quella razza maledetta che devi, anche se non lo volessi, odiare non solo, bensì anche sterminare. Tu non conosci ancora l’istoria di tuo padre ed ignori i dolori sopportati da quel re sventurato.»
Mirinri era diventato pallido e si era coperti nuovamente gli occhi.
«Narramela dunque,» disse poi, con voce triste. «Nelle tue parole sta il mio destino, un terribile destino che spezzerà forse la malìa gettatami nel cuore da quella fanciulla.»
«Tu dovrai, al pari di tutti quelli della sua stirpe odiare e uccidere,» aggiunse il sacerdote, con voce cupa. «Odimi dunque.»
CAPITOLO SECONDO. Le tombe di Qobhou
«Tuo padre, il grande Teti, era il capo stipite della VI dinastia. A lui Menfi deve il suo splendore ed a lui l’Egitto deve la sua potenza e la sua grandezza e le più grandi piramidi, che sfideranno il tempo e che sussisteranno anche quando forse la nostra razza si sarà spenta.
«Egli ebbe due figli: tu ed una bambina a cui i sacerdoti imposero il nome di Sahuri.»
«Mia sorella!» esclamò Mirinri.
«Sì.»
«Vive ancora?»
«Lo saprai più tardi. Accadde che un giorno si sparse la voce che un esercito caldeo aveva attraversato l’istmo, che separa il Mediterraneo dal mar Rosso, l’Africa dall’Asia e che si avanzava minaccioso per distruggere la potenza della nostra razza.
«Degli eserciti egizî furono mandati contro gl’invasori e vennero ad uno ad uno sterminati.
«Tutte le città della costa sono prese e date alle fiamme e gli abitanti passati a fil di spada, senza riguardo né di sesso, né di età. Pareva che l’ultima ora stesse per suonare pei Faraoni e che perfino la grande Menfi dovesse crollare sotto i colpi dei Caldei.
«Fortunatamente vi era tuo padre.
«Discendente da caste guerriere, forte e valoroso, raccolse un poderoso esercito e disprezzando i consigli dei vili cortigiani e ministri, che non volevano che un re si esponesse a sì grave rischio, ne assunse il comando e mosse risolutamente contro il nemico che già s’avanzava vittorioso verso Menfi.
«Ad On, là dove comincia il Nilo a diramarsi, le sterminate falangi degli Egizi e dei Caldei s’urtarono con terribile accanimento.
«Tuo padre combattè come l’ultimo dei suoi soldati, nelle prime file, onde dare l’esempio. Sfidò impavido le freccie incendiarie e le pesanti spade di bronzo degli asiatici e sfondò le linee avversarie.
«La battaglia nondimeno non era ancora vinta. Dall’alba al tramonto la strage continuò con perdite enormi d’ambo le parti. Il Nilo diventò rosso pel gran sangue che vi scorse dentro; tutta la terra fu inzuppata di sangue e monti e monti di cadaveri s’alzarono dovunque.
«Fu solo allo sparir del sole che i Caldei, sgominati, decimati, scoraggiati, si diedero alla fuga ritornando al di là dell’istmo.
«L’Egitto era salvo pel valore di tuo padre; Menfi non correva ormai più alcun pericolo, eppure quella vittoria doveva rendere infelice e per sempre il vincitore».
«Cadde combattendo?»
«Ferito da una freccia caldea, che lo aveva colpito in mezzo al petto, quando già sfondava le linee avversarie, era rimasto sul campo, in mezzo ad un cumulo di cadaveri. Nella mischia orrenda, nessuno si era accorto che il re era scomparso, o meglio uno lo aveva veduto; ma aveva quel miserabile troppo interesse per avvertire i generali ed i soldati della disgrazia toccata a tuo padre.»
«Chi?» chiese Mirinri, scattando in piedi, cogli occhi fiammeggianti.
