Buch lesen: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2»
CAPITOLO XI
Regno di Claudio. Disfatta dei Goti. Vittorie, trionfo e morte di Aureliano
Sotto i deplorabili regni di Valeriano e di Gallieno, l'Impero fu oppresso e quasi distrutto dai Soldati, dai Tiranni e dai Barbari. Lo salvò una serie di gran Principi, che traevano un'oscura origine dalle marziali province dell'Illirico. Nel giro di quasi trenta anni Claudio, Aureliano, Probo, Diocleziano, ed i suoi colleghi trionfarono degli stranieri e de' domestici nemici dello Stato; ristabilirono la militar disciplina, la forza delle frontiere, e meritarono il glorioso titolo di Ristauratori del Mondo Romano.
La caduta di un effemminato tiranno aprì la strada ad una successione di Eroi. L'indignazione del popolo imputava a Gallieno tutte le sue calamità; e la maggior parte, invero, erano conseguenze de' suoi costumi e della indolente sua condotta nel governo. Era privo perfino del sentimento di onore, che supplisce sì spesso alla mancanza della pubblica virtù; e finchè potè godere il possesso dell'Italia, una vittoria riportata dai Barbari, la perdita di una provincia, o la ribellione di un Generale, raramente disturbò il tranquillo corso de' suoi piaceri. Finalmente un esercito considerabile, accampato sul Danubio superiore, rivestì della porpora Imperiale il suo condottiero Aureolo, che sdegnando un angusto ed infecondo regno sulle montagne della Rezia, passò le Alpi, occupò Milano, minacciò Roma, e sfidò Gallieno a disputare in campo la sovranità dell'Italia. Provocato dall'insulto l'Imperatore, ed intimorito dall'imminente pericolo, subitamente mostrò quell'ascoso vigore, che qualche volta si manifestava a traverso l'indolenza del suo carattere. Staccatosi con violenza dagli agi del palazzo, comparve armato in fronte alle sue legioni, e si avanzò ad incontrare di là dal Po il suo competitore. Il corrotto nome di Pontirolo1 conserva ancora la memoria di un ponte sull'Adda, che, durante l'azione, debbe essere stato un oggetto della maggiore importanza per ambo gli eserciti. Il Retico usurpatore, dopo aver ricevuto una totale disfatta ed una pericolosa ferita, si ritirò in Milano. Ne fu immediatamente formato l'assedio; furon le mura battute con ogni macchina dagli antichi usata; ed Aureolo, incerto della interna sua forza, e senza speranza di straniero soccorso, si presagì fin d'allora le funeste conseguenze di una inutile ribellione.
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L'ultimo suo espediente fu un tentativo di sedurre la lealtà degli assediatori. Sparse pel loro campo de' libelli, ne' quali invitava le truppe ad abbandonare un indegno Sovrano, che sacrificava al suo lusso la pubblica felicità, e le vite dei suoi più stimabili sudditi ai più leggieri sospetti. Gli artifizj di Aureolo diffusero i timori, gli scontenti tra i principali Uffiziali del suo rivale. Una cospirazione fu tramata da Eracliano Prefetto del Pretorio, da Marciano Generale di alto grado e di riputazione, e da Cecrope, che comandava un numeroso corpo di guardie dalmatine. La morte di Gallieno fu risoluta, e non ostante il lor desiderio di prima terminare l'assedio di Milano, l'estremo pericolo, che accompagnava ogni momento d'indugio, gli obbligò ad affrettare l'esecuzione del loro ardito disegno. Sull'ultim'ora della notte, mentre l'Imperatore tuttavia prolungava i piaceri della tavola, gli fu portata improvvisamente la nuova, che Aureolo, alla testa di tutte le sue forze, avea fatta dalla città una disperata sortita; Gallieno, che non mancò mai di valor personale, balzò dal suo serico letto, e senza frappor dimora per armarsi o per adunar le sue guardie, montò a cavallo, e corse veloce al luogo del supposto assalto. Circondato dai suoi dichiarati o nascosti nemici, in mezzo al tumulto notturno ricevè ben presto un colpo mortale da incerta mano. Prima di spirare, un sentimento di patriottismo, risvegliatosi nell'animo di Gallieno, lo indusse a nominare un degno successore, e l'ultima sua domanda fu che si dessero gli ornamenti imperiali a Claudio, che allora comandava un corpo staccato d'armata nelle vicinanze di Pavia. Almeno questa voce fu diligentemente propagata, e l'ordine con piacere eseguito dai congiurati, i quali avevan di già convenuto di metter Claudio sul trono. Alla prima nuova della morte dell'Imperatore, mostrarono le truppe qualche sospetto e risentimento, finchè l'uno fu dissipato, e l'altro addolcito con un donativo di venti monete d'oro ad ogni soldato. Ratificarono essi allora l'elezione, e riconobbero il merito del loro nuovo Sovrano2.
