Lia

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(14) LA SIRENA


Avanzando con cautela per non disturbare gli spettatori, e soprattutto per non rovinare le ali della falena, mi avvicinai.

Era una maschera senza dubbio femminile. Come lo sapessi, sarebbe troppo lungo da spiegare: basti dire che vi sono segni indubitabili e certissimi, per un abitante di Morraine.

Ma prima che potessi raggiungerla, essa si ritrasse con sorprendente rapidità, considerando che doveva camminare all’indietro.

Fu allora, credo, che intuii dove avevo già visto quella maschera. Ma non ebbi il tempo di pensarci. Lo spettacolo, senza che me ne fossi accorto, era terminato, e gli spettatori stavano lasciando il cortile. Intravidi l’ovale bianco e nero dirigersi verso un corridoio, mi lanciai all’inseguimento, creando qualche trambusto fra le maschere che, a quell’ora e in quel cortile si muovevano con languida flemma. Quando la ritrovai, non fu una sorpresa scoprire che aveva il corpo di una sirena. E che la maschera, in realtà, le copriva la nuca. Gli occhi, naturalmente, erano chiusi.

Era la stessa figura che avevo vista dipinta sul carro di Lelius, o almeno le assomigliava molto.

Ora che mi trovavo a pochi passi da lei, non sapevo più cosa fare. La seguii per tutto il corridoio, e giunta alla fine, lei si voltò. Per la prima volta vidi la faccia della maschera. Se quella sulla nuca aveva gli occhi chiusi, questa mi guardava con due grandi pupille che sembravano brillare di luce propria, come quelle di un gatto. La falena fece ondeggiare le sue antenne, e lei sollevò il viso di sirena.

Disse: – Perché mi segui, falena?

– Tu mi guardavi con la tua faccia lunare.

Come aveva potuto riconoscere immediatamente la falena, e perché io avevo chiamato lunare la sua maschera posteriore?

Questi sono i misteri della Festa delle Maschere di Morraine.

Lei rise e si voltò, tornando a mostrarmi il volto dagli occhi chiusi. Ricominciò a camminare, ed io mi affiancai.

Passeggiammo in silenzio fino ad un cortile in cui ballerini dai costumi floreali eseguivano complicate coreografie. Lo attraversammo senza soffermarci più di qualche momento. Sbucammo quindi in un cortile quasi deserto: gli attori già se n’erano andati, con i loro arnesi, e restava solo un palco disadorno, qualche panca; sparsi a terra, frammenti caduti dai costumi e carte che avevano contenuto dolciumi. Al centro del cortile gorgogliava una fontana ottagonale. Ci sedemmo sui gradini. Solo qualche finestra gettava nel cortile un chiarore giallastro. Nell’ombra dei portici si aggiravano ombre furtive. Ci guardammo.

Gli occhi della sirena erano molto verdi, luminosi, incredibilmente grandi. Dovevano esserci delle lenti di vetro inserite nelle orbite. La maschera era coperta di minute scaglie di madreperla, e senza dubbio doveva essere molto costosa. In quel momento mi vergognai un poco della mia, fabbricata in casa partendo da una larva di cartapesta.

– Perché i colori? – chiese lei. Per un attimo, ebbi il tremendo sospetto che Lucibello mi avesse giocato uno scherzo. Ma no: la voce, in ogni modo, non poteva essere la sua.

– Sono quelli di una falena lunare – risposi io, in mancanza di meglio. Ma la spiegazione, almeno a lei, dovette apparire sufficiente. Seduta accanto a me, nell’oscurità, il vestito argenteo da sirena la faceva assomigliare ad un fantasma.

– Perché hai due facce? – chiesi io.

– Una guarda in avanti, l’altra indietro.

– Ma una ha gli occhi chiusi.

– Perché guarda dentro.

– Indietro e dentro?

La sirena si stiracchiò senza rispondere.

– Guarda... i ricordi? – azzardai dopo un momento.

Lei si voltò verso di me. – Forse i sogni – rispose.

Scossi la testa. – I sogni non sono dietro, sono davanti.

– No – sibilò lei con singolare veemenza, ma non volle fornire ulteriori spiegazioni.

