Lia

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(6) ESTATE


Le successive notizie su Lia mi giunsero sotto forma di un foglio appallottolato. Me lo portò mia sorella Denize tre giorni dopo, insieme al pranzo. L’aveva appallottolato, con precauzione eccessiva, per passarmelo di nascosto. Diceva:

“Il carro di Lelius è partito questa mattina, all’alba. Non si sa per dove. Nessuno di noi è più riuscito ad entrare.”

Firmato: Jues.

Quanto a me, negli ultimi tre giorni ero rimasto rinchiuso in una stanza priva di finestre, larga tre passi per cinque, con un letto, una sedia, un tavolo, innumerevoli cose vecchie, e mia sorella che mi portava da mangiare. Anche questa stanza aveva almeno due porte: una era quella da cui ero entrato. L’altra, un buco che precipitava verso le cloache. Non era abbastanza largo da indurmi a prenderlo in considerazione come via di fuga. Di notte faticavo a dormire, e ascoltavo il lavorio dei tarli in una vecchia trave del soffitto. Mi faceva pensare all'inenarrabile trascorrere del tempo.

La punizione scadeva il giorno dopo. Dovevo ritenermi fortunato se non era stata più lunga: la mia reticenza sui particolari della serata nel Cortile Segreto, e la confusione sospetta dei resoconti forniti da Jues e Lucibello non erano stati gran che adatti a suscitare clemenza.

Ma così: addio Lia.

In compenso, sul tavolo c’era un libro con i Canti di Pridery, il mitico fondatore di Morraine. Obbligo: impararli a memoria. Ricordo ancora alcuni frammenti:

“Per sei giorni, per sei notti

cavalcò nella steppa.

Volavano i corvi sulla sua testa

correvano i lupi sulle sue tracce.

Si fermò in un campo di neve.

Due gocce di sangue caddero

sul candido manto.

Due giorni rimase a guardarle:

le guance della bella Yrine.”

Io non avevo a disposizione un campo di neve, ma il viso di Lia affiorava dal buio della stanza, ogni volta che spegnevo la lampada. Mi ossessionava. Mi perseguitava. Mi incantava. La prima notte non dormii. La seconda cercai di fuggire: fu un tentativo maldestro e rumoroso, bloccato sul nascere con mio grave scorno. La terza crollai in un sonno inquieto, pieno di sogni sfuggenti. Quando arrivò il biglietto di Jues ero troppo stanco per disperarmi.

Il giorno dopo venni rimesso in libertà. I miei due amici mi aspettavano.

Senza una parola, di comune intesa, raggiungemmo il Cortile delle Rondini, prendemmo una scala di pietra che diventava di legno all’ultimo piano, e finiva con un pianerottolo privo di porte, illuminato da due abbaini contrapposti, da cui entravano e uscivano le rondini. Uno dei muri terminava prima del culmine del tetto, ed era dotato di appigli sufficienti perché dei ragazzini come noi potessero arrampicarsi. Da lì, uno stretto pertugio dava accesso ad una soffitta piena di piccole aperture quadrate, con un minuscolo caminetto in un angolo: una piccionaia abbandonata. Era il nostro rifugio segreto, santuario ed osservatorio (dalle feritoie si scorgeva buona parte di Morraine). Avevamo costruito una panca e un tavolo. Un baule, lì da prima che giungessimo noi, conteneva le nostre cose più preziose: un coltello a serramanico, un rotolo di corda, un vecchio libro con figure araldiche, varie immagini di pietra intagliata, alcuni pezzi di vetro che facevamo passare per pietre di gran pregio, altri oggetti che non ricordo. Avevamo una lampada ad olio, e d’inverno, quando riuscivamo a procurarci la legna, accendevamo il caminetto.

Ci sedemmo con grande solennità, ed io raccontai tutto quello che mi era successo quella sera nel Cortile Segreto, dopo che l’improvviso mettersi in moto della macchina scenica ci aveva separati. Non nascosi nulla ai miei amici... se non per attenuare un poco la paura provata.