L'oscurità, che ricopriva l'origine di Claudio, benchè fosse di poi abbellita da alcune adulatrici finzioni3, manifesta abbastanza la bassezza della sua nascita. Questo solamente si può sapere, ch'egli era nativo di una delle Province confinanti col Danubio; che la sua gioventù fu consumata tra l'armi, e che il suo modesto valore meritò il favore e la confidenza di Decio. Il Senato ed il Popolo già lo consideravano come un eccellente Uffiziale, degno dei più importanti impieghi; e censurarono la disattenzione di Valeriano, che lo teneva nel posto subordinato di Tribuno. Ma distinse non molto dopo quell'Imperatore il merito di Claudio, dichiarandolo primo Generale della frontiera Illirica col comando di tutte le truppe nella Tracia, nella Mesia, nella Dacia, nella Pannonia e nella Dalmazia, collo stipendio del Prefetto dell'Egitto, con gli onori del Proconsole dell'Affrica, e con la sicura speranza del Consolato. Per le sue vittorie sopra i Goti egli meritò dal Senato l'onore di una statua, ed eccitò i gelosi timori di Gallieno. Era impossibile che un soldato stimar potesse un Sovrano così dissoluto, ed un giusto disprezzo si può difficilmente celare. Alcune imprudenti espressioni proferite da Claudio, furono officiosamente riportate a Gallieno. La risposta dell'Imperatore ad un Uffiziale di confidenza, dipinge al vivo il carattere di lui e quello dei tempi. «Niente vi è che dar mi possa un più serio disgusto che la notizia contenuta nell'ultimo vostro dispaccio4; che alcune maligne suggestioni abbiano indisposto contro noi l'animo del nostro amico e Padre Claudio. Per quella fedeltà che ci dovete, usate ogni mezzo per quietare il suo risentimento, ma conducete l'affare con secretezza; non venga questo a notizia dei soldati della Dacia; sono essi già provocati, e ciò potrebbe infiammare il loro furore. Io stesso ho mandati a lui alcuni doni; sia vostra cura ch'egli con piacere li accetti. Sopra tutto fate ch'ei non sospetti ch'io sono informato della sua imprudenza. Il timor del mio sdegno potrebbe indurlo a disperate risoluzioni»5. I doni che accompagnavano questa umile lettera, colla quale il Monarca, procurava di riconciliare a sè il malcontento suo suddito, consistevano in una considerabil somma di danaro, in abiti magnifici ed in un ricco vasellame d'oro e d'argento. Con tali arti Gallieno addolcì lo sdegno, e dissipò i timori del suo illirico Generale; ed in tutto il rimanente di quel regno fu la formidabile spada di Claudio sempre sguainata per la causa di un Sovrano da lui disprezzato. Vero è, ch'egli ricevè finalmente dai congiurati l'insanguinata porpora di Gallieno; ma egli era stato lontano dal loro campo e dai loro consigli; e benchè forse lodasse il fatto, possiamo francamente presumere, ch'egli non fosse reo di alcuna antecedente notizia6. Quando Claudio salì sul trono, era quasi nell'età di cinquantaquattr'anni.
