Lia

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(17) LA LEZIONE DELL'ACQUA


Lucibello fu li primo ad andarsene, dopo tutto.

Era il Mese-del-Passaggio, una giornata di vento e di pioggia, quando ce lo disse, riuniti nel nostro rifugio segreto.

– Luci, tu sei matto – dissi io, senza sapere bene se crederci o no.

Lui era intento ad evocare una fiamma da qualche ramoscello non del tutto secco.

– No, amico mio. Sono forse più pazzo che se inseguissi un sogno recitato su un palcoscenico?

Ricordai quella sera nel Cortile Segreto. Era stato Lucibello, allora, a chiedermi se ero impazzito. Non potei replicare nulla.

– Quando l’hai saputo? – chiese Jues.

Lucibello mi guardò.

– Alla Festa delle Maschere – dissi io.

Lucibello annuì.

– Eravamo rimasti noi due soli – spiegai a Jues. – Nel Cortile Dorato.

– Sì. L’eremita.

– Ma l’ubu...

– L’ubu si leva in volo al crepuscolo. Vola tutta la notte. E trova quiete solo all’alba. Nella luce è il suo riposo.

Jues sbuffò. Faceva fatica a seguirci.

– Si nutre di falene – osservai io.

– Di animali lunari. Ci si ciba di ciò che appartiene alla notte.

Adesso anch’io facevo fatica a seguirlo.

– Allora l’ubu sogna di giorno – provai a cambiare approccio.

– Sì. Nella luce.

– La luce della verità? – propose Jues.

Lucibello sorrise. – Sì.

I ramoscelli finalmente avevano preso fuoco.

– Questo è il racconto di come l’Eremita Ashva apprese la lezione dell’acqua – iniziò il Venerabile dal mantello quasi bianco. Il Venerabile sedeva sull’erba al centro del Cortile dell’Equinozio, che è l’unico in Morraine a non avere un selciato. I membri dell’Immacolata Dottrina non possiedono templi né santuari e preferiscono il contatto con la nuda terra. Forse per questo il loro culto non è molto diffuso a Morraine.

Ed ecco il racconto:

L’Eremita Ashva grazie alla sua grande pietà poteva indossare un mantello del settimo grado di splendore. (Lucibello, accanto a me, era avvolto in un mantello quasi del tutto nero, con pochi fili bianchi, che indicava come avesse appena intrapreso il suo viaggio verso la luce.) Nei lunghi anni della sua vita egli aveva appreso la lezione degli uccelli e del vento, della volpe e del bue, dell’erba e della quercia. Ma ancora gli sfuggiva la lezione dell’acqua.

Così si recò presso le sorgenti del grande fiume Er, il Padre di Tutti i Fiumi, e si sedette a meditare, specchiando i propri pensieri nell’acqua limpida di una pozza. Trascorse così alcuni giorni nella più assoluta immobilità, e alla fine un pesce dalle scaglie dorate sporse la testa dall’acqua e lo fissò a sua volta.

“Cosa cerchi?” chiese il pesce.

“Cerco di apprendere la lezione dell’acqua,” rispose l’eremita.

“Sciocco! L’acqua scorre sempre e tu te ne stai fermo! Come puoi sperare di apprendere la sua lezione?” E il pesce guizzò via.

Immediatamente Ashva si alzò e prese a seguire il corso del fiume.

Incontrò dapprima le capanne dei pastori e i fienili dell’alto Er e dei suoi affluenti. Poi i primi villaggi, con i loro mulini, e i mercati dove vengono scambiate le merci delle montagne con quelle delle valli, e le cartiere dove i pestelli mossi dalle ruote ad acqua triturano stracci. Trovò in seguito la prima città: Ydessa dalle porte di bronzo, dove osservò le donne lavare i panni nelle acque dell’Er, e i bambini tuffarsi dai pontili, e i battelli appesantire le sue onde.

Fu poi la volta di Cheos dai Sette Ponti, su ciascuno dei quali si allineano le botteghe di una delle Sette Arti Meccaniche. Ashva osservò così come l’acqua si mescoli con la creta del vasaio e con il metallo dei fabbri e con la farina dei fornai.

