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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8

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In tempo di pace, il Re di Persia continuamente cercava i pretesti di una rottura, ma non così tosto aveva dato di piglio alle armi, che manifestava il suo desiderio di un sicuro ed onorevole accordo. Mentre le ostilità più infierivano, i due Monarchi mantenevano ingannevoli pratiche fra loro; e tale era la superiorità di Cosroe, che trattando egli con insolenza e disprezzo gli Oratori romani, otteneva i più grandi ed insoliti onori pe' suoi ministri alla Corte imperiale. Il successore di Ciro assumeva la Maestà del Sole orientale, e graziosamente permetteva che il suo minor fratello Giustiniano regnasse sopra l'Occidente, col pallido e riflesso splendor della Luna. Questo gigantesco stile era sostenuto dalla pompa ed eloquenza di Isdiguno, ciamberlano reale. La moglie e le figlie lo accompagnavano con numeroso seguito di Eunuchi e di Cammelli; si scorgevano due Satrapi con aurei diademi nel numero de' suoi seguaci: cinquecento soldati a cavallo, i più valorosi fra i Persiani, gli servivan di guardia; ed il Governatore romano di Dara saviamente ricusò di ammettere nella città più di venti individui di questa marziale ed ostil carovana. Poscia che Isdiguno ebbe salutato l'Imperatore ed offerto i suoi doni, passò dieci mesi in Costantinopoli senza discutere alcun serio affare. In luogo di esser confinato nel suo palazzo, e ricevervi il cibo e l'acqua dalle mani de' suoi custodi, l'Ambasciatore persiano, senza spie e senza guardie, ebbe permissione di girar per la capitale; e la libertà di parlare e di trafficare che i suoi serventi godevano, offendeva i pregiudizj di un secolo che rigorosamente senza confidenza e senza cortesia praticava la legge delle nazioni89. Per un'indulgenza senza esempio il suo interprete, il quale era nella classe dei servi ed al di sotto degli sguardi di un magistrato romano, sedeva alla mensa di Giustiniano al fianco del suo signore, e si assegnarono mille libbre d'oro per la spesa del viaggio e pel mantenimento di questo pomposo Ambasciatore. Nondimeno le iterate cure di Isdiguno, non condussero che una parziale ed imperfetta tregua, sempre comprata coi tesori e rinnovata a preghiere della Corte di Bisanzio. Trascorsero molti anni d'inutile desolazione, prima che Giustiniano e Cosroe fossero astretti, dalla mutua stanchezza, a consultare il riposo dell'età loro che tramontava. Si tenne una conferenza sulle frontiere, in cui ambedue le parti, senza aspettarsi d'esser creduto, vantarono la potenza, la giustizia e le pacifiche intenzioni dei rispettivi loro Sovrani; ma la necessità e l'interesse dettarono il trattato di pace, che fu conchiuso per un termine di cinquant'anni. Esso diligentemente fu composto in lingua greca e persiana, ed i sigilli di dodici interpreti ne attestarono l'autenticità. Si stabilì e si definì la libertà del traffico e della religione; gli alleati dell'Imperatore e quelli del Gran Re furono chiamati a parte degli stessi benefizj e doveri; e si pigliarono le più scrupolose precauzioni onde prevenire e determinare le dispute accidentali, che potessero insorgere sui confini delle due nazioni nemiche. Dopo vent'anni di guerra distruttiva, ma debolmente spinta, i limiti rimasero quali erano prima; e Cosroe s'indusse a rinunziare le sue pericolose pretensioni al possesso od alla sovranità della Colchide e degli Stati che ne dipendevano. Ricco per gli accumulati tesori dell'Oriente, egli trasse ancora dai Romani un annuo pagamento di trentamila monete d'oro; e la picciolezza della somma lasciava scorgere il disonor di un tributo in tutta la sua nuda laidezza. In un dibattimento anteriore, uno dei ministri di Giustiniano, rammentando il carro di Sesostri e la ruota della fortuna, fece avvertire che la presa d'Antiochia e di alcune città della Siria aveva esaltato oltre misura il vano ed ambizioso animo dei Barbari. «T'inganni, replicò il modesto Persiano: il Re dei Re, il Signore degli uomini guarda con disprezzo così miseri acquisti; e delle dieci nazioni, domate dalle invincibili armi, egli considera i Romani come i men formidabili90». Secondo gli Orientali, l'impero di Nushirvan si estendeva da Fergana nella Transoxiana, sino all'Yemen, o l'Arabia felice. Egli soggiogò i ribelli dell'Ircania, conquistò le province di Cabul e di Zadlestan sulle rive dell'Indo, ruppe la potenza degli Eutaliti, terminò con onorevole accordo la guerra de' Turchi, ed ammise la figlia del Gran Cane nel numero delle sue legittime mogli. Vittorioso e rispettato fra i Principi dell'Asia, egli dava udienza nella sua Reggia di Madain o Ctesifonte, agli Ambasciatori del mondo. I loro doni o tributi, di armi, di ricche vesti, di gemme, di schiavi e di aromi, umilmente venivano deposti al piè del suo trono; ed egli condiscendeva ad accettare dal Re dell'Indie dieci quintali di legno d'aloe, una fanciulla alta sette cubiti ed un tappeto più soffice della seta, formato, come essi narrano, colla pelle di uno straordinario serpente91.