Ciò che più di tutto li affascinò, fu il laboratorio di alchimia (come io lo definii senz’altro), e il burattino. Io pensavo soprattutto a Lia, ma ero contento di non doverne parlare troppo. Sulla natura magica delle marionette, nessuno nutrì dubbio alcuno. Neppure Lucibello, che ci teneva a passare come il più disincantato di noi. Che Lelius fosse un mago, anche questo pareva cosa scontata; che Lia fosse soggetta ad un incantesimo, in mancanza di prove decisive suscitò qualche dubbio, ma nessuno volle contraddirmi fino in fondo su questo punto.

Essendo sparito Lelius con il suo carro, la cosa che interessava di più i miei amici era il Cortile Segreto. E soprattutto quella torre, con la corda che forse ancora penzolava su qualche tetto, accessibile a qualunque ragazzino intraprendente!

Erano tutti e due in piedi. Lucibello aveva aperto il baule, si era impadronito della corda e del coltello. Jues si stava arrampicando verso l’uscita.

Ormai non c’era più modo di trattenerli. Partimmo alla ricerca della torre.

L’impresa si rivelò ben presto più difficile del previsto. Per prima cosa, raggiungemmo la cima del Belvedere Dorato, uno dei punti di osservazioni più celebri di Morraine, in cima ad un’altura situata nell’angolo nord-est della città, un tempo mastio di una fortezza trasformata ormai in giardino pubblico: vi si svolgono fiere e spettacoli all’aperto; nei giorni festivi vi dà spettacolo la banda cittadina, sotto gli alberi secolari bancarelle vendono dolci, frittelle, bibite; di sera vi passeggiano gli innamorati. Scrutammo per un’ora buona il panorama, ma non riuscii ad individuare la torre. Molte erano più o meno quadrate, coperte da un tetto, ma nessuna mostrava tracce di corde. Del resto, non mi ero soffermato troppo ad osservarla dall’esterno, mentre fuggivo, e la luce della luna era ingannevole...

Decidemmo di cercare un punto di osservazione più vicino, anche se più basso. Ne provammo vari: la Torre dell’Unicorno per prima, perché mi pareva di ricordarne esattamente la posizione, rispetto al Cortile Segreto: nuova perdita di tempo. Poi, il Panspherion, con uguale insuccesso. I custodi della Torre degli Sguardi ci costrinsero a sloggiare dopo qualche minuto; la Terrazza dei Profumi, oltre ai suoi famosi fiori, possedeva dei cannocchiali: lunghi tubi in ottone dalle lenti imperfette; inutili alla nostra bisogna; e poi l’angolazione era probabilmente sbagliata.

Nel frattempo era giunto il tramonto, e la luce incerta non permetteva di proseguire le ricerche.

La sera mi era stato tolto il permesso di uscire. Forse fra un paio di settimane... e nel frattempo la luna sarebbe stata nuova.

Il giorno successivo scegliemmo un approccio ancora più ravvicinato: battemmo i cortili circostanti a quello Segreto. Ma erano tutti piuttosto stretti, le case alte, e la torre ci si negò anche questa volta. Provammo varie scale, ma tutte si interrompevano prima di raggiungere i tetti, come se formassero una prima linea difensiva intorno al Cortile stesso.

Il terzo giorno decidemmo di provare la via più ovvia, ma che avevamo fino ad allora rimandato, per le ragioni che capirete subito: il cortile in cui ero sceso quella notte.

Era un cortile, ma aveva un nome singolare per Morraine: si chiamava piazza: Piazza dei Miracoli.

Vi sono alcuni luoghi a Morraine che si fregiano di indicazioni tipiche di tutte le normali città: vie, piazze, viali, vicoli. I più ritengono che ciò dimostri semplicemente che un tempo Morraine era stata una città come le altre, cresciuta poi dentro se stessa, occupando tutti gli spazi disponibili. Portano a riprova di questo le tracce di giunture fra edifici un tempo separati, che mostrano materiali e tecniche costruttive diverse, e appaiono distribuite secondo tracciati più o meno rettilinei. Altri oppongono spiegazioni più fantasiose, di cui riferirò solo una: che Morraine sia in realtà un solo, gigantesco edificio (per la precisione un tempio), unico sopravvissuto di una città immensa che un tempo occupava tutta la pianura fino alle pendici dei monti Yiril.