Cambiai argomento. – Ho già visto quella maschera...

– Impossibile! È il mio primo anno.

– No... l’ho vista su un carro.

La sirena sollevò la testa e mi fissò.

– Quando?

– Cinque primavere fa.

– Un carro di attori?

– Sì. Come...

– Mentre passava per Morraine?

– No, fuori. E poi... nel Cortile Segreto.

Lei si alzò. – Camminiamo.

Ci avviammo verso un cortile da cui proveniva una musica dolce e triste. Ci soffermammo sotto i portici ad ascoltare.

La sirena non rimaneva mai ferma a lungo. Come un pesce, sembrava doversi muovere senza sosta, sospinta da impercettibili correnti abissali. Mi rivolse la sua faccia lunare e si avviò lungo il porticato, senza una parola.

La seguii, in un girovagare apparentemente senza meta.

O forse no. Intuii ad un certo punto che stavamo girando in cerchio sempre più stretti; e che al centro di questi doveva esserci, più o meno, il Cortile Segreto.

Quando raggiungemmo il Cortile della Mezzanotte ne ebbi la certezza. Con l’assenza di stupore propria dei sogni, la vidi dirigersi verso l’androne sormontato dalla testa di unicorno.

Nel cortile, su un palco, dei pagliacci cadevano a terra rovinosamente, giacevano come morti, si rialzavano con immutata foga.

Un gruppo di maschere uscì dall’androne, con risate da ubriachi. Le lasciammo passare, ma mentre la sirena stava per infilarsi nel passaggio arrivò di corsa un ultimo personaggio, la faccia formata da un dorato disco solare, raggiante, con due grandi occhi spalancati. Il sole urtò la sirena. La maschera solare, segno infausto!, quasi cadde, l'uomo la raddrizzò. Non prima che scorgessi dei corti ricci biondi, quasi bianchi. Per un attimo i due rimasero immobili, fissandosi, e io da dietro vidi il sole parzialmente eclissato dalla luna. Poi il sole corse ad unirsi agli altri, e la sirena si addentrò nell’androne.

Dove si apriva il passaggio che conduceva al cortile senza nome, trovammo il cadavere. Un’unica lanterna, sul soffitto a volte illuminava la faccia nuda e livida, contratta in una smorfia. Non ebbi alcun dubbio che fosse morto. Era la cosa più oscena che avessi mai visto. La maschera giaceva poco lontano: un grifone dal becco crudele, inutilmente minaccioso.

Solo quando la sirena mi diede uno strattone, mi accorsi che le stavo stringendo la mano. Non so chi di noi due avesse preso quella dell’altro. Cercava di trascinarmi verso il passaggio. In quel momento, altri cominciarono a giungere, dalla parte opposta dell’androne. Non mi mossi; non so se fosse per istinto, o perché l’avevo sentito dire da mio zio (che come ricorderete era stato soldato nella Guardia), ma sapevo che fuggire era il modo migliore per essere indiziati. Con le mie ali bianche e la sua maschera di madreperla, di sicuro qualcuno si sarebbe ricordato di noi.

Una donna gridò. Io agitai un braccio. – Sta male! – dissi.

Un orsacchiotto rosa si chinò sul cadavere. – È morto – disse.

Cedendo alla pressione della sirena, mi accostai poco a poco all’imboccatura del passaggio. Un coniglio dalle orecchie rosa e bianche disse: – Bisogna avvertire la Guardia.

Arrivarono gli spettatori che erano nel cortile, poi anche i pagliacci. Ormai noi due eravamo giunti sotto la bassa volta del passaggio, e la sirena continuava a tirarmi.

Scorsi le divise rosse e blu della guardie. Anche loro indossavano maschere, ma erano semplici cappucci neri, con i buchi per gli occhi e per la bocca.

Nel passaggio il buio era quasi totale. La sirena mi stringeva la mano tanto forte da farmi male, ma mi rifiutai di correre finché non superammo l’angolo a metà del corridoio.

Non avevo alcun dubbio che lei sapesse dove stava andando.

