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(20) ARQUIN


– Ecco – disse Gost Baran. – Questi sono gli strumenti.

Da sotto il carro tirò fuori una cassetta di legno, appesa a un gancio. Gost Baran era l’uomo corpulento della sera prima. Aveva anche una folta barba rosso fulvo e il naso rosso violaceo. Era Tiranno, Buffone, Vecchio, Re, Fanfarone e Mangiafuoco. Era anche il capo della compagnia.

La cassetta conteneva: un martello dal manico spezzato, una sega arrugginita, una tenaglia con le ganasce sconnesse, uno scalpello spuntato, un trapano con la punta storta, un assortimento di chiodi usati.

– Non credo che potrò fare molto con questi – dissi io.

– Non vanno bene? – chiese Gost Baran sollevando le sopracciglia rosse e folte come la barba. Possedeva una voce profonda e minacciosa: non sapevo bene se era una cosa naturale, o se gli veniva da qualcuno dei suoi ruoli. Avevo l’impressione che i miei nuovi compagni recitassero sempre, come se i personaggi fossero entrati dentro di loro. Come, mi venne in mente, se vivessero una perenne Festa della Maschere.

Il fatto era che avevano trovato un ruolo anche per me. O più modestamente un lavoro: quello di falegname. Con degli attrezzi inservibili.

– Vedete, signore, questo per esempio non taglia – gli mostrai lo scalpello, passando un dito sulla lama. – E uno scalpello serve per tagliare il legno. Questa è storta – gli mostrai la punta del trapano. – Come può fare i buchi? E poi non c’è neppure una pialla...

Gost alzò le spalle. – Bah! Myrtilla ti darà una pietra per affilare. Un buon artigiano si ripara da solo i suoi attrezzi.

Myrtilla era la ragazza bionda. Servetta, Smorfiosa, Ingenua, Principessa, Scudiero, Garzone. Siccome era anche la cuoca, si occupava dei coltelli. In quel momento stava lavando le stoviglie. Eravamo fermi in una radura, poco lontano dalla strada. Durante il pranzo, avevano passato in rassegna le mie abilità, e avevano deciso che la cosa più utile che potessi fare era di occuparmi della manutenzione degli attrezzi di scena e del carro. Sarei anche potuto comparire sulla scena in qualche parte muta: si erano resi subito conto che come attore non avevo molta stoffa, ed ero troppo vecchio per imparare l’arte del giocoliere o del saltimbanco, a cui bisogna applicarsi fin da bambini.

Potevo anche mischiarmi al pubblico per applaudire, e molte altre cose che mi sarebbero state dette di volta in volta. Tutti lavori non indispensabili, nella rigorosa economia di una compagnia ambulante. Ma suppongo che Occhi di Gatto, o chi per lei, li avesse adeguatamente ricompensati.

– A Larissa potremo comprare gli attrezzi che ti mancano – disse Gost andandosene. Larissa era la nostra prossima, e per me prima, tappa. Gost se ne andò con passo maestoso: si esercitava nella parte del Re Grendel, protagonista della tragedia omonima, che avremmo recitato fra due sere. Avrebbero recitato, cioè.

Non avevo osato dire delle mie ambizioni di poeta: in parte perché temevo di non essere preso sul serio, in parte perché non ero sicuro che a loro servisse un poeta: sembravano recitare più che altro a soggetto.

Così andai da Myrtilla a prendere la pietra per affilare lo scalpello.

– Che te ne pare della tua nuova vita? – mi chiese il nano.

Io ero sdraiato sull’erba e scrutavo una nuvola a forma di muso di tigre, che si andava trasformando in un rospo.

– Non so... È appena cominciata – risposi a bassa voce. Gli altri dormivano sdraiati qua e là sull’erba o sul carro, dopo una notte parzialmente insonne. Per parte mia, non riuscivo a chiudere occhio. Era la prima volta che trascorrevo tanto tempo fuori dalle mura di Morraine.