Sia come sia, la Piazza dei Miracoli (anche sull’origine di questo nome esistono varie ipotesi), era uno spazio di forma più o meno ellittica, con due fontane ornate di statue mutile, usate comunemente per lavare la biancheria, un acciottolato irregolare, pieno di erbacce, nessun albero, nessun porticato, ma numerosi androni. La facciate delle case vantavano tracce di anteriori, ciclopiche costruzioni, sotto forma di pietre squadrate alte due braccia e larghe quattro; innumerevoli balconi disposti in apparente disordine; file di panni stesi ad asciugare.

Entrando mi resi conto di due cose: la prima, che non ero in grado di riconoscere l’androne dal quale ero sbucato, quella notte; la seconda: che un gruppo di ragazzini, fra cui alcuni più grandi di noi, ci stavano guardando con aria poco amichevole. Iniziammo un cauto circuito del cortile. Gli altri interruppero il loro gioco, che consisteva nel gettate dei sassi contro un muro e farli rimbalzare il più vicino possibile ad una linea segnata in terra con il gesso, e cominciarono a seguirci, dapprima con lo sguardo e poi con i piedi. Noi tre ci guardammo, scrutammo gli androni. Nessuno sembrava promettente. Affrettammo il passo. Arrivammo ad un quarto di giro. Gli altri erano vicini, il loro aspetto sempre meno rassicurante: sporchi, gli abiti rappezzati, i più piccoli a piedi nudi. Tenevano ancor in mano i sassi con cui avevano giocato.

– La fontana – disse Lucibello, e senza aspettare risposta, partì di corsa. Lo seguimmo senza esitare. In effetti, una delle due fontane era vicinissima, e ci arrivammo nel giro di qualche battito di cuore, prendendo alla sprovvista i nostri avversari.

 

Le donne che stavano lavando si misero a ridere. Avevano le gonne sollevate, che lasciavano scoperte gambe grassocce e rosee, magre e pelose, e ogni via di mezzo. Cominciarono a spruzzarci di acqua insaponata, e Jues scivolò sulle pietre bagnate, finendo disteso per terra. Una delle lavandaie lo sollevò di peso, e con una pacca sul sedere lo spedì nella direzione della porta opposta a quella da cui eravamo entrati. Un’altra gridò ai ragazzini della Piazza dei Miracoli di lasciarci in pace. Io e Lucibello seguimmo Jues senza bisogno di incoraggiamenti.

In breve: trascorremmo l’intera estate a cercare la torre del Cortile Segreto. Provammo ogni tetto, ogni campanile, ogni terrazza, ogni torre accessibile. Penetrammo in ogni androne (diciamo: quasi ogni androne), salimmo ogni scala, uscimmo da ogni abbaino. I proprietari dei tetti avevano ormai imparato a riconoscerci, e si lamentarono con i nostri genitori. Fummo puniti; tornammo liberi; ricominciammo da capo. In piena estate, ci aggiravamo sui tetti nelle prime ore del pomeriggio, quando il sole a picco teneva tutti lontani dalle terrazze, e le tegole bruciavano i nostri piedi nudi.

Provammo anche l'intrico dei corridoi interni, dopo essere penetrati negli edifici più vicini al cortile segreto. Come in un labirinto, ci perdemo irrimediabilmente in un intrico di di passaggi spesso ciechi.

Avvistammo la Torre varie volte. Ma senza alcuna corda che ne penzolasse. O era stata ritirata, o nessuna di esse era la vera Torre.

Alla fine, diventò una sorta di miraggio, un fuoco fatuo, un fantasma, un sogno. Ci aiutava a trascorrere le lunghe e pigre giornate estive. O meglio: aiutava i miei due amici. Per me la Torre era solo un possibile ma remoto contatto con Lia, con le sue marionette, con Lelius.