Quando arrivammo alla porta la sirena estrasse una chiave; brillò argentea nella luce di una mezza luna che nel frattempo era sbucata da uno squarcio fra le nuvole, e insinuava i suoi raggi entro lo stretto cortile. Ricordavo di non aver visto alcun buco di serratura nella stretta porticina, ma la chiave era molto piccola, poco più di un’asta con quattro nervature dentellate, e in effetti nel legno c’era un buco altrettanto minuscolo.

Quando la sirena fu entrata, richiuse la porta e si appoggiò contro un muro, ansimando. La fenditura era stretta come avevo immaginato da fuori. Ci tenevamo ancora per mano, e quasi senza volerlo, l’abbracciai. Poi lei mi lasciò la mano e si avviò lungo il passaggio.

Le mie ali erano irrimediabilmente rovinate.

Attraversammo, ricordo, quello che mi parve un numero interminabile di corridoi e sale. Solo una era illuminata. Mi arrestai sulla soglia, ma la sirena mi trascinò dentro, impaziente. La sala era deserta. Poi mi arrestai di nuovo. Una delle pareti era coperta da una grande mappa. Una città. Era Morraine e non era Morraine. Riconobbi il Castello, alcuni dei cortili, dei passaggi. Altri invece erano diversi dalla realtà, ne ero certo. Ma la cosa più singolare, era che l’insieme della mappa formava un disegno, come un fiore complicato ma regolare.

La mia guida mi toccò un braccio. – Adesso andiamo – disse. Con una seconda chiave aprì una piccola porta di quercia, in un angolo della sala.

(15) OCCHI DI GATTO


 

La Festa delle Maschere di Morraine non è priva di un suo lato oscuro. Essa, infatti, è anche il momento ideale in cui regolare conti in sospeso, rancori accumulati, vendette meditate. Per il resto, devo aggiungere, la nostra è una città molto tranquilla.

La Festa delle Maschere è la situazione ideale per l’assassino: nessuno può riconoscerlo, e far perdere le proprie tracce è facilissimo. D’altra parte, è anche la situazione ideale per la vittima, poiché può camuffarsi in maniere pressoché infinite. La maschera fornisce a tutti un alibi, e fa di tutti degli indiziati. Innumerevoli sono i trucchi a cui può ricorrere l’assassino per uccidere impunemente la sua vittima, e altrettanti quelli della vittima per sfuggirgli.

Tuttavia, in maniera del tutto incontrollabile, la maschera determina anche l’assassino e la sua vittima. La maschera è l’assassino e la sua vittima. Così come io ero la falena lunare, e Lucibello un ubo, e la mia compagna una sirena con due facce.

Ma poiché si è vittime ed assassini per infiniti e spesso futili motivi (anche se alcuni ascrivono a pochi e imperativi moventi l’impulso omicida, o addirittura a due soli: amore e denaro, nelle loro varie forme), non esiste una maschera da omicida ed una da vittima, ma esiste sempre qualcosa, per quanto indecifrabile, che le collega.

Rintracciare questi segni permette di introdurre un certa logica in indagini altrimenti disperate. A condizione di scoprire di quale logica si tratti.

La sirena disse: – Non dovrai dire nulla di me...

La sirena era seduta sul trono.

Io dissi, con assoluta ed immediata sincerità: – Non dirò nulla di te.

– ... se mai dovessero interrogarti – finì.

Il trono era quello, privo di una gamba, che si trovava nel deposito di attrezzi teatrali del Cortile Segreto. La maschera di madreperla appariva sospesa nel buio come una mezza luna. Al posto della gamba era stata messa una scatola di legno.

Non pensai neppure di chiederle il perché. Dissi, invece: – Sono già stato qui – prima di potermene pentire.

Nel silenzio che seguì, le scaglie di madreperla emisero un fruscio di gusci vuoti, mentre lei girava la testa.

– Quando? – Senza alcuna traccia di incredulità.

– Non dovrai dire nulla.

La sirena unì in un cerchio pollice ed indice della sinistra, se li appoggiò alla fronte, in segno solenne di giuramento.

– Non dirò nulla di te.

Mi feci più vicino, e lei chinò verso di me il viso di madreperla. Potevo sentire il suo alito.