Si è rimproverata a Giustiniano l'alleanza da lui stretta cogli Etiopi, come se tentato egli avesse d'introdurre un popolo di Negri selvaggi nel sistema della società incivilita. Ma gli amici del romano Impero, gli Axumiti ed Abissini, si debbono sempre distinguere dai nativi originali dell'Affrica92. La mano della natura ha schiacciato il naso dei Negri, ha coperto di crespa lana il lor capo, e colorato la lor pelle d'inerente e indelebil nerezza. Ma la carnagione olivastra degli Abissini, la chioma, le forme e le fattezze loro, distintamente in essi dimostrano una colonia di Arabi; e questa discendenza vien confermata dalla rassomiglianza della lingua e dei costumi, dalla memoria di un'antica emigrazione, e dal piccolo intervallo che corre tra gli opposti lidi del Mar Rosso. Il Cristianesimo avea sollevato quella nazione sopra il livello della barbarie affricana93: le relazioni loro coll'Egitto e coi successori di Costantino94 avean fatto passare nel lor paese i rudimenti delle arti e delle scienze. Trafficavano i lor vassalli coll'isola di Ceilan95, e sette regni obbedivano al Nego o Principe supremo dell'Abissinia. L'indipendenza degli Omeriti che regnavano nella ricca e felice Arabia, fu per la prima volta violata da un conquistatore etiope: egli traeva il suo ereditario diritto dalla Regina di Sheba96, ed il religioso zelo santificava la sua ambizione. Gli Ebrei, potenti ed attivi nell'esilio, avevano sedotto l'animo di Dunaan, Principe degli Omeriti. Essi lo spinsero a far rappresaglia della persecuzione che le leggi imperiali esercitavano contra i loro sventurati fratelli: alcuni mercatanti romani furono oltraggiosamente trattati, e parecchi Cristiani di Negra97 ottennero gli onori e la corona del martirio98. Le chiese dell'Arabia implorarono la protezione del Monarca Abissino. Il Nego passò il Mar Rosso con una flotta ed un esercito, privò il Proselito giudaico del regno e della vita, ed estinse una stirpe di principi che avea governato per più di duemila anni la segregata regione della mirra e dell'incenso. Il Conquistatore immediatamente annunziò la vittoria del Vangelo: egli domandò un Patriarca ortodosso, e così caldamente si mostrò amico del romano Impero, che Giustiniano fa allettato dalla speranza di condurre il commercio della seta pel canale dell'Abissinia, e di suscitare le forze dell'Arabia contro il Re persiano. Nonnoso, discendente da una famiglia di ambasciatori, fu nominato dall'Imperatore ad eseguire questa importante commissione. Giudiziosamente egli evitò la più breve, ma più pericolosa strada attraverso gli arenosi deserti della Nubia; salì contro il corso del Nilo, s'imbarcò sul Mar Rosso, ed approdò sano e salvo nel porto affricano di Aduli. Da Aduli alla reale città di Axuma non si stendono più di cinquanta leghe in linea retta; ma i giri e rigiri dei monti ritennero per quindici giorni l'ambasciatore; e nel passare ch'egli fece per le foreste, vide una quantità di elefanti selvaggi, che stimò ascendere a forse cinquemila. Vasta e popolosa, secondo ch'ei narra, era la capitale, ed il villaggio di Axuma è cospicuo tuttora per l'incoronazione dei Re, per le rovine di un tempio cristiano, e per sedici o diciassette obelischi che portano iscrizioni greche99. Ma il Nego gli diede udienza in campo aperto. Sedeva egli sopra un altero carro, tratto da quattro elefanti, magnificamente guerniti: una corona di nobili e di musici gli stava all'intorno. Vestito era di panni lini, con berretta sul capo, e teneva in mano due giavellotti ed un piccolo scudo; e quantunque la sua nudità fosse imperfettamente coperta, egli sfoggiava la barbarica pompa di auree catene, di monili e di armille, riccamente adornate di perle e di pietre preziose. L'Oratore di Giustiniano piegò a terra i ginocchi; il Nego lo rialzò dal suolo, abbracciò Nonnoso, baciò il sigillo, lesse la lettera, accettò l'alleanza romana, e brandendo le sue armi, intimò guerra implacabile contro gli adoratori del fuoco. Ma la proposizione intorno al commercio della seta non andò al segno, e malgrado le proteste, e forse i desiderii degli Abissini, le minacce ostili si dileguarono senza verun effetto. Gli Omeriti non eran punto vogliosi di togliersi dagli aromatici loro boschetti, per valicare un sabbioso deserto, ed incontrar dopo tante fatiche una formidabil nazione da cui non avevan mai ricevuto alcuna personale offesa. Invece di estendere le sue conquiste, il Re di Etiopia non fu abile a difendere i suoi possessi. Abrahah, schiavo d'un mercante romano stabilito in Aduli, si appropriò lo scettro degli Omeriti; le truppe dell'Affrica restarono sedotte dalle delizie del clima; e Giustiniano richiese l'amicizia dell'Usurpatore, il quale onorò, con un tenue tributo, la supremazia del suo Principe. Dopo una lunga serie di prosperità, la potenza di Abrahah andò sossopra innanzi alle porte di Mecca; il Conquistatore persiano spogliò del retaggio i suoi figli, e gli Etiopi furono finalmente cacciati dal continente dell'Asia. Questo racconto di avvenimenti oscuri e remoti non è straniero al declino ed alla caduta del romano Impero. Se la potenza cristiana si fosse mantenuta nell'Arabia, Maometto sarebbe stato spento nella sua culla, e l'Abissinia avrebbe impedito una rivoluzione che ha mutato di aspetto lo stato civile e religioso del mondo100.