Dumpy Dum si grattò il naso con le unghie del piede destro. Era lui quello che avevo scambiato per un bambino con la voce di adulto, e usava il piede per grattarsi perché in quel momento le mani gli servivano per tenersi ritto a testa in giù. Come gli altri, usava i momenti liberi per ripassarsi la parte.

– La nostra è la vita più bella che ci sia al mondo – dichiarò Dumpy Dum, che doveva essere un nome d’arte. Aveva i due bicipiti più grossi che avessi mai visto in vita mia, le guance con due pomelli rossi che non capivo bene se fossero dipinti, la barba bionda e rada.

– Che ha di bello ? – chiesi.

Dumpy Dum sollevò un braccio, rimanendo appoggiato sull’altro. – Dipende – disse. Non era la posizione adatta per lunghi discorsi.

– Da cosa?

Il nano tornò su due mani. – Prendi il mio caso. Nessuno ci trova qualcosa di strano in me, vedendomi su un palcoscenico. Anzi: mi applaudono. Nel mondo normale sarei compatito.

Nel mondo normale? In che razza di mondo vivevano gli attori? La conversazione languì, mentre Dumpy Dum eseguiva una serie di capriole. Per riposarsi si rimise sulle mani: per lui sembrava una posizione più naturale che starsene in piedi. Forse era anche naturale che vedesse il mondo al contrario.

– Ma nel caso di Gost? – chiesi. – O di Myrtilla? Vale anche per loro?

– Naturalmente! In che modo potrebbero essere Re o Principesse, altrimenti?

– Ma è solo una finzione.

Il nano alzò (cioè, abbassò) le spalle. – Un sacco di Re o Principesse lo sono per finta.

– Non per i loro sudditi.

– Ecco! Noi facciamo meno danni! Un altro punto di merito.

Non potei fare a meno di ridere. – Questo comunque non risolve il mio problema, visto che come attore sono un fallimento.

– E che ne sai? Hai mai provato davvero?

Oh, se avevo provato! – Sì... una volta.

– Be’, tutto si impara. Ci vuole tempo. – Dumpy Dum amava le sentenze, anche a costo di essere banale.

– Ma non tutti diventano attori.

– Perché mancano di costanza.

– Solo per questo?

Il nano eseguì qualche salto mortale all’indietro, forse per sfuggire alla domanda. Ma io continuai a guardarlo, in attesa, e alla fine rispose: – Molte cose sono necessarie per mettere in scena uno spettacolo, dal poeta che ha scritto la tragedia al falegname che costruisce il palco.

– Certo – non potei trattenermi. – Ma il falegname io lo facevo anche a Morraine.

Con un solo movimento del corpo Dumpy Dum si sedette e mi fissò negli occhi. – Tu non vieni da Morraine. Tu non hai mai abitato a Morraine. Ci sei stato solo di passaggio, insieme a noi. Tu sei nato sulla strada e vissuto sulla strada. Ricordatene sempre. E per non sbagliare la parte, fai come gli attori: ripassatela in continuazione, anche quando sei solo con noi cinque. E cerca di perdere quell’accento in fretta.

Rimase in silenzio qualche momento, poi aggiunse: – Il tuo nome d’ora in poi sarà Arquin. È il nome di un pagliaccio.

Detto questo, se ne andò.

– Sono un falegname – mormorai al nano. – Che ci faccio su un carro di attori? – Eravamo stesi sulle panche accostate della sala da pranzo di una locanda che si chiamava La Luna Nuova. Fra la mia schiena e il legno delle panche c’era un materasso che odorava del sudore di troppe persone, e chissà di cos’altro. Ma dopo di allora, ho dormito in posti peggiori.

La sala era immensa, e odorava a suo volta di fumo, di vino e del grasso colato sul fuoco. Nel camino c’erano abbastanza braci da durare fino al mattino. La luce rossastra mostrava le volte annerite, i tavoli con sopra ancora qualche bottiglia, le forme dei clienti addormentati sotto le coperte. La locanda possedeva anche delle stanze, al piano superiore, occupate dalle donne e da viaggiatori più danarosi.