«Suo fratello: l’ambizioso Mirinri Pepi, che ora regna sull’Egitto in vece tua e…»
«Il fratello di mio padre mi ha usurpato il trono?»
«Sì, Mirinri, ma lasciami continuare. L’istoria non è ancora finita. Tuo padre non era stato ferito mortalmente. L’atroce dolore prodottogli dalla punta della freccia uncinata e che egli si era strappata, allargando così la piaga, lo aveva fatto cadere svenuto ed era rimasto come sepolto sotto altri corpi umani, caduti dopo di lui. Che cosa accadde poi? Non me lo seppe mai dire.
«Quando tornò in sé si trovò sotto una tenda di pastori negri, assai lontano dal campo di battaglia.
«Probabilmente quegli uomini erano accorsi durante la notte per depredare i cadaveri, ed essendosi accorti dalle ricche vesti che indossava tuo padre e dal simbolo di vita e di morte che portava fra i capelli, che doveva essere un grande personaggio, fors’anche un Faraone, l’avevano portato con loro coll’idea di chiedere più tardi un grosso riscatto.
«Tu sai che i pastori nostri, che vivono sui margini del deserto, sono tutti predoni, quando si presenta loro l’occasione.
«Tuo padre non ebbe però a lagnarsi di loro. Fu trattato con molti riguardi, curato affettuosamente. La ferita, dopo venti giorni, si chiuse e la convalescenza cominciò.
«Fu indescrivibile lo stupore dei pastori, quando appresero dalla sua bocca essere egli Teti.
«Per ordine di tuo padre, un pastore partì subito per Menfi, onde avvertire il popolo ed i ministri che il re dell’Egitto era ancora vivo e che si recassero a prenderlo colla pompa dovuta ad un Faraone. L’uomo partì, e non ritornò più. Tuo padre, temendo che fosse stato assalito lungo la via da qualche banda di predoni, ne mandò un secondo, poi un terzo e anche quelli non si fecero più vedere. Inquieto, molto preoccupato, decise di recarsi lui a Menfi. Formò una piccola scorta di pastori e un mattino si mise in viaggio.
«Quando entrò in Menfi, apprese con angoscia che suo fratello aveva assunto il potere e che il popolo ed i ministri, credendo che Teti realmente fosse morto, lo avevano acclamato re, senza preoccuparsi di te che avevi allora appena due anni.
«Quasi tutti gli amici di tuo padre ed i parenti più prossimi erano stati fatti segretamente uccidere dall’usurpatore e forse tu avresti subito l’egual sorte se la tema di scatenare fra il popolo una improvvisa ribellione non lo avesse trattenuto».
«E mio padre che cosa fece allora?» chiese Mirinri, con impeto selvaggio.
«Che cosa volevi che facesse quasi solo, senza alcuna forza tra le mani? Tentò di persuadere i ministri, ma quei vili ebbero l’audacia di dirgli che era un pazzo, un furfante e che dello spento re non aveva che qualche vaga rassomiglianza. Per persuaderlo meglio o piuttosto per rassicurare vieppiù il popolo che egli realmente era un mentecatto fu condotto nella piramide da lui stesso fatta innalzare e gli mostrarono la bara dove riposava il corpo di Teti I.»
«Chi vi avevano messo dentro?»
«Qualcuno che forse gli rassomigliava o che avevan reso irriconoscibile dopo d’averlo vestito da sovrano e di avergli puntato fra i capelli il simbolo di vita e di morte.»
«E come mi trovo qui, mentre dovrei essere nella reggia di Menfi?» chiese Mirinri.
«Tuo padre, temendo che Mirinri Pepi ti facesse un dì o l’altro assassinare, ti fece rapire da alcuni devoti amici, che l’usurpatore aveva risparmiati, e ti affidò a me onde m’incaricassi di allevarti. Fuggii da Menfi, durante una notte oscura, risalendo il Nilo ed in questi luoghi presi dimora, attendendo pazientemente che tu avessi compiuto l’età che permette, secondo le nostre leggi, di regnare.»