– È stato quattro anni fa, quando Lelius ha dato il suo spettacolo...

– Ah!

Quando ebbi finito, lei disse: – È Lia, dunque, che ti ha stregato – con grande serietà. Alzò una mano e toccò gli occhi della falena. – Capisco, adesso...

– Cosa?

– La tua maschera.

– Perché?

– Non posso spiegare. E tu non mi hai detto tutto.

Come se n’era accorta?

– No... non voglio saperlo – aggiunse, vedendomi esitare.

Cambiai argomento. Quello che non le avevo racconto era di aver visto l’adepto e Lelius dalla finestrella, e la donna bionda. – Tu abiti qui?

Un movimento della macchia bianca. Sì.

– Anche tu hai visto lo spettacolo di Lelius?

– Da un balcone. E ho visto tre ragazzi che si sono alzati disturbando gli spettatori. – Per la prima volta la sentii ridere. – Uno aveva ricevuto tre biglietti in regalo per essere stato investito dal carro di Lelius, molti anni fa.

– Tu hai parlato con lui. Forse anche con Lia...

Un doppio ondeggiare della testa. Sì. No.

– Lei parla solo sulla scena.

Alzai di scatto la testa. I miei peggiori sospetti di stregoneria trovavano conferma. – È Lelius che l’ha stregata!

– No. Non è così... semplice.

– Cosa, allora?

– Lelius dice che Lia è sua figlia.

Sua figlia. Chissà per quale ragione, non mi era mai venuto in mente.

– E tu credi che sia vero?

– Non so.

Sbuffai irritato, e, temo, con una certa petulanza.

– Non è semplice la natura degli uomini – disse la sirena, con un tono di bonario rimprovero. E aggiunse: – Questa è una delle prime cose che si apprendono nello studio dell’Arte.

Quale arte? Mi chiesi. Poi pensai: lei abita nel Cortile Segreto. L’Arte può essere una sola.

– Sei adepta?

– No. Apprendista.

– È un grado diverso?

– No. Una gerarchia diversa.

Compresi dal suo tono che non avrei ottenuto maggiori informazioni sull’argomento.

Mi prese la mano. – Vieni.

Come se vedesse nel buio, mi condusse fra quei relitti di favole, fino alla scala.

Anche questo non mi stupì troppo.

Questa volta, nessuna luce filtrava dalla finestrella.

Raggiungemmo la sommità della torre. In un angolo, era arrotolata una corda.

– Ci siamo chiesti a lungo chi l’avesse usata – commentò lei in tono quasi scherzoso.

– Temete per i vostri segreti? – chiesi.

– No. I nostro segreti sono... ben protetti.

La luna era un mezzo disco rossastro, tagliato come da un colpo di spada.

La sirena la indicò, e senza che le avessi chiesto niente disse: – Lia è lontana come lei.

Ebbi un brivido. La notte era fredda.

Per un attimo, provai il folle desiderio di scavalcare il parapetto e di volare verso la luna. Era la falena in me.

– Vuoi dire che è irraggiungibile? – Pensai di aver sussurrato la domanda a voce troppo bassa, perché la sirena non rispose. Ma dopo il tempo di tre sospiri, disse: – Dicono che un tempo gli uomini potessero volare sulla Luna.

Attesi, ma non mi spiegò altro. Pensai: io sono una falena lunare, ma non lo dissi.

– Dove si trova adesso?

– Con Lelius... in questa stagione girano le città della costa, credo.

Era la stessa risposta che mi aveva dato Lyian, il venditore di costumi.

Eravamo appoggiati alla balaustra, molto vicini. Le presi la mano.

– Ci rivedremo? – chiesi.

– Chissà... Forse la prossima Festa delle Maschere.

Un tempo enorme, a quell’età!

Non sapevo cosa fare. Era la prima volta che mi trovavo solo con una ragazza.

Ancora una volta, lei mi prevenne.

– L’Arte richiede dei sacrifici a chi intraprende la sua via. – Lo disse con una certa malinconia, ma anche con molta convinzione. Fino ad allora mi era sembrata più matura di quanto fossi io. Ma in quel momento mi parve straordinariamente giovane, e insieme straordinariamente vecchia.