– Ognuno ha la sua missione – disse Dumpy Dum con ponderosa banalità. Aveva bevuto non poco, e questo lo rendeva più sentenzioso del solito.

– Balle!

– Shh! Vuoi svegliare tutti?

– Questa missione non me la sono scelta io...

– Ragazzo, questo capita alla maggior parte degli uomini.

– ... me l’ha scelta Occhi di Gatto.

A voce ancora più bassa, Dumpy Dum disse: – È bene non parlare mai della Signora. Sotto qualsiasi nome.

Avrei voluto mettermi a piangere. Avrei voluto dire: “Voglio tornare a Morraine, voglio tornare a casa.” Solo la vergogna mi trattenne.

Restammo in silenzio a lungo, tanto che pensai che il mio compagno si fosse addormentato.

– Dumpy Dum? – sussurrai.

– Che vuoi?

– È vero che andremo sulla costa?

– Naturalmente. In autunno tornano i galeoni dalle rotte oceaniche. Le città sono piene di mariani e mercanti, con le tasche gonfie di soldi e una gran voglia di divertirsi.

– Hai mai conosciuto Lelius Abramus?

– Chi?

– Lelius Abramus. Ho visto un suo spettacolo, a Morraine. Teseius e Phenissa.

– Capisco.

Cosa avesse capito, non lo sapevo. Ma evidentemente non aveva intenzione di rispondermi. Quando lo chiamai di nuovo, doveva essersi addormentato.

(21) MYRTILLA


Gost Baran amava ragguagliare i membri della sua compagnia circa leggi, costumi e insidie della città in cui avrebbero recitato. Questo me lo confidò Myrtilla la mattina successiva, quando dopo colazione il nostro capocomico si alzò in piedi guardandoci con aria severa.

 

– Larissa – esordì – non è molto grande, né molto ricca, né molto bella. In compenso i suoi abitanti sono molto suscettibili, e perciò non è bene fare allusioni alla mediocrità della loro patria, neppure fra voi, caso mai doveste essere sentiti. Ma questo – concesse con un ampio gesto della mano – vale praticamente per tutte quelle città, cioè la maggior parte, che non sono molto grandi, ricche o belle, per cui non mi soffermerò sull’argomento, che ho citato solo a beneficio di chi si è unito a noi solo da poco. – Mi guardò inarcando le sopracciglia, ed io annuii prontamente.

– Ma alcune cose è bene rammentarle a tutti. – Contò sulla punta delle dita. – Innanzi tutto, guardatevi dall’ostentare indumenti verdi. Il verde è il colore della fazione politica attualmente in disgrazia a Larissa; i suoi capi sono stati cacciati in esilio, ma la fazione gialla, al potere in questo momento, sospetta che infiltrino agenti, spie, sobillatori. Secondo – qui guardò con evidenza Astrix Palemon, che affettò un’aria di assoluta indifferenza – evitate con cura di rispondere ai richiami e agli allettamenti, per quanto provocanti, delle donne che incontrerete: vi accuserebbero subito dopo di aver attentato al loro onore, troverebbero testimoni pronti a giurarlo, guardie disposte a crederci, giudici severi nel punire. Per farla breve: scoprireste di poter evitare la galera, o peggio – fece il segno di tagliare qualcosa – solo sborsando un’ingente somma di indennizzo.

Si toccò un quarto dito, e io rifeci mentalmente il conto. – Incontrando qualcuno per strada, se indossa un mantello rosso porpora cedetegli il passo alla sua destra se voi siete una donna; a sinistra se siete un uomo. Viceversa se indossa un berretto di panno azzurro con una piuma di fagiano. Ma spostatevi in ogni caso a sinistra se porta stivali di cuoio amaranto. Nell’incertezza, cambiate strada.