 

CAPITOLO XLIII

Ribellioni d'Affrica. Restaurazione del regno de' Goti, per opera di Totila. Perdita e riacquisto di Roma. Conquista definitiva dell'Italia, fatta da Narsete. Estinzione degli Ostrogoti. Disfatta de' Franchi e degli Alemanni. Ultima vittoria; disgrazia, e morte di Belisario. Morte e carattere di Giustiniano. Cometa, terremoti e pestilenza.

La rassegna a cui furono passate le varie nazioni dal Danubio al Nilo, ha posto in luce per ogni parte la debolezza dei Romani, e ragionevolmente ci possiamo maravigliare ch'essi pretendessero di allargare un Impero, del quale non potevano difendere gli antichi confini. Ma le guerre, le conquiste ed i trionfi di Giustiniano sono i deboli e perniciosi sforzi della vecchiaja, che esaurisce gli avanzi della sua forza ed accelera la decadenza delle vitali facoltà. Lieto e superbo egli andava di aver restituito l'Affrica e l'Italia al dominio della Repubblica; ma le calamità che seguiron la partenza di Belisario, diedero a divedere l'importanza del Conquistatore, e compirono la rovina di queste sventurate contrade.

Giustiniano era venuto in opinione che le sue nuove conquiste dovessero riccamente soddisfare la sua avarizia non men che il suo orgoglio. Un rapace ministro delle Finanze teneva dietro ai passi di Belisario, e siccome i vecchi registri de' tributi erano stati arsi dai Vandali, egli dava pascolo alla sua fantasia con un computo liberale ed un'arbitraria tassazione delle ricchezze dell'Affrica.101 L'accrescimento delle imposte ch'erano levate per conto di un Principe lontano, e la forzata restituzione di tutte le terre che avevano appartenuto alla corona, subitamente fece sparir l'ebbrietà della pubblica gioja. Ma l'Imperatore mostrossi insensibile alle modeste lagnanze del Popolo, finchè fu desto ed atterrito dai clamori del militare disgusto. Molti soldati Romani avevano sposate le vedove e le figlie dei Vandali: essi richiamarono come proprj, pel doppio diritto della conquista e della eredità, i terreni che Genserico aveva assegnati alle vittoriose sue truppe. Con disdegno ascoltarono le fredde ed interessate rappresentazioni dei loro uffiziali che ad essi esponevano, come la liberalità di Giustiniano gli aveva sollevati da uno stato selvaggio e da una servil condizione; che s'erano di già arricchiti colle spoglie dell'Affrica, coi tesori, cogli schiavi e colle masserizie dei vinti Barbari: e che l'antico e legittimo patrimonio dell'Imperatore non doveva applicarsi che al sostegno di quel Governo, dal quale in ultimo dipendevano la sicurezza e le ricompense loro. L'ammutinamento fu in segreto infiammato da un migliaio di soldati, per la maggior parte Eruli, che avevano attinto le dottrine, ed erano instigati dal Clero della setta Arriana: e la causa dello spergiuro e della ribellione veniva santificata dal fanatismo che si arroga la facoltà di dispensare da ogni dovere. Gli Arriani deplorarono la rovina della lor Chiesa che per più di un secolo aveva trionfato nell'Affrica, e giustamente erano adontati per le leggi del Conquistatore, che proibivano il Battesimo dei loro figliuoli e l'esercizio di ogni Culto religioso. La massima parte dei Vandali, scelti da Belisario, dimenticarono la loro patria e la lor religione negli onori dell'Orientale servizio. Ma una generosa schiera di quattrocento di loro costrinse i marinai, quando furono in vista dell'Isola di Lesbo, a volgere il corso altrove: essi approdarono nel Peloponneso, poi diedero in secco sopra la costa deserta dell'Affrica, ed audacemente rizzarono, sul monte Aurasio, la bandiera dell'indipendenza e della rivolta. Nel tempo che le truppe della provincia ricusavano di obbedire ai loro superiori, in Cartagine si tramava una congiura contro la vita di Salomone, il quale onorevolmente teneva il luogo di Belisario: e gli Arriani avevano piamente deliberato di sacrificare il Tiranno al piede degli altari, durante la celebrazione degli augusti misteri della festa di Pasqua. Il timore ed il rimorso rattenne i pugnali degli assassini, ma la pazienza di Salomone porse ardire ai malcontenti, ed in capo a dieci giorni, si accese nel Circo una sedizione furiosa, che desolò l'Affrica per più di dieci anni. Il saccheggio delle città e l'indistinto scempio de' suoi abitatori, non furono sospesi che dalle tenebre, dal sonno e dall'ubbriachezza: il Governatore con sette compagni, tra quali era lo storico Procopio, se ne fuggì in Sicilia. Due terzi dell'esercito parteciparono di