L'assedio di Milano fu tuttavia continuato, ed Aureolo presto si avvide, che i suoi artifizj non avevano avuto altro successo che di suscitargli un più risoluto avversario. Tentò egli di aprire con Claudio un trattato di alleanza e di divisione. «Ditegli» (replicò l'intrepido Imperatore) «che se tali proposizioni fossero state fatte a Gallieno, egli forse le avrebbe pazientemente ascoltate, ed avrebbe accettato un collega disprezzabile al pari di lui7.» Questo duro rifiuto, ed un ultimo infelice sforzo obbligarono Aureole a rendersi con la città alla discrezione del vincitore. Il giudizio dell'esercito lo dichiarò degno di morte, e Claudio, dopo una debole resistenza, consentì che fosse la sentenza eseguita. Nè lo zelo dei Senatori fu meno ardente per la causa del loro nuovo Sovrano. Ratificarono forse con un sincero trasporto d'animo l'elezione di Claudio, e siccome il Predecessore si era mostrato personal nemico del loro ordine, così esercitarono sotto il velo della giustizia una severa vendetta contro gli amici o la famiglia di lui. Fu permesso al Senato di addossarsi l'odioso uffizio del castigo, e l'Imperatore si riservò il piacere ed il merito di ottener con la sua intercessione un atto di generale perdono8.
Questa ostentata clemenza mostra meno il vero carattere di Claudio di quel che il faccia una frivola circostanza, nella qual sembra ch'egli abbia obbedito ai dettami del suo cuore. Le frequenti ribellioni delle province avevano involto quasi ogni persona nel reato di tradimento, quasi ogni patrimonio nel caso di confiscazione, e Gallieno spesso mostrava la sua liberalità distribuendo tra i suoi uffiziali i beni dei sudditi. All'avvenimento di Claudio, una vecchia donna si gettò a' suoi piedi, lagnandosi che ad un Generale dell'ultimo Imperatore era stato arbitrariamente donato il di lei patrimonio. Questo Generale era Claudio stesso, che non era rimasto interamente illeso dalla corruzione dei tempi. Arrossì l'Imperatore a questo rimprovero, ma si mostrò degno della confidenza che quella avea avuta nella sua giustizia. La confessione del suo fallo fu accompagnata da una subita ed ampia restituzione9.
Nell'arduo impegno, che Claudio aveva preso di ristabilire l'Impero nel suo antico splendore, era prima necessario di ravvivare tra le sue truppe un sentimento d'ordine e di obbedienza. Con l'autorità di un veterano Comandante, rappresentò loro, che il rilassamento della disciplina avea introdotta una lunga serie di disordini, dei quali finalmente i soldati stessi provavan gli effetti; che un popolo rovinato dall'oppressione, e indolente per la disperazione, non potea più lungamente somministrare ad un numeroso esercito il mantenimento non che le spese di lusso; che il pericolo di ogni individuo era cresciuto col dispotismo dell'ordine militare, poichè i Sovrani, che tremavan sul trono, provvedevano alla loro salvezza col pronto sacrifizio di ogni suddito colpevole. L'Imperatore si estese su i mali di uno sregolato capriccio, che i soldati potean soddisfare soltanto a spese del proprio sangue; giacchè le sediziose loro elezioni eran così spesso state accompagnate dalle guerre civili, che consumavano il fiore delle legioni o sul campo di battaglia o nel crudele abuso della vittoria. Dipinse egli coi più vivi colori lo stato dell'esausto tesoro, la desolazione delle province, il disonore del nome Romano, e l'insolente trionfo dei rapaci Barbari. Contro questi Barbari adunque egli dichiarò di voler dirigere il primo sforzo delle loro armi. Regnasse pur Tetrico per qualche tempo in Occidente, e conservasse pure Zenobia il dominio dell'Oriente10; questi usurpatori erano suoi personali nemici: nè potea egli pensare a soddisfare alcun privato risentimento, finchè salvato non avesse un Impero, la cui imminente rovina avrebbe (non essendo a tempo prevenuta) oppresso e l'esercito e il popolo.