– Circa gli acquisti, Larissa è rinomata per i velluti, le lucerne in bronzo, la carne salata, gli orologi a pendolo, l’inchiostro ocra e le olive verdi in salamoia. Se pensate di aver bisogno di qualcuno fra questi articoli, il posto più conveniente è il mercato nella Piazza degli Incappucciati e nelle vie adiacenti.

Pensai che dei titoli in inchiostro ocra avrebbero ravvivato le mie carte, ma dubitavo che ne valesse la pena.

– Ah, un altro consiglio: è considerata una grave offesa grattarsi il naso mentre si parla con qualsivoglia persona.

Passeggiò un poco lisciandosi i baffi. – In ogni caso – terminò – resteremo a Larissa una sola notte. La passione dei suoi abitanti per il teatro non è grande. La tragedia che rappresenteremo, Re Grendel, è stata da me lievemente modificata in maniera da contenere alcune velate allusioni al tiranno del Partito Verde, cacciato durante l’insurrezione popolare dello scorso autunno. Il suo nome era Lektos Ly, e se doveste sentirne parlare, abbiate cura di mostrare i segni del più grande disprezzo, ad esempio sporgendo la lingua o sputando dietro la spalla destra.

"Mi premurerò personalmente di rendere note queste allusioni agli attuali reggenti della città, con la dovuta discrezione. Vi comunicherò a parte le modifiche da apportare, che non sono numerose né difficili, ma dovranno essere ricordate con esattezza. Spero in tal modo di attirare un pubblico sufficiente a ripagare in maniera adeguata gli sforzi di tutti voi. – Ci guardò con adeguata severità.

Questo discorso venne accolto dai miei compagni con moderato interesse, per non dire con una certa sopportazione. Nessuno di loro, presumibilmente, giungeva a Larissa per la prima volta, e per un attore che recita a soggetto qualche modifica nel canovaccio era cosa da poco.

Ma su di me, le parole di Gost ebbero un effetto profondo, principalmente per due ragioni. La prima, più ovvia, era la novità di quei costumi inauditi. Ripetevo nella mia mente le regole di etichetta, inquietanti in grazia della loro assoluta arbitrarietà.

Ma ancor più, mi dava motivo di pensare, lungo la strada polverosa che ci conduceva verso Larissa, un’altra parte del discorso di Baran: che una tragedia potesse in qualche maniera, che fino ad allora non avevo sospettato, rispecchiare un evento circoscritto e in fondo banale del tempo mondano, quale era la cacciata di un tiranno (ammesso che lo fosse). Questa idea apriva alla mia vista vertiginosi spazi di possibilità: che l’antico autore del Re Grendel (di cui si è perduto il nome) avesse previsto la fine ingloriosa di Lektos Ly; oppure che Ly fosse vissuto inconsapevole secondo un copione già scritto; o ancora che le storie dei tiranni fossero miserevolmente simili l’una all’altra, nella realtà e sulla scena; o infine (cosa più inquietante di tutte) che capocomici e reggenti di piccole città potessero servirsi arbitrariamente dei tesori della letteratura. Senza dubbio altre possibilità potrebbero essere formulate.

Avrei voluto parlarne con Dumpy Dum, ma il nano scelse la mattina e il carro per dormire. Come ho detto, aveva bevuto abbondantemente la sera prima.

Un vento inquieto spirava da sud. Tirai fuori dalla mia bisaccia le Tragiche Historie e rilessi con attenzione il canovaccio di Grendel, scrutando, senza giungere ad alcuna conclusione definitiva, le tracce che conducevano a Ly.

La giornata si era fatta calda e promettente. Per alleviare la noia del viaggio, i commedianti, ad eccezione di Dumpy Dum addormentato e di Gost Baran a cassetta (che aveva l’aria di meditare le sue modifiche), procedevano a piedi: Astrix Palemon immerso nei propri pensieri, Gertrid (che era la più matura e formosa delle nostre attrici) ripassava, muovendo le labbra, la parte della Regina Izaides; i viaggiatori che incontravamo lungo la strada ci guardavano con qualche perplessità o divertimento, e toccava a Myrtilla salutarli con un sorriso, al posto di tutti gli altri. Devo dire che se la cavava egregiamente.