Scendendo ancora lungo il fiume, trovò Yxiana dai mille canali, con il suo mercato galleggiante, ricco dei frutti che provengono dalla pianura circostante, fertile di per sé e resa fertilissima dai miracoli di ingegneria idraulica che fanno giungere l’acqua dell’Er a molte leghe di distanza, e regolano le sue piene.

Dopo Yxiana, il fiume scorre fra dolci colline coperte di vigneti. A Calinissa, nelle notti d’estate le acque si coprono di barche adorne di fiori e di lanterne colorate; i suoni della musica e delle risate si spandono da una riva all’altra; sulle barche, al riparo di tende, coppie di amanti si dilettano cullate dalle onde.

A Dardessa, le concerie di pelli rendono l’acqua maleodorante, ma dopo poche leghe essa torna ad assumere il colore giallastro del basso Er, e le reti dei pescatori incidono trame sulla corrente immensa.

Oltre Irkomenos iniziano i grandi argini e le dighe, costruite per ammansire il fiume nelle sue inondazioni rovinose.

Ashva vide tutte le vie dell’acqua, ne seguì ogni meandro ed ogni rivolo. Impiegò vari anni per seguire tutto il corso dell’Er: in parte perché il fiume è molto lungo, in parte perché Ashva era vecchio, e soprattutto perché conoscenza e meditazione richiedono tempo.

Durante il suo viaggio, com’è costume degli eremiti, il Venerabile Ashva chiedeva l’elemosina del cibo e di un tetto sotto cui dormire. In mancanza di essa, digiunava e si avvolgeva nel suo mantello bianco, con pochi fili neri.

Giunse infine al delta dell’Er, dove il Padre di tutti i fiumi genera i suoi innumerevoli figli. Fra le canne, su barche silenziose dal fondo piatto, scivolavano i cacciatori di uccelli acquatici. E alla fine del labirinto delle paludi, Ashva trovò quel punto delle acque dove il fiume non è più fiume, e il fango si mescola col sale.

Stanco, si sedette su un vecchio pontile di legno, a cui da molto tempo ormai non veniva ormeggiata alcuna barca. Il vento portava l’odore della salsedine.

Era il crepuscolo, e il pesce dorato sporse la testa dall’acqua verde di alghe. Guardò l’eremita, e non pronunciò parola. Ashva disse: “Pesce, ho dato ascolto al tuo consiglio, e ho seguito la corrente del fiume lungo tutto il suo cammino; ho osservato ogni cosa e ho meditato. Eppure so di non avere ancora appreso la lezione dell’acqua.”

“Sciocco!” disse il pesce. “L’acqua presta umilmente il suo aiuto a tutti: lavandaie e pescatori, mugnai e amanti, fabbri e mercanti. E tu cosa hai fatto in tutto questo tempo? Sei vissuto del pane degli altri. Come puoi sperare di apprendere la lezione dell’acqua?”

Il pesce sparì senza aggiungere parola, e Ashva rimase a lungo immobile, in preda allo sconforto. Era vecchio, ormai, e come avrebbe potuto seguire il consiglio del pesce? Infine si fece coraggio. Raggiunse il più vicino villaggio di pescatori. Alla prima casa che incontrò, gli offrirono cibo e riparo, ma Ashva rifiutò. Solo se gli avessero consentito di aiutarli nel loro lavoro avrebbe accettato un compenso. Gli abitanti della casa decisero, un po' per venerazione, un po' nella convinzione che non fosse del tutto in sé, di assecondare il suo desiderio.

Quella notte dormì nella capanna dove il pescatore teneva le reti e gli altri suoi attrezzi. Poco prima che il sole sorgesse lo svegliarono, il pescatore e i suoi due figli, e insieme si misero in mare.

E così nell'inverno della sua vita il Venerabile Ashva, l’Illuminato, imparò il mestiere del pescatore. Il suo mantello quasi bianco puzzava di pesce, le sue mani si coprirono di vesciche, poi di calli.