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Le varie nazioni della Germania e della Sarmazia, che combattevano sotto le gotiche insegne, avevan già raccolta un'armata più formidabile di qualunque altra che mai fosse uscita dall'Eusino. Sulle rive del Niester, uno dei gran fiumi che sboccano in quel mare, essi costruirono una flotta di duemila o veramente di seimila vascelli11, numero, che per incredibil che possa sembrare, non sarebbe stato bastante a trasportare la loro pretesa armata di trecentoventimila Barbari. Qualunque esser potesse la forza reale dei Goti, il vigore ed il successo della spedizione non furono adeguati alla grandezza dei preparativi. Nel loro passaggio pel Bosforo gl'inesperti piloti furon vinti dalla violenza della corrente; e mentre la moltitudine dei loro vascelli era ristretta in un angusto canale, molti si ruppero urtando l'uno contro l'altro o contro la terra. Fecero i Barbari alcune discese sopra varie coste dell'Europa e dell'Asia, ma l'aperto paese era stato già devastato, ed essi furono con vergogna e perdita rispinti da molte fortificate città. Si sparse nella flotta lo sbigottimento e la divisione, e molti dei loro capi fecero vela verso l'isole di Creta e di Cipro; ma il grosso dell'armata, seguitando un corso più costante, si ancorò finalmente vicino alle falde del monte Atos, ed assalì la città di Tessalonica, opulenta capitale di tutte le province della Macedonia. I loro assalti, nei quali mostravano un feroce ma sregolato valore, furono presto interrotti dal rapido avvicinarsi di Claudio, che si affrettava ad una scena d'azione degna della presenza di un Principe bellicoso, alla testa di tutte le rimanenti forze dell'Impero. Non volendo sopportar la battaglia, i Goti levarono subito il campo, abbandonarono l'assedio di Tessalonica; e lasciando le loro navi al piede del monte Atos, traversarono le colline della Macedonia, e si spinsero avanti ad assalire l'ultima difesa dell'Italia.
Abbiamo ancora una lettera originale scritta da Claudio in questa memorabile occasione al Senato ed al Popolo. «Padri coscritti (scrive l'Imperatore) sappiate che trecentoventimila Goti hanno invaso il territorio romano. Se io vinco, la vostra gratitudine ricompenserà i miei servigi. Se cado, rammentatevi che sono successor di Gallieno. L'intera Repubblica è affaticata ed esausta di forze. Combatteremo dopo Valeriano, dopo Ingenuo, Regilliano, Lolliano, Postumo, Gelso, e mille altri che un giusto disprezzo per Gallieno spinse alla sedizione. Noi manchiamo di dardi, di lance e di scudi. La forza dell'Impero, la Gallia e la Spagna sono usurpate da Tetrico, e con rossore confessiamo che gli arcieri dell'Oriente servono sotto le insegne di Zenobia. Qualunque impresa facciamo, sarà questa grande abbastanza12.» Lo stile malinconico e risoluto di questa lettera annunzia un Eroe che non cura il suo fato, conosce il pericolo, ma ricava però dai suoi propri talenti una ben fondata speranza.