questo tradimento, ed ottomila sollevati radunatisi nei campo di Bulla, elessero per loro Capo Soza, soldato semplice che possedeva in altissimo grado le virtù di un ribelle. Sotto la maschera della libertà, la sua eloquenza sapeva guidare od almeno sospingere le passioni de' suoi eguali. Egli alzossi a livello di Belisario e del nipote dell'Imperatore coll'ardire ch'ebbe di affrontargli in campo; ed i vittoriosi Generali furono costretti a confessare che Soza meritava una causa più pura ed un più legittimo comando. Vinto in battaglia, egli destramente pose in pratica le arti della negoziazione; un esercito Romano fu sedotto dalle sue proteste di fedeltà, ed i Capi che si eran fidati alle sue fallaci promesse, caddero trucidati, per suo ordine, in una Chiesa di Numidia. Allorchè ogni ripiego sì di forza che di perfidia fu esausto, Soza con alcuni Vandali disperati si riparò nei deserti della Mauritania, ottenne in isposa la figlia di un Principe Barbaro, e deluse i nemici che lo inseguivano col far girar un falso grido della sua morte. La personale autorità di Belisario, la dignità, l'ardire e l'indole di Germano, nipote dell'Imperatore, ed il rigore ed il buon successo della amministrazione dell'eunuco Salomone restituirono la modestia nel Campo e mantennero per un tempo la tranquillità dell'Affrica. Ma i vizj della Corte Bizantina si facevano sentire in quella distante provincia; i soldati si lamentavano di non ricevere nè paga, nè soccorso, e tosto che i disordini pubblici furono abbastanza maturi, Soza ricomparve vivo, in armi ed alle porte di Cartagine. Egli cadde in un singolare cimento; ma sorrise, fra le agonie della morte, nel sentire che il proprio dardo aveva traspassato il cuore del suo antagonista. L'esempio di Soza e la sicurezza che un soldato felice è stato il primo Re, commossero l'ambizione di Gontari, il quale promise con privato accordo di spartir l'Affrica coi Mori, se mercè del loro pericoloso ajuto egli poteva ascendere al trono di Cartagine. Il debole Areobindo, inesperto negli affari della pace e della guerra, mediante il suo matrimonio colla nipote di Giustiniano venne innalzato all'uffizio di Esarca. All'improvviso egli fu oppresso da una sedizione delle guardie, e le abbiette sue suppliche, che provocarono il disprezzo, non poteron muovere la pietà dell'inesorabil Tiranno. Dopo un regno di trenta giorni, Gontari istesso fu spento in un banchetto dal coltello di Artabano; ed è singolare il vedere che un principe Armeno, della stirpe reale degli Arsaci dovesse ristabilire in Cartagine l'autorità del romano Impero. Nella cospirazione che sguainò il pugnale di Bruto contro la vita di Cesare, ogni circostanza riesce curiosa ed importante agli occhi della posterità: ma la reità od il merito di questi leali o ribelli assassinj non poteva interessare che i contemporanei di Procopio, i quali dalla speranza o dal timore, dall'amicizia o dal risentimento erano personalmente impegnati nelle rivoluzioni dell'Affrica102.

 

Quella contrada andava rapidamente ricadendo nello stato di barbarie d'onde l'avevano tratta le colonie fenicie e le leggi romane: ogni passo d'intestina discordia era contrassegnato da qualche deplorabili vittoria degli uomini selvaggi sopra la società incivilita. I Mori103, tutto che ignorasser la giustizia, impazientemente però comportavano l'oppressione: la vagabonda lor vita e gl'illimitati deserti in cui abitavano, inutili rendevano le armi di un conquistatore, e ne allontanavano le catene: l'esperienza aveva dimostrato che nè i giuramenti nè la gratitudine potevano assicurare la fedeltà loro. La vittoria del monte Aurasio gli aveva tratti a piegarsi ad una momentanea sommissione; ma se rispettavano il carattere di Salomone, essi odiavano e disprezzavano l'orgoglio e la lussuria dei due suoi nipoti, Ciro e Sergio, ai quali lo zio aveva imprudentemente commesso i Governi provinciali di Tripoli e della Pentapoli. Una tribù di Mori accampava sotto le mura di Lepti per rinnovar l'alleanza, e ricevere dal Governatore i consueti presenti: ottanta de' lor deputati furono introdotti come amici nella città, ma sull'oscuro sospetto di una cospirazione; essi vennero trucidati alla mensa di Sergio, e lo strepito delle armi e della vendetta fu ripercosso dall'eco delle valli del Monte Atlante, dalle due Sirti sino alle rive dell'Oceano Atlantico. Un'offesa personale, l'ingiusta esecuzione o l'assassinio di suo fratello, fece di Antalo un nemico dei Romani.