Poiché era abituato alla parsimonia, riuscì ad accumulare una piccola somma di denaro, con cui acquistò una barca sua. E poiché era un Venerabile e un Illuminato, non smise di predicare, e i discepoli si raccoglievano numerosi intorno a lui. I primi furono i due figli del pescatore.

Un giorno Ashva e il suo discepolo favorito, Izmal, che avrebbe in seguito indossato un mantello del settimo grado di splendore, e a cui dobbiamo questo veridico racconto, si misero in mare. La pesca fu straordinariamente abbondante, e per la grande quantità di pesce le onde sfioravano il bordo della barca.

Volsero la prora verso terra, mentre dense nubi si accumulavano all’orizzonte. Una calma piatta e minacciosa si stese sulle onde. Le vele sbatacchiavano flosce. Izmal afferrò i remi, ma Ashva rimase immobile a prua, fissando l’acqua, come se attendesse qualcosa.

Ed ecco che il pesce dorato affiorò dalle acque. “Ebbene vecchio,” disse, “hai appreso finalmente la lezione dell’acqua?”

“Ho seguito il Grande Padre Er in tutti i suoi meandri, ho osservato le vie del fiume e degli uomini, mi sono sforzato di imitare l’acqua nella sua umiltà. Ma ancora sento di non avere appreso la sua lezione. Aiutami, pesce.”

E il pesce disse: “Sei vecchio e stanco. Non vedi dunque che ogni fiume trova la sua pace nell’Oceano?”

E in quel momento un’onda altissima, giungendo dal largo, afferrò la barca e la fece girare tre volte su se stessa, fin quasi a rovesciarla. Izmal si afferrò al timone con tutte le sue forze, ma Ashva non fece alcun tentativo per salvarsi; cadde fra le onde, e il suo mantello quasi candido impregnandosi di acqua lo trascinò a fondo, dietro al bagliore dorato del pesce.

– Cosa significa la storia di Ashva? – chiesi a Lucibello. Eravamo riuniti nella nostra soffitta, in tre per l’ultima volta.

– Le storie non significano. Accadono. E vengono raccontate.

 

– Ma l’eremita ha appreso la lezione dell’acqua, alla fine? – chiese Jues.

– Forse sì – disse Lucibello. – Morendo.

– A che serve una lezione appresa in punto di morte?

– A morire.

Jues si diede da fare attorno al fuoco, per nascondere la sua esasperazione.

– Lo scopo dell’Immacolata Dottrina è di imparare a morire, dunque? – chiesi io.

Lucibello scosse la testa. – L’Immacolata Dottrina non ha uno scopo.

E dopo un momento aggiunse: – Del resto, ho ascoltato altre storie, dalla bocca del Venerabile, che dicono cose completamente diverse.

Lo guardai, e compresi che il nuovo Lucibello non era poi così diverso dal vecchio.

(18) LA CISTERNA


La partenza di Lucibello mi lasciò in preda ad un’inquieta tristezza. La tristezza era dovuta alla perdita dell’amico, l’inquietudine alla mia incapacità di imitarlo.

Poiché, vedete, tutti i miei sogni: Lia e i carri dei teatranti, Lia e il palcoscenico illuminato, Lia e la poesia, Lia... Tutto questo, dovetti ammetterlo, era qualcosa che recitavo solo dentro la mia testa. Quando avevo provato a recitare nella realtà, avevo miseramente fallito. Quanto a scrivere, ero riuscito solo a scopiazzare. E il coraggio di andarmene da Morraine non riuscivo a farmelo venire. Forse, dopo tutto, sarei diventato un altro falegname nel Cortile del Nano.

Dopo il Mese-del-Passaggio giunse anche il Mese-delle-Farfalle. Il quarto giorno trovai una scusa per abbandonare la bottega di mio padre e raggiunsi la strada che portava alle montagne. Esattamente cinque anni prima ero stato investito dal carro di Lelius, e avevo visto Lia.