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L'evento superò l'espettazione di lui e quella del Mondo. Colle più segnalate vittorie liberò l'Impero da quell'esercito di Barbari, e fu distinto dalla posterità colla gloriosa denominazione di Claudio Gotico. Le storie imperfette di una guerra irregolare13 non ci forniscono materiali bastanti per descrivere l'ordine e le circostanze delle imprese di lui; ma se ci fosse permessa una somigliante espressione, distribuir potremmo in tre atti questa memorabil tragedia. I. La decisiva battaglia fu data vicino a Naisso, città della Dardania. A principio le legioni diedero in volta, oppresse dal numero, e disanimate dalle loro sventure. Inevitabile era la rovina loro, se non avesse l'abilità dell'Imperatore preparato un opportuno soccorso. Un grosso distaccamento di soldati, uscendo dai secreti e difficili passi delle montagne, che per ordine di lui avevan occupati, assalì improvvisamente la retroguardia dei vittoriosi Goti. L'attività di Claudio profittò del favorevol momento. Rianimò egli il coraggio delle sue truppe, riordinò le lor file, ed incalzò i Barbari da ogni parte. Narrasi che fossero cinquantamila uomini uccisi nella battaglia di Naisso. Vari numerosi corpi di Barbari, coprendo la loro ritirata con una mobile fortificazione di carriaggi, si ritirarono, o piuttosto fuggirono da quel campo di strage. II. Possiamo presumere che qualche insuperabile difficoltà, forse la stanchezza, forse la disubbidienza dei vincitori, non permettesse a Claudio di compire in un giorno la distruzione dei Goti. La guerra si sparse per le province della Mesia, della Tracia e della Macedonia, e le sue operazioni si ridussero a varie mosse, e sorprese, e tumultuari combattimenti sì per mare che per terra. Quando i Romani soffrirono qualche perdita, ordinariamente ciò avvenne o per la loro codardia o per la loro temerità; ma i superiori talenti dell'Imperatore, la sua perfetta pratica dei paesi, e la giudiziosa sua scelta de' provvedimenti e degli Uffiziali, assicurarono in moltissime occasioni il buon successo delle sue armi. L'immenso bottino, frutto di tante vittorie, consisteva la maggior parte in bestiami e schiavi. Uno scelto corpo della gotica gioventù venne ricevuto nelle truppe Imperiali; fu il rimanente venduto in ischiavitù; e fu il numero delle donne prigioniere tanto considerabile, che n'ebbe ogni soldato due o tre per sua parte: circostanza dalla quale si può concludere, che gl'invasori aveano qualche disegno di stabilirsi, non meno che di saccheggiare; giacchè in una navale spedizione ancora erano accompagnati dalle loro famiglie. III. La perdita della lor flotta, che fu o presa o sommersa, aveva impedita la ritirata dei Goti. I Romani avendo formato un vasto cerchio di posti, distribuiti con arte, sostenuti con coraggio, e che si ristringevano a poco a poco verso un centro comune, forzarono i Barbari a ritirarsi nelle più inaccessibili parti del monte Emo, dove trovarono un sicuro rifugio, ma una sussistenza assai scarsa. Nel corso di un rigoroso verno, nel quale furono assediati dalle truppe dell'Imperatore, la fame e la peste, la diserzione e la spada continuamente diminuirono quella imprigionata moltitudine. Al ritorno della primavera, non comparve in arme che una feroce e disperata truppa, residuo di quell'oste possente, che si era imbarcata alla foce del Niester.
La peste, che tanti Barbari uccise, divenne finalmente fatale al lor vincitore. Dopo un breve ma glorioso regno di due anni, Claudio morì in Sirmio, in mezzo alle lagrime ed alle acclamazioni de' sudditi. Nell'ultima sua malattia convocò i principali Ministri dello Stato e dell'esercito, e in lor presenza raccomandò Aureliano, uno dei suoi Generali, come il più degno del trono, ed il più atto ad eseguir il gran disegno, ch'egli stesso avea potuto soltanto intraprendere. Le virtù di Claudio, il suo valore, l'affabilità14, la giustizia e la temperanza, il suo amor per la gloria e per la patria lo pongono nel piccol numero di quegl'Imperatori, che aggiunsero lustro alla Romana porpora. Queste virtù per altro furono celebrate con particolar zelo e compiacenza dai cortigiani Scrittori del secolo di Costantino, il quale era bisnipote di Crispo, fratello maggiore di Claudio. La voce dell'adulazione imparò presto a ripetere, che gli Dei, i quali avean così frettolosamente tolto Claudio alla terra, ricompensarono il suo merito e la sua pietà perpetuando l'Impero nella sua famiglia15.