Mi avvicinai a lei.

– Tu farai la parte della principessa Ergrid? – dissi con un tono che voleva essere di affermazione, ma che la timidezza trasformò in una domanda.

– Bravo! Conosci il teatro.

Era un ruolo tragico, quello di Ergrid: andata in sposa a Karmak, principe di Aquilania, la figlia di Grendel viene ripudiata dal marito quando fra i due regni scoppia una guerra, e muore di crepacuore in un monastero.

Lo mostrai il libro delle Historie. – L’ho letto qui.

– Oh! – Prese il libro. Sfogliò le pagine, che minacciavano di staccarsi delle cuciture. Aggrottò la fronte, muovendo le labbra: i gesti di chi è poco familiare con la scrittura. Mi resi conto che Myrtilla doveva sapere tutte le sue parti a memoria, e solo a memoria.

– Ci sono solo le tracce – spiegai.

Mi restituì il libro con un sorriso. In quel momento pensai che non aveva bisogno di leggere nessuna parte. Il sole e il cammino le avevano leggermente arrossato le guance.

– Che modifiche farete per Larissa? – chiesi dopo un po’.

– Ah, non mi riguardano! Una principessa che muore per amore non ha bisogno i modifiche... solo qualche parola in più, sulla crudeltà dei tiranni. – Alzò le spalle, che erano seminude. – “Uno sguardo di basilisco sarebbe per la mia anima un balsamo più dolce dei vostri discorsi assennati.”

Questo era degno dei Fiori!

– Ma che c’entra coi tiranni?

– È detto a Karmak, che mi scaccia.

– Come? – Rimasi confuso. – Non è Grendel il tiranno?

– Ma no! Per Larissa sarà Karmak. Grendel è un padre mosso alla vendetta dall’affronto recato alla figlia. Pare che Lektos Ly abbia ripudiato la moglie, che era figlia di un notabile, perché non gli dava figli maschi.

Proseguimmo in silenzio, mentre io meditavo sulla quasi miracolosa elasticità delle tragedie.

Dopo un po’ chiesi: – Hai mai recitato la parte di Phenissa? – Myrtilla scosse il capo. I capelli, che in quel momento non erano legati, le nascondevano il viso minuto, lasciando vedere solo la punta del naso.

– No, non è nel nostro repertorio. È troppo triste. E non è abbastanza tragica.

Rimasi confuso, per la seconda volta nel giro di pochi minuti.

Intuendo la mia confusione, lei rise.

– Il protagonista invecchia. Cosa c’è di più triste, e di meno tragico?

Non avevo mai considerato la cosa da quel punto di vista.

Dopo averci pensato un poco, dissi: – Io credo che la vera protagonista sia Phenissa, non Teseius.

– Davvero? – Sorrise. – Be’, prova a dirlo a Gost.

Non riuscii a capire se mi stava prendendo in giro.

Si frugò in una tasca della gonna e ne tirò fuori una losanga verde pallido, un dolce di qualche genere.

Me l’offrì sulla punta delle dita.

– Tieni. Per avermi fatto compagnia.

Mi prendeva per un bambino?

Quando lo afferrai fra le labbra, le sue dita mi sfiorarono la lingua. Il dolce sapeva di zenzero.

– Però, mi piacerebbe fare Phenissa...

(22) LARISSA


Giungemmo a Larissa verso mezzogiorno.

Io ero salito sul carro e scrutavo la città (la mia prima città, in un certo senso) da sotto il telone: un po’ a causa di tutti gli avvertimenti di Baran, ma soprattutto per un’angoscia che non osavo confessare a nessuno: quelle case, altissime, senza altre attorno che le reggessero, sembravano sul punto di rovinarmi addosso. Non riuscivo a capire come la gente osasse viverci dentro.