La sconfitta dei Vandali aveva altre volte segnalato il suo valore; i principj della giustizia e della prudenza furono anche più riguardevoli in un Moro. E mentre egli riduceva Adrumeto in cenere, tranquillamente avvertiva l'Imperatore che si poteva assicurare la pace dell'Affrica col richiamo di Salomone e de' suoi indegni nipoti. L'Esarca trasse le sue truppe fuori di Cartagine: ma alla distanza di sei giornate, nelle vicinanze di Tebeste104, stupefatto soffermossi all'aspetto delle superiori forze e del fiero aspetto de' Barbari. Egli propose un trattato, cercò una riconciliazione, e chiese di vincolarsi coi più solenni giuramenti. «Con quali giuramenti può egli obbligarsi?» interruppero i Mori sdegnati. «Giurerà forse pei Vangeli che sono i libri divini dei Cristiani? È però su questi libri che Sergio suo nipote aveva impegnato la fede ad ottanta dei nostri innocenti e sfortunati fratelli. Prima che noi crediamo una seconda volta a' Vangeli, noi dobbiamo provare la loro efficacia nel punir lo spergiuro e vendicar il proprio onore vilipeso». Il loro onore fu vendicato nei Campi di Tebeste con la morte di Salomone, e l'intera perdita del suo esercito. L'arrivo di nuove truppe e di più abili condottieri tosto represse l'insolenza dei Mori; caddero diciassette dei loro Principi nella stessa battaglia, e la dubbia e passaggera sommissione delle loro Tribù venne celebrata con esuberante applauso dal Popolo di Costantinopoli. Varie successive incursioni avevano ridotto la Provincia dell'Affrica ad un terzo dell'estensione dell'Italia; tuttavia gl'Imperatori Romani continuarono a regnare per più di un secolo sopra Cartagine e la fertile costa del Mediterraneo. Ma le vittorie e le perdite di Giustiniano tornavano egualmente di danno all'uman genere; e tale era la desolazione dell'Affrica, che in molte parti uno straniero poteva per giorni interi andare errando intorno, senza incontrare il volto di un amico o di un nemico. La nazione dei Vandali era scomparsa: essi una volta ammontavano a cento e sessantamila guerrieri, senza contare le donne, i fanciulli e gli schiavi. Infinitamente era sorpassato il lor numero dal numero delle famiglie Moresche, spente in una guerra implacabile, e la stessa distruzione ricadeva sopra i Romani ed i loro alleati, che perivano per l'effetto del clima, per le scambievoli loro contese, e pel furibondo odio dei Barbari. Quando Procopio prese terra la prima volta, egli ammirò come le Città e le campagne erano piene di Popolo, che fervidamente si esercitava nei lavori del commercio e dell'agricoltura. In meno di venti anni questa scena di vita e di moto trasformossi in una solitudine silenziosa; i Cittadini facoltosi fuggirono in Sicilia ed a Costantinopoli; e lo Storico segreto con fiducia asserisce che cinque milioni di Affricani eran periti per colpa delle guerre e del governo dell'Imperator Giustiniano105.

La gelosia della Corte di Bisanzio non aveva permesso a Belisario di condurre a fine la conquista dell'Italia: e la improvvisa partenza di lui raccese il coraggio dei Goti106, i quali rispettavano il suo genio, la sua virtù, e perfino il lodevol motivo che aveva tratto il servo di Giustiniano ad ingannarli ed a rigettar i lor voti. Perduto essi avevano il lor Re, (perdita di poco momento) la loro Capitale, i loro tesori, le province, dalla Sicilia alle Alpi, e la forza militare di dugentomila Barbari, magnificamente forniti di armi e cavalli. Nondimeno ogni cosa non era perduta, fin tanto che Pavia si manteneva difesa da un migliajo di Goti inspirati dal sentimento dell'onore, dall'amore della libertà, e dalla memoria della lor passata grandezza. Il comando supremo fu per unanime voto offerto al valoroso Uraja; e i disastri del suo zio Vitige non apparvero un motivo di esclusione fuor solo che agli occhi suoi. Il suffragio di Uraja fece pendere l'elezione in favore di Ildibaldo, il cui merito personale veniva esaltato dalla vana speranza che Teude, suo congiunto, Monarca della Spagna, s'indurrebbe a sostenere il comune interesse della nazione dei Goti. Il buon successo delle sue armi nella Liguria e nella Venezia parea giustificarne la scelta; ma egli tosto mostrò al Mondo ch'era incapace di perdonare, o di comandare al suo benefattore. La moglie d'Ildibaldo fu profondamente punta dalla bellezza, dai tesori e dall'orgoglio della moglie di Uraja; e la morte di questo virtuoso patriotta eccitò l'indegnazione di un Popolo libero. Un ardito assassino eseguì la loro sentenza, col troncar il capo d'Ildibaldo nel mezzo di un convito: i Rugi, tribù forestiera, assunse i privilegj dell'elezione; e Totila, nipote dell'ultimo re, fu tentato, per vendetta, di dar sè stesso e la guarnigione di Trevigi in mano ai Romani. Ma il prode e compito giovane agevolmente fu persuaso ad anteporre il trono dei Goti al servizio di Giustiniano, e tosto che il palazzo di Pavia fu purgato dall'usurpatore eletto dai Rugi, Totila ricompose la forza nazionale con cinquemila soldati e generosamente si accinse alla ristorazione del Regno d'Italia.