Si voltò e attraverso le fessure delle maschere i nostri occhi si incontrarono. O almeno così mi sembrò.

– Come ti chiami? – mi chiese.

– Iko... Nykos, per intero – Scambiarsi il nome, durante la Festa delle Maschere, è un pegno solenne, di massima intimità. – E tu?

– Puoi chiamarmi... Occhi di Gatto.

– Posso vederti?

La sirena sollevò una mano e mi sfiorò gli occhi di pietruzze smeraldo. Mi tolsi la maschera. Lei si portò le mani ai lati della testa. Non so perché, in quel momento chiusi gli occhi. Sentii il frusciare delle scaglie di madreperla.

Aprii gli occhi. La luce rossastra della luna illuminava il viso della sirena, che aveva il mento appuntito e gli zigomi alti, i capelli molto corti e biondi. Gli occhi lucevano cerulei.

Le pupille erano dilatate, ma oblunghe, come quelle di un gatto.

(16) L'INDAGINE


Il Conestabile disse: – Dunque eri solo nel Cortile della Mezzanotte?

– Sì, certo.

Il Conestabile mi guardò. Si chiamava Darko Gravosten, indossava una casacca di panno color ruggine, un poco consunta ai polsi. Il suo ufficio era pieno di vecchi schedari di un colore simile a quello della casacca, a parte le maniglie di ottone lucidate dall’uso.

Era la prima volta che mi guardava. Durante tutto l’interrogatorio aveva mantenuto un’aria distratta, rovistando fra le carte sulla scrivania. Ma io non mi ero lasciato ingannare; mi aveva avvertito zio Uri: “Non lasciarti ingannare da Darko.” Lui e Darko erano stati insieme nella Guardia, poi mio zio se n’era andato e il Conestabile aveva fatto carriera.

– E non hai notato niente di strano nel gruppo che è uscito dal passaggio dell’Unicorno? – Ero talmente deciso a non lasciarmi ingannare che anche il fatto che Darko non insistesse sull’argomento, se cioè fossi solo o no, mi parve sospetto.

– No... Però, uno di loro è arrivato qualche momento dopo gli altri.

– Com’era? – Riprese a sfogliare le carte. Cominciavo a sospettare che quanto più la domanda fosse importante, tanto più il Conestabile sfogliava le sue carte.

– Un sole. Aveva una maschera di ottone, raggiante. Grandi occhi. – Non dissi dell’eclisse.

– E gli altri? Sembravano ubriachi, vero? – Parve controllare degli appunti presi in precedenza.

– Sì.

– Non c'era una donna per caso? Capelli biondi?

– Io non l'ho vista. Con le maschere poi...

Darko sospirò. – Già... Ma sei sicuro che... il sole fosse insieme a loro?

– Sembrava di sì.

Sembrava. E pensai: se loro non avevano visto il cadavere, e se il sole era stato l’ultimo a uscire prima che io e la sirena lo scoprissimo...

– La maschera, quella da Grifone... ti sembrava fosse caduta da sola? O che fosse stata strappata?

Non ci avevo pensato fino a quel momento. Le nostre maschere di solito sono bene assicurate al volto.

– Non ho guardato bene... e non c'era molta luce. – E l'orrore di quella faccia livida aveva attirato troppo la mia attenzione. Ma questo non lo dissi.

Darko sospirò. – Puoi andare.

Mi sentii deluso. Dopo che mi ero presentato spontaneamente... (Non del tutto: era stato mio zio a convincermi, quando avevo raccontato in casa quello che mi era successo la sera prima. Lasciando da parte la sirena, si capisce.)

– Forse dovrò risentirti – aggiunse.

Mi alzai con una certa riluttanza. Darko mi accompagnò alla porta. Mi strinse la mano.

– Salutami tuo zio.

– Sissignore.

Aveva una mano enorme, le dita grosse come il mio polso, o quasi. Prima di lasciare la mia, aggiunse: – Sei un bravo ragazzo.

E chissà perché, io pensai che si riferisse alla sirena, e al fatto che non avessi detto niente di lei.

Uscimmo, io e mio zio, per una porta diversa da quella per cui eravamo entrati, e ci ritrovammo in un altro cortile.