Mi fermai sul bordo della strada polverosa. Non c’erano Jues e Lucibello ad aspettarmi, nel casolare abbandonato. Uno era partito, l’altro lavorava. L’infanzia era finita, e nient’altro sembrava essere iniziato.

Sentii il rumore di un carro e il cuore mi balzò in gola. Ma era solo un contadino con la sua famiglia, di ritorno dai campi. Mi guardò con curiosità.

Dopo un po’, tornai a casa.

A casa trovai un messaggio. L’aveva consegnato qualcuno a mia sorella, che me lo passò in gran segreto.

Questa volta non era di Jues. Era vergato in uno stampatello ornato, e diceva:

“Sui gradini della fontana, alla stessa ora. Domani.” Non c’era firma.

Dalle finestre aperte filtrava un mormorio di voci, che si mescolava con quello della fontana. Ero arrivato in anticipo, e feci due volte il giro del porticato. Poi attraversai il cortile di sbieco, arrestandomi un momento accanto alla fontana ottagonale. Questa volta era ancora giorno, e distinsi le figure scolpite sulle lastre di pietra: le allegorie delle otto sfere celesti.

Provavo una certa riluttanza a sedermi sui gradini, così raggiunsi l’angolo opposto. Rari passanti attraversavano il cortile. Non era la Festa delle Maschere, e quella era una zona molto tranquilla di Morraine.

Quando mi voltai, vidi che una figura si era seduta sui gradini. Era avvolta in un mantello, il cappuccio che le copriva il volto. Dalla corporatura esile, doveva essere una ragazza.

Tornai indietro. Quando fui giunto a metà strada, la figura si alzò e si diresse verso un androne. La seguii. La riconobbi da come si muoveva.

Non cercai di raggiungerla. Sapevo che si sarebbe fermata a tempo debito.

La spirale del suo percorso questa volta si allargava. Cortile dopo cortile, i cerchi si avvicinavano alle mura. Qui gli spazi erano più grandi, le costruzioni meno ornate. Il Cortile dei Fabbri era pieno del frastuono delle incudini e del nitrito dei cavalli.

Poi la mia guida parve ripensarci, o forse era incerta sulla strada. Tornò verso il centro, vagò apparentemente a caso, prese infine un passaggio in salita, che aveva a destra un muro di grosse pietre, privo di aperture. Erano le mura della città.

Non si voltò mai, ma era come se la sua faccia lunare mi scrutasse sempre.

Il passaggio sbucava in un cortile irregolare e in pendenza. Il lato più lungo formato dalle mura, un altro da un’antica torre di guardia, la facciata interrotta da poche feritoie, il terzo dalla cisterna principale della città. Il quarto, molto stretto, dall’imboccatura di un androne che portava sulla chiave di volta due pesci intrecciati. Da sopra i tetti si scorgeva la torre circolare del Castello, la più alta di Morraine. Quasi metà del cortile era occupato da un orto cintato, probabilmente quello del guardiano della cisterna.

Occhi di Gatto si sedette sui gradini di una porticina che si apriva nello spessore delle mura.

Mi sedetti accanto a lei. Le ultime rondini stavano cedendo il cielo ai pipistrelli.

– Tieni a mente questa porta – disse.

Spalancai gli occhi. Il cappuccio le nascondeva la faccia. Allungai una mano e glielo scostai. Alla luce del sole calante, le pupille erano poco più di due fessure verticali, l’iride di un giallo intenso, screziato d’ambra.

– Perché?

– Domani sera potrai lasciare Morraine da qui.

Lo straniero ci guardò. Spalancò le braccia.

“Voi che avreste pensato?”

Che era pazza. O che scherzava. Lo pensai per il tempo di un battito di ciglia. Poi mi resi conto che era esattamente quello che avrei dovuto fare. Lasciare Morraine. Non dissi niente.

– La tua vita è in pericolo – disse Occhi di Gatto.

– Il Grifone...

– Sì. Sei stato interrogato dalla Guardia.

– Non ho detto nulla di te!

– Lo so. Ti ringrazio. Ma hai detto del Sole.

– Sì, ma...