I successori di Belisario, undici Generali uguali nel grado, trascurarono di opprimere i deboli e disuniti Goti, sintanto che i progressi di Totila ed i rimproveri di Giustiniano gli scossero dal loro letargo. Le porte di Verona furono segretamente aperte ad Artabazo che entrovvi alla testa di cento Persiani che militavano al servizio dell'Impero. I Goti sgombrarono dalla città. I Generali romani fecero alto alla distanza di sessanta stadj per regolare lo spartimento delle spoglie. Mentre essi non andavano d'accordo fra loro, il nemico discoprì il numero reale dei vincitori. I Persiani furono immediatamente sopraffatti, ed Artabazo, col saltar giù dalle mura, salvò a stento la vita, ch'egli perdè pochi giorni dopo sotto la lancia di un Barbaro da lui disfidato a singolare tenzone. Venti mila Romani affrontarono le forze di Totila, presso Faenza, e sui colli di Mugello, che appartengono al territorio fiorentino. L'ardore d'uomini liberi che combattevano per ricuperar la lor patria, venne a cimento colla languida tempra di truppe mercenarie che erano perfino prive dei meriti di un forte e ben disciplinato servaggio. Al primo scontro queste abbandonarono le loro insegne, gettarono a terra le armi, e si dispersero da ogni banda con una viva sollecitudine che sminuì la perdita, ma aggravò la vergogna della loro disfatta. Il Re dei Goti, che arrossiva per la codardia de' suoi nemici, seguitò con rapidi passi il cammino dell'onore e della vittoria. Totila passò il Po, valicò l'Appennino, differì l'importante conquista di Ravenna, di Fiorenza e di Roma, e marciò pel cuore dell'Italia a stringere Napoli di assedio, o per meglio dire di blocco. I Condottieri romani, imprigionati nelle rispettive loro città, ed intesi ad accusarsi vicendevolmente fra loro della comune disgrazia, non ardirono di perturbar la sua impresa. Ma l'Imperatore, intimorito per l'estremità ed il pericolo in cui erano le sue conquiste d'Italia, mandò in soccorso di Napoli una flotta di galee, ed un corpo di soldati Traci ed Armeni. Questi approdarono in Sicilia, che li fornì di provvisioni copiose; ma gl'indugj del nuovo comandante, Magistrato che nulla sapeva di guerra, trassero in lungo i mali degli assediati; ed i soccorsi ch'egli lasciò cadere con mano timida e tarda, furono successivamente tagliati fuori dalle navi armate che Totila aveva posto in crociera nel golfo di Napoli. Il principale uffizial dei Romani fu trascinato con una corda intorno il collo al piè delle mura, d'onde con tremante voce esortò i Cittadini ad implorare, come faceva egli stesso, la clemenza del vincitore. Essi chiesero una tregua, colla promessa di arrendere la città, se in capo a trenta giorni non appariva alcun soccorso efficace. In luogo di un mese l'audace Barbaro volle concederne tre, giustamente, confidando che la fame avrebbe anticipato il termine del loro accordo: Prese ch'ebbe Napoli e Roma, le Province di Lucania, dell'Apulia e di Calabria si sottomisero al Re dei Goti. Totila condusse il suo esercito alle porte di Roma, piantò il Campo a Tibur o Tivoli, venti miglia distante dalla Capitale, e tranquillamente esortò il Senato ed il Popolo a paragonare la tirannia de' Greci colla felicità di cui godevano sotto il governo dei Goti.

I rapidi successi di Totila possono in parte esser ascritti alla rivoluzione che tre anni di esperienza avevan prodotto nei sentimenti degli Italiani. Per comando od almeno in nome di un Imperatore Cattolico, il Papa107, lor padre spirituale, era stato divelto dalla chiesa di Roma ed era morto di fame o di assassinio in un'Isola deserta108. Alle virtù di Belisario erano succeduti i varj, ed uniformi vizj di undici Capi, a Roma, a Ravenna, a Fiorenza, a Perugia, a Spoleto ecc. i quali abusavano dell'autorità per appagare la libidine e l'avarizia loro. La cura di accrescere i prodotti del fisco era commessa ad Alessandro, scriba sottile, da lungo tempo versato nelle frodi e nelle oppressioni delle scuole di Bisanzio e che traeva il suo soprannome di Psalliction (Le forbici) dal destro artifizio in cui sapeva ridurre il peso senza109 guastare il conio delle monete d'oro. In vece di aspettare che rifiorisse la pace e l'industria, egli impose una grave tassa sopra le sostanze degli Italiani. Nondimeno le sue presenti e future angherie riuscirono meno odiose che il proseguimento di un arbitrario rigore contro le persone e le proprietà di quanti avessero, sotto i Re Goti, avuto parte nell'esazione o nella spesa del pubblico denaro. I sudditi di Giustiniano, che scansavano queste parziali vessazioni, venivano oppressi dall'irregolar peso di mantenere i soldati che Alessandro frodava e disprezzava; ed il furioso correre di costoro in cerca di ricchezze o di viveri, provocava gli abitatori del Paese ad aspettare, od implorare dalle virtù di un Barbaro la loro liberazione. Totila110 era casto e temperante, e di quanti si commisero alla sua fede, od amici o nemici, nessuno rimase ingannato. Il Re Goto pubblicò un