Procedura normale, quando l’assassino è ancora in libertà, mi spiegò zio Uri.

Il quale mi tenne anche informato sugli sviluppi dell’indagine. Aveva molti amici nella Guardia, oltre a Darko. Alcuni del gruppo degli ubriachi erano stati rintracciati. Nessuno di loro aveva visto un uomo steso a terra, e nessuno ricordava il sole. Ma erano ubriachi, e le loro testimonianze non sempre coincidevano.

Il mistero più oscuro era quello che circondava il cadavere. Non era stato ancora identificato. Nessuno aveva lamentato la scomparsa di qualche congiunto o amico. Durante quella Festa delle Maschere vi erano stati altri tre omicidi. Tutte queste vittime erano state identificate. Uno degli assassini era già stato catturato. Un altro era stato scoperto, ma si nascondeva, o (cosa più probabile) era fuggito da Morraine. Il terzo si era suicidato dopo il delitto.

L’uomo assassinato nel passaggio dell’Unicorno indossava vestiti di Morraine, fino all’ultimo bottone. La maschera non era stata fabbricata da alcun artigiano, ma molti, come ho detto, se la fanno da soli o la ricevono in eredità. Vestiti e maschera erano stati conservati. Il corpo, dopo essere rimasto alcuni giorni in una cripta sotto l’edificio della Guardia, era stato cremato, le ceneri sepolte fuori dalle mura. Un pittore aveva eseguito un ritratto a carboncino del viso, di fronte e di profilo, per l’archivio color ruggine nell’ufficio di Darko Gravosten.

 

Anch’io ero stato portato nella cripta, per identificare la vittima. Darko mi aveva chiesto se volevo farlo: era una ben macabra incombenza per un ragazzino. Dissi che non ero più un ragazzino. Il corpo era steso su una lastra di marmo, coperto da un lenzuolo. Scostarono un lembo. Era lui, malgrado la faccia grigia e un po’ gonfia. C’erano altri sei tavoli di marmo nella cripta, tutti vuoti. Il lenzuolo lasciò scoperto l’inizio di un tatuaggio, sul petto, con un uccello a due teste.

Andai alla Biblioteca Canonica di Morraine e consultai alcuni libri di emblemi. Trovai parecchi Soli e Grifoni, ma nulla che li collegasse in qualche maniera. Non ebbi miglior fortuna con gli uccelli a due teste (in gran parte aquile). Darko doveva aver consultato gli stessi libri, o altri analoghi. O forse li conosceva a memoria. Poiché, come ho detto, vittima e assassino sono legati dalle rispettive maschere. In un certo senso, sono le maschere ad uccidere e a morire.

Un giorno, era trascorso circa un mese dalla Festa, mio zio mi prese in disparte. – Sanno dove si trova l’assassino.

– Ah! E non l’hanno ancora catturato?

– Non è così semplice.

– Perché?

– È nel Cortile Segreto.

– Neppure la Guardia può entrarci?

– Oh, sì... avendo delle prove.

– Che non ha?

– No. Non abbastanza.

– Come hanno fatto a identificarlo?

– Non l’hanno identificato. Sanno solo dove cercarlo. E Darko non mi ha detto come c’è riuscito. Vorrebbe parlarti.

– Certamente!

Trovai il Conestabile in un’anonima stanzetta a cui giunsi dopo un giro particolarmente tortuoso, accompagnato da mio zio. L’unica finestra era quella di un abbaiano, da cui scorgevo tetti anonimi.

Nella stanza c’era solo un tavolo e un paio di sedie. Alle pareti, fogli ingialliti, incorniciati senza vetro, con dei ritratti.

Darko e Uri si guardarono per un momento negli occhi, poi mio zio ci lasciò soli.

Il Conestabile slegò i lacci di una cartella appoggiata sul tavolo... Vidi la faccia di un uomo, la barba lunga e lo sguardo corrucciato, disegnata a carboncino.

– Vorrei che tu li guardassi bene – disse Darko. – Nel caso ne conoscessi qualcuno... – Unì le grosse dita sulla pancia, e fissò fuori dalla finestra.