Non ostante questi oracoli, la grandezza dei Flavj (nome che a loro piacque di assumere) fu differita per più di vent'anni, e lo stesso innalzamento di Claudio cagionò l'immediata rovina del suo fratello Quintilio, il quale non ebbe moderazione o coraggio bastante per discendere nella privata condizione, a cui lo avea condannato il patriottismo dell'ultimo Imperatore. Senza indugio o riflessione egli prese la porpora in Aquileia, dove comandava forze considerabili; e benchè il suo regno durasse diciassette giorni soltanto, egli ebbe tempo di ottenere la sanzione del Senato, e di provare una sedizion delle truppe. Appena egli seppe che la grande armata del Danubio avea conferita l'autorità Imperiale al ben conosciuto valor di Aureliano, si sentì vinto dalla gloria e dal merito del suo rivale, e facendosi aprire le vene, prudentemente si ritirò dalla ineguale contesa16.
Il general disegno di quest'opera non ci permette di minutamente riferire le azioni di ogni Imperatore dopo il suo avvenimento al trono, molto meno di rintracciare le varie fortune della sua vita privata. Osserveremo soltanto che il padre di Aureliano era un contadino del territorio di Sirmio, il quale occupava una piccola tenuta appartenente ad Aurelio, ricco Senatore. Il bellicoso suo figlio, arrolato nelle truppe come soldato comune, divenne successivamente centurione, tribuno, prefetto di una legione, ispettore del campo, generale, ovvero (come allor si chiamava) duce di una frontiera; e finalmente nella guerra Gotica esercitò l'importante uffizio di primo comandante della cavalleria. In ogni grado si distinse per l'impareggiabil valore17, per la rigida disciplina, e per una fortunata condotta. Fu egli rivestito del Consolato dall'Imperator Valeriano, che lo chiama, nel pomposo linguaggio di quel secolo, il liberatore dell'Illirico, il ristauratore della Gallia, ed il rivale degli Scipioni. Per la raccomandazione di Valeriano, un Senatore del grado e del merito più cospicuo, Ulpio Crinito, il cui sangue derivava dalla stessa sorgente di quel di Traiano, adottò il contadino della Pannonia, diedegli in matrimonio la sua figlia, e sollevò con l'ampio suo patrimonio l'onorata povertà, che Aureliano avea mantenuta inviolata18.
Il regno di Aureliano durò solamente quattr'anni e quasi nove mesi; ma ogni momento di quel corto periodo fu illustrato da qualche memorabil prodezza. Egli terminò la guerra Gotica, castigò i Germani che invadevano l'Italia, ricuperò la Gallia, la Spagna, la Britannia dalle mani di Tetrico, e distrusse la superba monarchia, che Zenobia avea nell'Oriente innalzata sulle rovine dell'afflitto Impero.
Dovè Aureliano la continua fortuna delle sue armi alla rigorosa attenzione posta agli articoli anche più minuti della disciplina. I suoi militari regolamenti sono contenuti in una lettera assai concisa ad un subalterno Uffiziale, al quale comanda di porli in vigore, se desidera di divenir tribuno, o se gli è cara la vita. Il giuoco, il bere, e le arti della divinazione erano severamente proibite. Aureliano pretendeva che i suoi soldati fossero modesti, frugali e laboriosi; che sempre si mantenesser lucenti le loro armi, aguzze le spade, pronti i vestiti e i cavalli all'immediato servizio; che vivessero nei loro quartieri con castità e sobrietà, senza danneggiare i campi di grano, senza rubare neppure una pecora, un volatile, un grappolo di uva, senza esigere dai loro ospiti nè sale, nè olio, nè legna. «La pubblica paga (continua l'Imperatore) è bastante al loro sostentamento; le ricchezze debbono ricavarsi dalle spoglie de' nemici e non dal pianto dei Provinciali19.» Un solo esempio servirà a mostrare il rigore, anzi la crudeltà di Aureliano. Un soldato avea sedotta la moglie del proprio ospite. Fu il misero colpevole legato a due alberi, che piegati a forza l'uno con l'altro, e di poi violentemente separandosi, stracciarono le di lui membra. Pochi consimili esempi impressero una salutevol costernazione. I castighi di Aureliano eran terribili, ma raramente ebbe occasione di punire due volte uno stesso delitto. La sua propria condotta dava la sanzione alle sue leggi, e le sediziose legioni temevano un Capo, che aveva imparato ad ubbidire, ed era degno di comandare.