bando che fu ben ricevuto dai contadini dell'Italia, col quale imponeva che continuassero nei loro importanti lavori, e vivessero sicuri che pagando essi le tasse ordinarie, egli col suo valore e colla disciplina delle sue truppe li difenderebbe dalle calamità della guerra. Totila attaccò, una dopo l'altra, le città forti, e tosto che si erano arrese alle sue armi, ne demoliva le fortificazioni, onde salvare il Popolo dai disastri di un assedio futuro, privare i Romani dell'arti della difesa, e decidere la tediosa contesa delle due nazioni, mediante un eguale ed onorevol conflitto sul campo della battaglia. I prigionieri e disertori romani si lasciavano trarre ad arrolarsi nel servizio di un avversario liberale e cortese. Gli schiavi furono adescati colla ferma e fedele promessa che mai non verrebbero restituiti ai loro padroni, e dai mille guerrieri di Pavia si formò insensibilmente, nel Campo di Totila, un nuovo popolo collo stesso nome di Goti. Sinceramente egli tenne gli articoli dell'accordo, senza cercare od accettare alcun sinistro vantaggio da espressioni ambigue, o da eventi non preveduti. La guarnigione di Napoli aveva stipulato che sarebbe trasportata per mare; l'ostinazione dei venti impedì quel tragitto; ma essa fu generosamente provvista di cavalli, di provvisioni e di un salvocondotto fino alle porte di Roma. Le mogli dei Senatori ch'erano state sorprese nelle ville della Campania, furono restituite senza riscatto ai loro mariti, la violazione della castità femminile fu inesorabilmente punita di morte; e nella dieta salutare che impose ai Napolitani affamati, il Conquistatore sostenne le parti di un medico umano ed attento. Le virtù di Totila meritano un'egual lode, sia che procedessero da sana politica, o da principi di Religione, o da istinto di umanità. Egli spesso arringava le sue truppe, e sempre ad esse ripeteva che i vizj e la rovina di una nazione sono cose inseparabilmente congiunte; che la vittoria è il frutto della morale, non meno che della militare virtù, e che i Principi ed anche i Popoli sono risponsabili dei delitti che trascurano di castigare.

89Procopio espone l'usanza della Corte gotica di Ravenna (Goth. l. 1 c. 7). Gli Ambasciatori stranieri sono stati trattati con gelosia e rigor non diverso in Turchia (Busbechio, ep. 3 p. 149, 242 ecc.), in Russia (Viaggio di Oleario), e nella China (Relazione del sig. di Lange ne' viaggi di Bell, vol. 2 p. 189-311).
90Le pratiche ed i trattati tra Giustiniano e Cosroe si spiegano copiosamente da Procopio (Persic. l. 2 c. 10, 13, 26, 27, 28. Goth. l. 2 c. 11, 15), da Agatia (l. 4 p. 141, 142) e da Menandro (in Excerpt. Legat. p. 132-147). Si consulti Barbeyrac, Hist. des anciens Traités, t. 2 p. 154, 181-184, 193-200.
91D'Herbelot, Bibliot. Orient. p. 680, 681, 294, 295.
92Vedi Buffon, Hist. Natur. t. 3 p. 449. La forma dei lineamenti arabi, ed il colore della lor pelle, che han durato per 3400 anni (Ludolph. Hist. et Comment. Æthiop. l. 1 c. 4) nella colonia dell'Abissinia, può giustificare il sospetto, che la razza ugualmente che il clima abbiano contribuito a formare i Negri delle regioni adiacenti e simili fra loro.
93I Missionari portoghesi, Alvarez (Ramusio, t. 1 f. 204 rect. 274 vers.), Bermudez (Purcha's Pilgrims, vol. 2 l. V c. 7 p. 1149-1188), Lobo (Relation etc. par M. Legrand, con XV Dissertazioni. Parigi 1728) e Tellez (Relation de Thévenot, part. IV) non han potuto riferire della moderna Abissinia che quanto essi hanno veduto od inventato. L'erudizione di Ludolfo (Hist. Ætiop. Francoforte, 1681, Commentario, 1691. Append. 1694) in venticinque lingue, non potè aggiungere gran cosa all'istoria antica di quel paese. Non pertanto la fama di Caled od Ellisteo, conquistatore dell'Yemen, vien celebrata in canti nazionali e in leggende.
94Le negoziazioni di Giustino cogli Axumiti o Etiopi son ricordate da Procopio (Persic. l. 1 c. 19, 20) e da Giovanni Malala (t. 2 p. 163-165, 193-196). L'istorico di Antiochia cita la relazione originale dell'ambasciatore Nonnoso, della quale un curioso estratto ci venne serbato da Fozio (Bibl. Cod. 3).
95Il commercio degli Axumiti sulle coste dell'India e dell'Affrica e nell'isola di Ceilan, è curiosamente descritto da Cosma Indicopleuste (Topogr. Christ. l. 2 p. 132, 138, 139, 140, l. 11 p. 338, 339).
96Ludolfo, Hist. et Comment. Æthiop. l. 2 c. 3.
97La città di Negra, o Nag'ran, nell'Yemen, è circondata da palme, e giace sulla strada maestra fra la capitale Saana e la Mecca; distante dieci giornate di una carovana di cammelli dalla prima, e venti dalla seconda (Abulfeda, Descript. Arabiae, p. 52).
98Il martirio di S. Areta, Principe di Negra, e de' suoi trecento e quaranta compagni, è abbellito nelle leggende di Metafraste e di Niceforo Callisto, copiato dal Baronio (A. D. 522, n. 22-26. A. D. 523, n. 16-29), ed è confutato, con oscura diligenza dal Basnagio (Hist. des Juifs, t. 12 l. 8 c. 2 p. 333-348), il quale investiga lo stato degli Ebrei nell'Arabia e nell'Etiopia.