Io cominciai a passare in rassegna i fogli di carta spessa, color avorio. Le facce sembravano tracciate tutte dalla stessa mano: competente ma piatta. I ritratti alle pareti, da parte loro, parevano fissarmi con inquietante intensità.

– Sono ricercati? – chiesi.

Darko vide che guardavo quelli appesi.

– No. – Avevo ripreso a sfogliare i disegni della cartella, quando aggiunse: – Non più.

Dietro ad ogni foglio c’era un sinbolo, una lettera e un numero. Scorsi i ritratti lentamente, soffermandomi su ciascuno circa il tempo di un respiro. Non dedicai più tempo neppure a Torre B 12.

Quando ebbi finito alzai gli occhi. Darko mi stava guardando.

– Vuoi rivederli?

Ripresi a scorrerli, in senso inverso. Indugiai su una Corona, un Unicorno, una Lucertola. Giunto alla Torre ebbi qualche esitazione ulteriore. Alzai la testa, e Darko stava fissando fuori dalla finestra.

– Forse... – Talvolta, una sola parola può cambiare il corso della nostra vita. Un’infinità di cose, del resto, possono cambiare il corso della nostra vita.

Lo straniero pareva molto serio, ma poi sorrise e proseguì.

– Sì? – disse Darko.

– Questo l’ho incontrato, una volta.

– Dove?

– In una bottega di libri.

– Quale?

– Quella di Arno Borissein.

– E poi?

– Poi niente... Mi ha detto che era un Adepto.

– Arno?

– Sì.

– Quando?

– Era inverno... La prima nevicata.

– Ha comprato qualcosa?

– No... Cercava delle mappe.

– Poi?

– Niente. È uscito.

– E tu cosa hai comprato?

– Fiori di bianco prato.

– Cos’è?

– Un manuale di retorica.

Darko sorrise. – Non hai altro da dirmi?

– Il sole... – Ormai non potevo tirarmi più indietro. – Mentre correva quasi perse la maschera. Ho visto dei riccioli biondi. Chiari. Però non vuol dire niente – aggiunsi subito, inutilmente.

Invece di ridiscendere le scale salimmo ancora una rampa. Darko aprì una piccola porta con una grossa chiave.

Strinse la mano di mio zio, poi la mia.

– Non credo che avrò più bisogno di te.

La cosa un po’ mi dispiacque.

Entrammo in una soffitta immensa. Darko rimase fuori e chiuse la porta alle nostre spalle.

Gigantesche travi incurvate ed annerite sostenevano un tetto altissimo, in cui si aprivano rari lucernari che dissipavano appena le tenebre.

Ci incamminammo. Sparsi qua e là, si ergevano ordigni enigmatici, ricoperti da teli polverosi. Di tanto in tanto, a destra e a sinistra, si spalancavano altre soffitte, ancora più buie; incontrammo anche un paio di scale, che salivano ripide verso qualche torre.

Non avevo mai visto spazi chiusi così grandi, a Morraine. Avrebbero potuto viverci decine e decine di famiglie!

Nessuno di noi due parlò per tutto il tragitto.

Infine, mio zio armeggiò intorno ad una botola. C’era un meccanismo a molla, che, immaginai, serviva a non farla aprire dal basso.

Una stretta scala in pietra conduceva ad un ballatoio, con dei panni stesi ad asciugare. Poi delle scale malandate, dove incontrammo bambini non molto puliti e donne che li chiamavano gridando.

Cominciavo ad immaginare dove saremmo finiti.

Attorno ad una delle due fontane c’era un gruppo di ragazzini. Forse erano gli stessi che ci avevano fatto scappare l’estate prima.

Con mia sorpresa, zio Uri si infilò nella porta di un’osteria. L’oste lo salutò come se lo conoscesse. Ci sedemmo ad un tavolo. Mio zio ordinò un boccale di vino. Io avevo fame, e l’oste mi portò due fette di pane scuro, con una salsa indecifrabile e del pesce sotto sale. Per calmare la sete, bevvi qualche sorso del vino di mio zio.

– Hai detto tutto a Darko?

– Sì... Più o meno.

Mio zio finì il vino, e ce ne andammo.