La morte di Claudio avea rianimato il languente spirito dei Goti. Le truppe, che difendevano i passi del monte Emo e le rive del Danubio, erano state richiamate pel timore di una guerra civile, e sembra probabile, che il rimanente corpo delle Tribù Gotiche e Vandaliche, abbracciando la favorevole occasione, abbandonasse i suoi stabilimenti dell'Ucrania, attraversasse i fiumi, ed accrescesse con nuova moltitudine la devastatrice armata de' suoi concittadini. Le loro truppe, riunite, furono alfine incontrate da Aureliano, ed il sanguinoso e dubbio conflitto finì solamente col venir della notte20. Spossati per tante calamità da loro vicendevolmente date e sofferte in una guerra di vent'anni, i Goti ed i Romani acconsentirono ad un durevole ed util trattato. Fu questo premurosamente richiesto dai Barbari, e con piacere ratificato dalle legioni, al voto delle quali il prudente Aureliano commise lo scioglimento di quella importante questione. Si obbligarono i Goti a fornire agli eserciti Romani un corpo di cavalleria di duemila ausiliari, e stipularono in contraccambio una sicura e tranquilla ritirata con un regolare mandato fino al Danubio, provveduto dalla cura dell'Imperatore, ma a lor proprie spese. Fu il trattato osservato con tanta religiosità, che quando una truppa di cinquecento uomini si staccò dal campo per far delle prede, il Re, ovvero il Generale dei Barbari, domandò che fosse il colpevole condottiero preso e saettato a morte, come vittima consacrata alla santità de' loro trattati. È per altro verosimile, che la precauzione di Aureliano, il quale aveva ritenuto come ostaggi i figli e le figlie dei Gotici condottieri, contribuisse in qualche parte a questa pacifica disposizione. Egli educò i giovani all'esercizio dell'armi, e vicino alla sua propria persona; alle donzelle diede una liberale e romana educazione, e concedendole in matrimonio ad alcuni dei suoi principali Uffiziali, strinse a poco a poco le due nazioni coi più tenaci e cari legami21.
Ma la più importante condizione della pace fu piuttosto supposta che espressa nel trattato. Ritirò Aureliano le forze Romane dalla Dacia, e tacitamente abbandonò quella gran Provincia ai Goti ed ai Vandali22. Il suo maschio discernimento gli fe' conoscere i vantaggi reali, e gl'insegnò a disprezzare il disonore apparente del ristringere in tal guisa le frontiere della Monarchia. I sudditi Daci, rimossi da quelle terre lontane, ch'essi non sapean nè coltivar nè difendere, aggiunsero forza e popolazione alla parte meridionale del Danubio. Un fertile territorio, cangiato in deserto dalle replicate scorrerie dei Barbari, fu ceduto alla loro industria; ed una nuova provincia della Dacia conservò sempre la memoria delle conquiste di Traiano. Nella Dacia antica, per altro, rimase un considerabil numero di abitatori, ai quali più che un Goto Sovrano fece orrore l'esilio23. Questi degenerati Romani continuarono ad essere utili all'Impero, introducendo tra i lor vincitori le prime idee dell'agricoltura, le arti utili, ed i comodi della vita civile. Si stabilì a poco a poco una comunicazione di commercio e di lingua tra le opposte rive del Danubio; e la Dacia, divenuta indipendente, fu spesso l'argine più saldo dell'Impero contro le invasioni dei selvaggi del Settentrione. Un sentimento d'interesse legava all'alleanza di Roma questi Barbari inciviliti; ed un interesse costante si converte bene spesso in sincera ed utile amicizia. Questa mista colonia, che occupava l'antica provincia, e si era insensibilmente confusa in un popolo numeroso, riconosceva tuttavia il superior nome, o l'autorità della Gotica Tribù, e pretendeva l'immaginario onore di trarre dalla Scandinavia l'origine. Nel tempo stesso la fortunata, benchè casuale somiglianza del nome di Geti, infuse tra i creduli Goti una vana credenza, che nei tempi remoti i loro antenati, già stabiliti nelle province della Dacia, avessero ricevute le istruzioni di Zamolsi e represse le vittoriose armi di Sesostri e di Dario24.