Non ebbi comunque modo di interrogarmi a lungo su questo argomento. Arrivammo in una piazza (che per me era una specie di cortile con dei buchi fra le case). Cominciammo a scaricare il carro, che conteneva una quantità quasi incredibile di oggetti. Doveva essere svuotato degli attrezzi teatrali, ma anche di tutto il resto, perché le sponde, disposte orizzontalmente, con appositi sostegni e opportuni prolungamenti, servivano anche da palcoscenico. Tutti sapevano cosa fare, tranne Arquin. Cioè io. Che non mi ero ancora abituato ad essere chiamato così, e le prime volte non rispondevo neppure.

Venimmo ben presto circondati da una piccola folla di ragazzini, passanti, oziosi e comari, che si divertivano a darci consigli inutili quanto irritanti. Qualche donna lanciò battute oblique all’indirizzo di Astrix, che ostentava un’aria di pensierosa malinconia.

Gost Baran ci lasciò quasi subito, e riapparve dopo un paio d’ore, a lavoro quasi terminato.

– Ho parlato con il Secondo Supervisore del Provveditorato alle Insegne e alle Opere Idrauliche. Mi ha concesso di apporre dei manifesti per il nostro spettacolo esattamente in quattordici incroci della città, che sono indicati su questa carta, sigillata e firmata. – Ci mostrò un foglio ripiegato con cura, che custodiva sotto il farsetto. – L’ho naturalmente ringraziato con le dovute maniere. – Ammiccò e strofinò l’indice della destra contro il pollice. – Mi ha inoltre assicurato che renderà noto il contenuto e l’intento della nostra rappresentazione ai notabili della città, in particolare all’Osservatore dei Costumi. Dobbiamo aspettarci un pubblico scelto, questa sera, e sarà indispensabile la più grande cura dei particolari. Pertanto: Gertrid, Astrix, Myrtilla, ascoltatemi con attenzione... – Fece cenno ai tre di seguirlo dietro il tendone che avevamo appena montato. Prima di sparire, si rivolse a me e a Dumpy Dum. – A voi, un compito di non minore responsabilità. – Tirò fuori da sotto il carro un baule. Dentro, vidi rotoli di carte rozze e ingiallite, di dimensioni diverse. Ne contò quattordici dal rotolo più grande. Erano manifesti, e dicevano:

La celebre compagnia di

GOST BARAN

presenta

Una tragedia di sangue & orrore,

di malvagità svelata & punita

Seguiva un largo spazio bianco.

Questa sera presso

 

Un secondo spazio.

Lo spettacolo sarà preceduto da

Musica, Danze, Canti & Pantomime

NON MANCATE!!

Da uno scomparto della cassa, Baran estrasse una boccetta di inchiostro nero e un pennellino.

– Tu sai scrivere – mi disse. – Il nome della tragedia lo conosci. Questo posto si chiama Foro delle Capre. Un nome poco dignitoso, ma quella di adattarsi è la prima virtù di chi esercita la nostra difficile arte. – Prese la carta del Secondo Supervisore, eccetera. – Questa è la licenza per appendere i manifesti. I luoghi sono esattamente indicati, ed è inutile che vi raccomandi il massimo scrupolo. Qualsiasi multa verrà sottratta dal vostro stipendio. – Consegnò la carta a Dumpy Dum, e raggiunse gli altri dietro il tendone.

– Quale stipendio? – chiesi a Dumpy Dum.

Il nano mi strizzò un occhio. – Un modo di dire.

Di dire cosa? Ma non feci altre domande. Presi inchiostro e pennello.

– Che caratteri devo usare? – chiesi stendendo i manifesti sul palco.

Dumpy Dum si grattò la testa. – Di solito noi usiamo un normale stampatello maiuscolo. Tu conosci qualcosa di meglio?

– A Mor... – Dumpy Dum mi mise una mano sulla bocca, e con l’altra mi tirò un orecchio. – ... Nei miei viaggi – mi corressi – ho appreso i dodici stili canonici: semplice, corsivo, floreale, uncinato, quadrato, atrabantico minore e maggiore...