Successe un lungo silenzio. Mirinri era tornato a sedersi e pareva si fosse immerso in profondi pensieri. Il sacerdote, sempre in piedi, lo guardava fisso, come se cercasse d’indovinare ciò che passava attraverso il cervello del giovane.
Ad un tratto, questi si alzò bruscamente, col viso trasfigurato, gli occhi animati da una collera terribile.
«Mio padre è morto, è vero, Ounis?»
«Sì, in esilio, sui margini del deserto libico, ove si era rifugiato per non cadere sotto i colpi dei sicari di Pepi. La sua condanna di morte era stata ormai pronunciata dall’usurpatore.»
«Che cosa devo fare io, ora?»
«Vendicarlo e riconquistare il trono che per diritto ti spetta.»
«Solo, senza mezzi, senza un esercito?»
«Non solo,» rispose il sacerdote. «Amici di tuo padre ve ne sono ancora a Menfi e aspettano per salutarti re. I mezzi, mi hai detto? Ebbene, vieni.»
«Dove?»
«Nelle tombe di Qobhou, l’ultimo Faraone della prima dinastia, che tuo padre aveva scoperto nei primi anni del suo regno, senza confidare ad alcuno il segreto. Là troverai ricchezze bastanti per conquistare l’intero Egitto ed altre terre ancora, se tu lo vorrai.»
«Dove sono queste tombe?»
«Più vicine di quello che tu creda. Seguimi, Mirinri.»
Il vecchio prese una piccola lampada di terracotta, in forma d’anfora, riattizzò il lucignolo onde la fiamma si ravvivasse e s’avviò verso il fondo della caverna, dove scorgevasi una sfinge di marmo roseo di dimensioni gigantesche.
«Sta qui il segreto dell’entrata,» disse.
Fece scorrere una mano sul dorso della statua e subito la testa cadde, lasciando vedere un foro abbastanza lungo perché un uomo, anche corpulento, vi potesse entrare senza troppa fatica. Da quell’apertura sfuggì una corrente d’aria quasi calda impregnata d’un tanfo poco piacevole.
«Dobbiamo entrare lì?» chiese Mirinri.
«Sì.»
«Perché non mi hai mai detto che esisteva un passaggio in questa caverna.?»
«Io avevo giurato solennemente a tuo padre di non rivelartelo, se non quando tu avessi compiti i diciott’anni. Vieni: nessun pericolo ci minaccia e vedrai delle cose che ti faranno stupire.»
S’introdusse nel foro, avanzandosi carponi e tenendo la lampada dinanzi a sé, e dopo poco si trovò in un ampio corridoio, che era fiancheggiato ai due lati da un numero immenso di statuette di bronzo e di pietra, rappresentanti dei gatti in varie pose.
Ve n’erano però moltissimi anche imbalsamati, allineati su un cornicione che sporgeva presso la vôlta del passaggio.
Come si sa, gli antichi egizi tenevano in grande considerazione quei parenti prossimi delle tigri, anzi adoravano, fra le molte divinità, Pakhit la dea dei gatti, che aveva il corpo di una donna e la testa dei felini, anzi ne ponevano nei loro sepolcreti e perfino entro le piramidi ove riposavano le salme dei re.
Che più? Avevano perfino dei cimiteri, esclusivamente destinati ad accogliere i mici e che erano sotto la protezione della dea sopraccennata o del dio Nofirtonmon.
Ultimamente anzi ne venne scoperto uno, al sud degli ipogei di Beni-Hassan, che conteneva la bagatella di 180.000 mummie di gatti colà deposte dai re della XVIII dinastia.
Ounis continuò ad avanzarsi, proteggendo la lampada con una mano, essendovi ancora una forte corrente d’aria satura di quell’odore sgradevole che regna nelle cantine abbandonate, e sbucò finalmente in una sala così immensa da non potersene scorgere l’estremità, la cui vôlta era sorretta da un gran numero di colonne massiccie, abbellite di sculture rappresentanti divinità e ibis, l’uccello venerato dagli antichi egizi e che si vede su tutti i monumenti eretti in quelle lontane epoche.