– E hai riconosciuto l’Adepto.

– E tu come lo sai? – E subito dopo: – Il sole era l’adepto. Ed è anche...?

– Non posso dirtelo. – Che era una risposta ad entrambe le domande.

– Ma...

– Restando a Morraine sei in pericolo. È meglio se te ne vai.

Lasciare Morraine, la mia casa, mia madre, la mia famiglia! A quindici anni! Scossi la testa. Era un sogno. Adesso mi sarei svegliato.

– È quello che volevi, no?

– Cosa?

– Ti aspettarà un carro di teatranti, all’uscita del cunicolo.

Quale cunicolo? Mi presi la testa fra le mani. Mi sembrava di avere la febbre, le orecchie mi ronzavano.

Sentii la sua mano sulla spalla.

– Ascolta. Non abbiamo molto tempo. Ci sono forze all’opera che tu non conosci... e neppure io, del tutto. Forse potresti vivere a Morraine fino alla vecchiaia, o forse no. Ma se te ne vai sarai quasi certamente nessuno ti farà del male. E poi, è quello che volevi, no? – ripeté scrollandomi con forza la spalla.

– Ma tu...

– Io sono al sicuro – mi interruppe. – Se mai... i miei pericoli sono di altro genere.

Un uomo uscì dalla porta della cisterna, portando un secchio di legno e cominciò ad annaffiare l’orto. Dopo un po’ si accorse di noi, e ci salutò con un sorriso complice. Per tutto il tempo la mia compagna lo scrutò con gli occhi socchiusi, credo sospettosamente.

Quando l’uomo rientrò, lei disse: – Ti attenderò qui, a mezzanotte. Da solo. Puoi salutare i tuoi cari, ma attenzione. È necessario il segreto!

L’uomo uscì con un altro secchio d’acqua.

– Il carro... – cominciò Occhi di Gatto, e si interruppe.

– Sì?

– È diretto verso la costa. Gyenna è la sua destinazione, provvisoria.

E con ciò? Pensai. Poi ricordai. Lelius e Lia.

Ma neppure questo riuscì a scuotermi.

Allora Occhi di Gatto mi colpì il braccio con un pugno, e disse con rabbia: – Lo vedi quell’uomo?

– Ehi... certo che lo vedo.

– Vuoi passare il resto della tua vita a chiederti se il primo che incontri è una spia?

Adesso forse stava esagerando. – Ascolta, sono sicuro che il Conestabile...

– Il Conestabile non può fare nulla. Per la semplice ragione che nessuno nel Cortile Segreto lo aiuterà. Neppure io.

Questo mi gelò più di ogni altra cosa avesse detto fino a quel momento.

Ma non mi diedi per vinto. – Ascolta, mi hai detto tu stessa che la Guardia non entrerà nel Cortile Segreto. E dunque l'assassino non corre nessun pericolo. E allora perché dovrei correrlo io, che non posso fargli niente di niente?

Lei non rispose subito. – Ci sono altre ragioni... credo – disse infine. – Lui sa che sei entrato e fuggito dal Cortile, di nascosto. Sa che cerchi Lia.

– E con ciò? – Poi mi ricordai del laboratorio alchemico. Feci per aprire la bocca ma lei mi fermò. – Ascolta, neppure io sono a conoscenza di tutto, capisci? E non so perché esattamente sei in pericolo. Ma so che lo sei. Ti basta la mia parola?

Mi fissò negli occhi. Non mi venne in mente niente da dire.

Infine occhi di Gatto si alzò. – Vieni.

Mentre lasciavamo il cortile, l’uomo che annaffiava l’orto ci salutò con la mano. Ci credeva due innamorati.

(19) IL CARRO


L’addio alla propria terra è un evento straziante per chi se ne va e per chi resta, ma imbarazzante per chi se lo sente raccontare. Perciò vi risparmierò questa parte della mia storia, ci disse lo straniero venuto dal mare di sabbia guardandosi le mani.