99Alvarez (in Ramusio, t. I f. 219 vers. 221 vers.) vide il florido stato di Axuma nell'anno 1520, luogo molto buono e grande. Axuma cadde in rovina per un'invasione de' Turchi. Non rimangono ora più di 100 case; ma la rimembranza della sua passata grandezza vien tuttavia serbata dall'incoronazione dei Re (Ludolfo, Hist. et Comment. l. 2 c. 11).
100Le rivoluzioni dell'Yemen nel sesto secolo si debbono raccogliere da Procopio (Persic. l. I c. 19, 20), da Teofane Bizantino (apud Phot. cod. 63 p. 80), da S. Teofane (in Chronograph. p. 144, 145, 188, 189, 206, 207, ch'è piena di strani abbagli), da Pocock (Specimen Hist. Arab. p. 62, 63), da D'Herbelot (Bibliot. Orient. p. 12-477) e dal Discorso preliminare e Corano di Sale (c. 105). La rivolta di Abrahah è ricordata da Procopio; e la sua caduta, benchè annuvolata da miracoli, è un fatto istorico.
101Per le turbolenze dell'Affrica, io non ho, nè desidero di aver altra guida fuorchè Procopio, il qual vide co' proprj occhi i memorabili avvenimenti de' suoi tempi, o ne raccolse colle proprie orecchie il racconto. Nel secondo libro della guerra Vandalica, egli narra la ribellione di Stoza (c. 12-24), il ritorno di Belisario (c. 15), la vittoria di Germano (c. 16, 17, 18), la seconda amministrazione di Salomone (c. 19, 20, 21), il governo di Sergio (c. 22, 23), di Areobindo (c. 24), la tirannia e morte di Gontari (c. 25, 26, 27, 28); nè posso discernere alcun segno di adulazione o di malevolenza nei suoi diversi ritratti.
102Non posso però ricusargli il merito di pingere, con vivaci colori, l'assassinio di Gontari. Uno degli uccisori manifestò sensi non indegni di un cittadino romano: «Se io fallisco, disse Artasire, il primo colpo, uccidetemi immediatamente, affinchè le torture non abbiano da strapparmi di bocca la confessione de' miei complici».
103Le guerre contro i Mori sono per occasione introdotte nel racconto di Procopio (Vandal. l. II c. 19, 23, 25, 27, 28. Gothic. l. IV c. 17); e Teofane aggiunge alcuni avvenimenti, prosperi ed avversi, che si riferiscono agli ultimi anni di Giustiniano.
104Ora Tibesh nel regno d'Algeri. È bagnata dal fiume Sujerass, che cade nella Mejerda (Bagradas). Tibesh è tuttora osservabile per le sue mura di grosse pietre, simili a quelle del Coliseo di Roma, e per una fontana ed un boschetto di castagni: la contrada è fertile, ed i vicini Bereberi sono una guerriera tribù. Si chiarisce da un'iscrizione, che sotto il regno di Adriano, la strada da Cartagine a Tebeste, fu costruita dalla terza legione (Marmoll. Description de l'Afrique, tom. II p. 442, 443. Shaw's Travels, p. 64, 65, 66).
105Procopio, Aneddoti, c. 18. La serie della storia affricana attesta questa malinconica verità.
106Nel secondo (c. 50) e nel terzo libro (c. 1-40) Procopio continua l'istoria della guerra gotica dal quinto sino al decimoquinto anno di Giustiniano. Siccome gli eventi sono meno importanti che nel primo periodo, il suo racconto occupa metà dello spazio per un tempo del doppio maggiore. Giornande e la Cronica di Marcellino ci somministrano qualche altro lume. Il Sigonio, il Pagi, il Muratori, il Mascou ed il Buat porgono soccorsi di cui ho profittato.
107Silverio, vescovo di Roma, fu da principio trasportato a Patara, nella Licia, e finalmente fatto morire di fame (sub eorum custodia inedia confectus) nell'isola di Palmaria, A. D. 538, mese di giugno (Liberat. in Breviar. c. 22. Anastasius, in Sylverio. Baronius. A. D. 540 n. 2, 3. Pagi, in Vit. Pont. Tom. I pag. 285, 286). Procopio (Aneddoti, c. 1) accusa soltanto l'Imperatrice ed Antonina.
108Palmaria, isoletta che giace dirimpetto a Terracina, ed alla costa dei Volsci (Cluver. Ital. Antiq. 1. III c. 7 p. 1024).
109Siccome il Logoteta Alessandro e la maggior parte de' suoi colleghi civili e militari erano caduti in disgrazia o in disprezzo, l'Autore degli Aneddoti (c. 4, 5, 18) non adopera colori molto più neri che nell'istoria Gotica (l. III c. 1, 3, 4, 9, 20, 21, ecc.).
110Procopio (l. III c. 2, 8 ecc.) rende giustizia ampia e spontanea al merito di Totila. Gli storici Romani, da Sallustio e Tacito in poi, si compiacevano nel dimenticare i vizj dei loro concittadini, riguardando alle virtù dei Barbari.