Lungo le pareti che erano lievemente inclinate, si scorgevano delle statue colossali, simili a quelle che si vedono ancora oggidì sulla facciata del tempio di Abu Simbel, pesanti e tozze, con quella grandiosità di forme colle quali sembrano concepiti tutti i monumenti dell’antico Egitto.
Erano statue di uomini e di donne, i primi con berretti monumentali, sormontati da una specie di cocuzzolo, con delle strane barbe quadrate, più larghe verso il fondo che presso le labbra e degli stracci pendenti lungo gli orecchi e ricadenti sulle spalle, e le altre coperte dalla futta, quella specie di sottana che annodavano alle reni e che avvolgeva, come una specie di imbuto, le loro gambe.
Veduti alla vacillante luce della piccola lampada, quei colossi, che stavano seduti gli uni presso gli altri colle braccia abbandonate sul ventre, producevano un effetto strano che impressionava profondamente Mirinri, non abituato altro che a vedere le acque verdeggianti o fangose del Nilo, le sabbie del deserto e le altissime palme ravvivate dall’umidità del fiume gigante.
Ounis, che sembrava non s’interessasse né delle statue, né dei colonnati, né delle sculture, continuò ad avanzarsi verso il fondo di quell’immensa, interminabile sala, scavata nel vivo masso da chissà quante migliaia di operai, e si arrestò dinanzi a due statue di grandezza quasi naturale, che alla luce della lampada mandavano dei bagliori acciecanti. Una rappresentava un uomo, con indosso il ricco costume dei Faraoni ed il simbolo di vita e di morte collocato sulla fronte; l’altra una donna bellissima, con grandi occhi neri ed il viso dipinto in giallo; ma con un po’ di rossetto sulle gote, che le dava un aspetto singolarissimo ed insieme una speciale attrattiva.
Entrambi portavano delle pitture di soggetto religioso, ripetizione ortodossa del gran rito etiopico, dove si vede l’anima del defunto fare la sua visita e le sue offerte a tutte le divinità, di cui essa deve implorare la protezione.
Invece di chiuderli entro la bara, quell’antichissimo monarca e sua moglie, dopo essere stati imbalsamati, li avevano messi in piedi, sorreggendoli con un’asta di bronzo passata attraverso le strette fascie che li coprivano dalle anche ai piedi.
Sia l’uno che l’altra, onde si conservassero meglio, erano stati coperti da un leggero strato di vetro, colato probabilmente sul luogo, un vetro traslucido, d’una purezza straordinaria, che scintillava vivamente sotto la luce proiettata dalla piccola lampada.
«Chi sono costoro?» chiese Mirinri, che li guardava con vivo interesse.
«Qobhou, l’ultimo re della prima dinastia e sua moglie,» rispose Ounis. «Guarda: su queste due tavolette di pietra nera sta scritto il loro nome.»
«Ed è per farmi vedere queste due mummie che mi hai condotto qui?»
«Aspetta, giovane impaziente. La nostra esplorazione non è ancora finita. A che cosa potrebbero servire questi morti? Non certo a darti mezzi per conquistare il trono. Seguimi ancora.»
S’inoltrò in quell’immensa sala, che pareva non avesse più fine, passando fra due file di sarcofaghi di pietra, i cui rilievi esterni riproducevano esattamente le forme delle persone che vi stavano dentro. Alcuni erano dorati, altri invece argentati e raffiguravano re e regine.
I primi avevano intorno al capo un disco rosso e portavano sotto il mento una barba intrecciata; le altre avevano un’acconciatura a bendoni, con dipinte sopra delle penne d’avvoltoio e la testa coronata da grosse treccie di capelli adorni con ametiste, crisoliti e smeraldi.