Chiesi la lampada e l’olio a mia madre, aggiunse quasi bruscamente. Succede, a Morraine. L’aveva fatto poco tempo prima anche Lucibello. L’unica differenza, nel mio caso, era che non potevo dire la vera ragione per cui me ne andavo. Che poi la chiedessi da un giorno all'altro era inusuale, ma non inaudito. I Portatori della Lampada sono per loro natura imprevedibili.

I Portatori della Lampada, per tradizione, lasciano Morraine nell’ultima ora della notte, in maniera che l’alba li colga sulle pendici dell’Yril, se sono diretti verso le montagne, o nella pianura di Meizin, se la loro destinazione è il mare, o in qualche altra località se seguono strade meno battute, ma da cui comunque la città non è più visibile. E proprio a quell’ora, possono ascoltare per l’ultima volta la campana della Torre dell’Orologio, che batte sei rintocchi.

Questo vuole la tradizione. Quanto a me, forse per via del cigolio del carro, o perché tenevo la testa sotto una coperta, non sentii la campana. La testa la tenevo sotto la coperta perché non volevo che qualcuno mi sentisse piangere. Mi accorsi però del giungere dell’alba perché ogni tanto tiravo fuori il naso per respirare.

Scostai un lembo del telone che copriva il carro. Una luce grigia aveva cancellato le stelle, senza rivelare i particolari della terra.

Tornai a sdraiarmi, appoggiando la testa sulla bisaccia di pelle che mi aveva dato mio padre per metterci le mie cose. Che erano molto poche: un cambio di abiti, della biancheria, le Tragiche Historie, i Fiori di bianco prato, i Canti di Pridery, la mappa dell’isola, alcuni fogli che avevo scribacchiato, naturalmente la lampada e l’olio. A malincuore avevo rinunciato alla maschera della falena lunare, perché troppo fragile. In una piccola borsa di pelle, attorno al collo, avevo alcune monete. E un’altra cosa.

Questa me l'aveva data Occhi di Gatto, prima di salutarmi.

Ero giunto nel Cortile della Cisterna da solo, come lei mi aveva ordinato. Avevo spinto la porta nella mura, e questa si era aperta. Dentro, buio profondo e un odore di terra umida, mescolato a quello di qualche essenza profumata. Il profumo di Occhi di Gatto. Poi la scintilla di un acciarino.

Nella luce fioca della lampada, le sue pupille erano quasi normali. Dei gradini di pietra scendevano alla mia sinistra, perdendosi nel buio. Lei indicò i gradini. – Vieni.

Il cunicolo era lungo non più di trecento passi. Prima di uscire la mia guida spense la lampada, e potei vedere la luce delle stelle, attraverso un’apertura irregolare.

Occhi di Gatto srotolò una corda e la legò ad un tronco che cresceva da una fessura della roccia.

 

– Questa volta non resterà a penzolare – disse, ed io sorrisi mio malgrado.

Un centinaio di braccia più sotto, quasi a strapiombo, si vedeva la striscia bianca della strada. Eravamo a metà della balza su cui sorgono le mura occidentali della città. A qualche distanza, sotto una macchia di alberi, si intravedeva appena una chiazza più chiara ancora della strada: il telone di un carro, e si poteva sentire un lieve sbuffare di cavalli, fra il frinire dei grilli. Sentii un fruscio, vicino a me, e Occhi di Gatto mi mise fra le mani qualcosa. Una borsa di pelle. Dentro, la forma delle monete.

– No... no, ho già dei soldi.

– Tieni anche questi, sciocco.

Poi mi slacciò la camicia e mi mise qualcosa attorno al collo.

– E anche questa. Attento a non perderla. – Era una sfera, liscia e molto pesante.

– Cos’è?

– Diciamo che è un amuleto.

Ancora pochi secondi e me ne sarei andato. C’era una cosa che non avevo ancora voluto chiedere.

– Potrò mai... tornare?

Le sue mani erano ancora sul mio petto.

– Molte cose sono possibili. Lo saprai.

– Come?

– Ho i mezzi per avvertirti, non temere. E poi... – Indovinai un sorriso, dalla sua voce. – Chissà, forse sarai tu a non voler più tornare.