Dumpy Dum alzò le braccia. – Basta, basta! Scegli il più adatto secondo il tuo giudizio.

Meditai un attimo. – Io opterei per un quadrato: è chiaro, leggibile da lontano... Magari leggermente uncinato nelle terminazioni... – Intinsi il pennello nell’inchiostro e mi misi senz’altro al lavoro, mentre Dumpy Dum mi guardava da sopra la spalla.

Ero giunto a metà dei manifesti, quando Gost Baran sporse la testa dal tendone. – Come? Ancora qui? Ad ogni momento che trascorre, chissà quanti cittadini di Larissa passano per la strada senza vedere i nostri manifesti! E chi può dire quanti di costoro sarebbero altrimenti venuti al nostro spettacolo?

Dumpy Dum gli fece cenno con la mano di avvicinarsi. Gost Baran esaminò i manifesti già completati. – Ah... – disse. – Certo, un lavoro ben fatto richiede tempo, e l’eleganza della forma è motivo di attrazione. Ma nelle cose umane, e in particolare in quelle del teatro, ottima cosa è contemperare varie esigenze. In una parola: affrettati. – Tornò dietro il tendone, e Dumpy Dum mi strizzò un occhio.

Completai il lavoro, arrotolai i manifesti e me li infilai sotto un braccio. Dumpy Dum prese pennello e colla. – Avviamoci! – disse il nano, esaminando la lista.

– Sai dove si trovano questi posti?

– Quasi tutti. Per gli altri, chiederemo.

– Sei già stato a Larissa?

– Molte volte... Che stai aspettando?

– Pensavo... tutte quelle regole di etichetta, non sono sicuro di ricordarle.

Dumpy Dum rise. – Non è il caso di preoccuparsi. Un ragazzo e un nano: nessuno baderà a noi. Siamo troppo piccoli! – Stavo per protestare: io non sono piccolo! Ho già indossato la mia prima maschera alla Festa di Morraine! Poi pensai: questa non è Morraine. Io non sono nato a Morraine. Non ho mai abitato a Morraine.

Imboccammo una strada. Alzai lo sguardo, e quasi incespicai. Dumpy Dum mi afferrò per un braccio. – Attento! Che ti prende?

La strada era lunga e dritta. In fondo, si scorgevano le montagne. Le case formavano un imbuto in cui si riversava la luce del sole. In alto, i tetti si inclinavano gli uni verso gli altri. Mi aveva preso una specie di vertigine a rovescio: come se il cielo minacciasse di risucchiarmi in alto. Voltai gli occhi da una parte: uno stretto vicolo, le grondaie che si sovrapponevano, e a metà altezza un arco che doveva servire a far sì che le due case non rovinassero l’una sull’altra.

Chiusi gli occhi. Abbassai la testa. Li riaprii e li tenni fissi sul selciato di ciottoli.

– Andiamo – dissi. Da quel momento mi concentrai sui particolari: gli abiti dei passanti, che erano in genere più fantasiosi, ma spesso anche più stracciati, di quelli abituali a Morraine; le grate delle cantine, che avevano quasi tutte una forma ovale; i rifiuti abbandonati agli angoli delle strade, fra cui frugavano i cani (ci sono pochissimi cani a Morraine: a nessuno piace vedere il proprio cortile sporco, o attraversare androni puzzolenti). Soprattutto osservavo le porte e i portoni: il tipo di legno e le finiture, la grandezza delle teste dei chiodi, la forma delle cornici e degli intagli. La lavorazione non mi sembrava particolarmente curata. Avevo aiutato mio padre a fabbricare o a riparare molti portoni, nella nostra bottega. Quasi tutti i cortili hanno uno stile proprio; c’era un vecchio artigiano, nel Cortile del Nano, che sapeva dire il nome del cortile dopo una sola occhiata ad un portone che gli fosse stato portato per riparare. Si chiamava Arsinon, e aveva delle mani straordinariamente deformate dal lavoro e dall’artrite, ma in qualche modo abilissime. Quando eravamo bambini, ci nascondevamo nella sua bottega, e lui faceva finta di non averci visto...