Mentre la vigorosa e moderata condotta di Aureliano ristabiliva la frontiera dell'Illirico, gli Alemanni25 violarono le condizioni della pace o comprate da Gallieno o imposte da Claudio, ed animati dalla impaziente lor gioventù, corsero improvvisamente alle armi. Quarantamila cavalli26 e un doppio numero di fanti27 apparvero in campo. I primi oggetti della loro avarizia furono alcune poche città della Retica frontiera; ma presto crescendo col buon successo le loro speranze, sparsero gli Alemanni con rapida mossa la devastazione dalle rive del Danubio a quelle del Po28.
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L'Imperatore seppe quasi nel tempo stesso l'irruzione e la ritirata dei Barbari. Radunato un attivo corpo di truppe, marciò con silenzio e prestezza lungo l'Ercinia Foresta; e gli Alemanni, carichi delle spoglie dell'Italia, arrivarono al Danubio, non sospettando, che sull'opposta riva ed in un posto vantaggioso stesse celato un esercito Romano, disposto ad impedire il loro ritorno. Aureliano favorì la fatal confidenza dei Barbari, e lasciò che quasi metà delle lor forze passasse il fiume senza precauzione veruna. La situazione e la sorpresa loro gli procuravano una facil vittoria; e la sua ferma condotta ne accrebbe il vantaggio. Disponendo le legioni in forma di semicerchio, avanzò i due corni verso il Danubio, e volgendoli a un tratto verso il centro, circondò la retroguardia dei Germani. I Barbari smarriti, dovunque gettasser lo sguardo, vedevano con disperazione un paese deserto, un fiume rapido e profondo, ed un vittorioso ed implacabil nemico.
Ridotti a questa infelice condizione, non isdegnarono gli Alemanni di presto implorare la pace. Aureliano ricevè i loro Ambasciatori alla testa del suo campo, e con tutta la pompa marziale, che potesse mostrare la grandezza e la disciplina romana. Erano le legioni sulle armi in bene ordinate schiere ed in profondo silenzio. I principali Comandanti, distinti colle insegne del loro grado, stavano a cavallo dall'uno e dall'altro lato del trono Imperiale. Dietro al trono s'innalzavano sopra lunghe picche, coperte d'argento, le sacre immagini dell'Imperatore e de' suoi Predecessori29, le Aquile d'oro, ed i vari titoli delle legioni, a lettere d'oro scolpiti. Quando prese Aureliano il suo posto, il suo nobile portamento e la sua maestosa figura30 insegnarono ai Barbari a venerare la persona non meno che la porpora del lor vincitore. Caddero in silenzio gli ambasciatori al suolo prostesi. Fu ad essi ordinato di alzarsi e permesso di favellare. Coll'assistenza degl'interpreti estenuarono eglino la loro perfidia, ma giustificarono le loro imprese, si estesero sulle vicende della fortuna e su i vantaggi della pace, e con inopportuna confidenza richiesero un abbondante sussidio, quasi prezzo dell'alleanza, ch'essi offrivano ai Romani.
Fu la risposta dell'Imperatore aspra ed imperiosa. Trattò la loro offerta con disprezzo, e con indignazione la loro richiesta; rimproverò ai Barbari la loro ignoranza nelle arti della guerra e nelle leggi della pace, e finalmente li licenziò colla sola scelta di rendersi a discrezione, o di aspettare la maggior severità dal suo risentimento31. Aveva Aureliano restituita ai Goti una remota provincia; ma era pericoloso il fidarsi o il perdonare a que' perfidi Barbari, la cui formidabil potenza teneva l'Italia stessa in continui timori.