Non capivo bene cosa volesse dire, perciò non replicai. Lei mi riallacciò la camicia.

– Se tornerò, ci rivedremo?

– Anche questo è possibile.

La sentii muoversi. Poi le sue labbra mi sfiorarono la guancia.

– Buon viaggio, Iko.

Mi misi la bisaccia a tracolla e mi calai lungo la corda.

Quando posai i piedi sulla strada un’ombra si staccò da un cespuglio. Una mano afferrò la mia. L’ombra mi arrivava appena alla vita: un bambino.

– Vieni – disse con voce da adulto.

I miei occhi si erano abituati alla luce delle stelle. Distinguevo il carro, due grossi cavalli, delle figure vicino.

– Eccolo! – disse una voce femminile, che associai ad una macchia chiara di capelli.

– Era ora! – Un grugnito profondo, proveniente da una figura corpulenta, avvolta in un mantello.

– Sbrighiamoci, dunque. – Un uomo, molto alto e magro, che saltò a cassetta. Quello corpulento lo seguì.

Il bambino mi condusse al retro del carro, e saltò su con sorprendente agilità. Qualcuno da dentro allungò una mano e mi aiutò a salire. La donna bionda mi seguì.

Dentro il buio era completo, ma in compenso c’erano molti odori: di stoffe polverose, di sudore, di cosmetici, di cibo. Il carro era coperto da un tendone, a differenza di quello di Lelius che come sapete era tutto di legno. – Mettiti qui. Puoi dormire. – Una seconda voce di donna. Non c’era materasso, ma degli strati di tela grezza, forse fondali di scena.

Qualcuno mi mise in mano una coperta e un cuscino. Venni urtato da vari corpi che si sistemavano per la notte.

– Come ti chiami? – La prima donna.

– Iko... cioè, Nykos.

Lei rise, non so per quale ragione.

– Quanti anni hai?

– Quindici.

– Lascialo stare. Avrà sonno. – La seconda donna.

– Buonanotte, allora!

In verità, fu la notte peggiore della mia vita.

Non avevo mai dormito su un carro. Non avevo mai dormito vicino a tanta gente. Non avevo mai dormito fuori da Morraine. E poi, come ho detto, mancava solo un’ora all’alba.

Accolsi la luce come una liberazione. Anzi, il giorno che nasceva, come spesso accade, risollevò il mio spirito. Avevo perso Morraine, ma il mondo intero si apriva davanti a me! Il mare era la nostra destinazione, le città della costa, i porti! Cominciai a fantasticare di navi e galeoni, che avevo visto solo sulle illustrazioni dei libri. Rimpiansi di non aver portato con me la Storia Universale dei Viaggi, che era troppo pesante e voluminosa. In compenso avevo la mappa: chissà, forse un giorno avrei trovato la mia isola misteriosa...

In quel momento il carro si arrestò. Sentii il cocchiere scendere, e sbirciai da sotto il tendone. Lo vidi allontanarsi di qualche passo, fermarsi sul bordo della strada, armeggiare con i pantaloni.

Questo mi fece venire in mente che avevo bisogno anch’io. Sgusciai fuori dalla coperta. I miei nuovi compagni di viaggio dormivano tutti: cumuli indistinti nella luce fioca.

Saltai a terra. L'aria della mattina era fredda e pulita, dopo quella stantia del carro. L’uomo alto e magro aveva finito, e si stava riallacciando.

– Buongiorno – disse. – Io sono Astrix Palemon. – Aveva un cappello a larghe falde, che si levò con un gesto ampio del braccio. – Guerriero, principe, innamorato, bandito, mago. – Compresi dopo un momento che erano i suoi ruoli.

– Io sono Iko. – Purtroppo, non avevo niente da aggiungere.

Astrix Palemon mi fissò da sotto le folte sopracciglia nere, lisciandosi i lunghi baffi. – Vedremo cosa fare di te – disse, e rimontò sul carro. Io montai dalla parte opposta, pensando a cosa dovevo fare di me.