Basta, mi dissi. Non devo pensare a Morraine. Basta con la nostalgia. Guardati intorno, Iko... no: Arquin. Questa è la tua prima città.

Alzai la testa per guardarmi intorno, e in quel momento Dumpy Dum si fermò. – Ecco: questo è il primo. – Un muro ricoperto da strati di manifesti, nessuno dall’aspetto molto nuovo. Avvisi di spettacoli, annunci di fiere, propaganda politica (questa molto stracciata).

– Saltami sulle spalle – disse Dumpy Dum. Obbedii. Aveva i muscoli duri come pietra. Strappai pezzi di manifesti non bene aderenti, poi il nano mi passò la cola e attaccai il nostro.

Quando fui sceso, Dumpy Dum cominciò a raccogliere i pezzi caduti. – Aiutami – disse.

– Non mi sembra che qui badino molto alla pulizia – osservai.

– Loro no, ma agli stranieri capita di dover pagare pesanti multe per una disattenzione.

Mi misi a raccogliere con lena. Arrivato all’ultimo pezzo, mi fermai. C’erano solo sei lettere leggibili, a caratteri rossi: IUS ABR.

– Che ti succede? – chiese il mio compagno.

Gli mostrai il frammento. – Potrebbe essere Lelius Abramus? – Dumpy Dum sogghignò. – Un Lelius Abramus a corto di soldi potrebbe anche fermarsi a recitare a Larissa. Non è impossibile. – Ci incamminammo.

E così aveva ammesso di conoscerlo, almeno di nome.

– Questa è la strada principale – disse poco dopo Dumpy Dum.

– Come si chiama?

– Campi Elisi.

– Che nome sarebbe?

Dumpy Dum alzò le spalle. – Non lo so.

Sui Campi Elisi la gente vestiva con particolare sfarzo. C’erano molti carri. “Carrozze”, mi corresse Dumpy Dum. Servivano ai signori per passeggiare. A Morraine non c’erano carrozze: a chi poteva venire in mente di passeggiare su un carro per un cortile?

Avevamo gettato i manifesti stracciati in un vicolo dove nessuno poteva vederci, ma io avevo conservato in una tasca il frammento con IUS ABR. Come se potesse servirmi a qualcosa. Avevo incollato altri sette manifesti senza trovare fra gli strati precedenti alcuna reliquia di Lelius. Ormai mi ero abituato alle fenditure vertiginose fra le case, e riuscivo a guardarmi intorno.

Sui Campi Elisi il passeggio assomigliava a un balletto: signori con una piuma di fagiano sul cappello e mantello rosso, donne con le gonne listate di carminio, paggi in livree con gli alamari dorati, servette con cappelli di paglia, dignitari in stivali di vari colori, alti fino al ginocchio. Vidi un signore con il cappello nero, a punta, farsetto marrone da cui spuntavano i pizzi bianchì della camicia, brache di velluto antracite, stivali ocra, spostarsi prima a destra, poi a sinistra, per essere costretto infine ad una giravolta, davanti a piume di fagiano, mantello porpora, e altro che non ricordo.

Due uomini vestiti in maniera perfettamente identica si fronteggiarono a lungo, scrutandosi, fino a quando uno di loro decise di spostarsi a sinistra, in forza di qualche sottile segnale dell’abbigliamento dell’altro.

– Qual è la pena se qualcuno non si comporta secondo le regole? – chiesi a Dumpy Dum.

– Nessuna.

– Perché lo fanno, allora?

– Nella tua città... cioè, in un'altra città ti metteresti a pisciare in pubblico?

– Certo che no!

– Qui è lo stesso: solo un po’ più complicato. Ma c’è da dire che in molte strade i signori non vengono così riveriti. E in certe altre, non ci vanno proprio per niente, perché rischierebbero di ritrovarsi senza borsa e senza mantello.