Ci appostavamo per lunghe ore, al tramonto, presso la porta del Cortile Segreto. Non la vedemmo mai aprirsi; le finestre rimanevano sempre buie. Seguimmo varie figure dall’aria misteriosa che passarono davanti ad essa: scoprimmo pescivendoli e sellai, tintori e ciabattini, garzoni di bottega e servette. Cercammo più volte di esplorare la Piazza dei Miracoli, anche di sera, senza scoprire la scala da cui ero disceso.

Interrogammo tutti quelli da cui ci aspettavamo qualche risposta circa il Cortile Segreto e i suoi abitanti. Ottenemmo risposte ambigue, ironiche, irritate, alzate di spalle e risolini. In qualche caso anche il consiglio di desistere.

Lucibello, che era il meno ingenuo ma anche il più audace di noi tre, propose ad un certo punto di provare i sotterranei. Si dice infatti che nel sottosuolo di Morraine esista una seconda città, una rete di passaggi analoga a quella che conduce da un cortile all'altro, da un corridoio all'altro, da un tetto all’altro. Lucibello stesso affermava di aver trovato una porta nella cantina della sua casa. Chiusa, peraltro.

Il piano era emozionante e inattuabile (e sospetto che Lucibello ce l’avesse proposto perché sapeva che l’avremmo rifiutato): nessuno di noi aveva mai provato a percorrere i sotterranei; non avremmo saputo come orientarci; infine, c’erano leggende sugli inquietanti abitanti del sottosuolo...

Scartammo l’idea. Del resto, l’estate stava ormai finendo, e quel gioco che ci aveva occupato per tanto tempo cominciava a perdere un po’ del suo fascino.

Mentre i pomeriggi si accorciavano, cominciammo a riprendere le nostre occupazioni normali. Con l’approssimarsi della vendemmia, Jues accompagnava sempre più spesso suo padre nella vigna. Lucibello fu spedito a fare il garzone presso un panettiere: si alzava in piena notte per impastare e infornare, dormiva durante il pomeriggio; la mattina ci portava pezzi di focacce, dolci, pane ancora caldo.

Quanto a me, aiutavo mio padre, che faceva il falegname e teneva bottega nel Cortile del Nano, così detto a causa di una figura incurvata, dalle fattezze indecifrabili, che reggeva un obelisco posto al centro del cortile.

Nel frattempo, io conducevo una mia indagine personale. Volevo sapere se Lelius era già venuto a Morraine altre volte, a parte le due che conoscevo; e di conseguenza, se ci sarebbe tornato. Poiché a me, molto più del Cortile Segreto, interessava Lia.

Appresi pochissimo. Quasi nulla. La cosa più singolare fu questa: non trovai nessuno che avesse assistito alla rappresentazione della storia di Teseius e Phenissa, o che ne avesse sentito parlare.

Taluni ricordavano un attore che poteva o non poteva essere Lelius, venuto a Morraine tre, quattro, o forse sei anni prima. Del resto, molti attori girovaghi capitavano ogni anno in città, e chi poteva ricordarli tutti?

Ogni volta che arrivava una compagnia di comici, cercavo anche presso di loro notizie sul dottor Lelius Abramus. Impresa non facile: gli attori, scoprii, sono per natura e professione gelosi e maldicenti dei loro colleghi. La fama di un attore è la sua principale fonte di guadagno, e per evitare che quella dei rivali si diffonda, preferiscono affettare ignoranza, piuttosto che suscitare curiosità dicendone male. In breve: nessuno conosceva o voleva ammettere di conoscere Lelius e la sua compagnia di trapezisti, giocolieri, domatori, saltimbanchi, eccetera. Una sola volta, un vecchio capocomico, sentendo il nome, sputò a terra.

Non osai chiedere altro.

Ma ormai una cosa era chiara: restando a Morraine non avrei potuto apprendere molto di più.

(7) LA PROVA


Nel mese della Nebbia-fra-i-rami-spogli, come viene chiamato a Morraine il periodo in cui l’autunno declina nell’inverno, presi la mia decisione. La decisione più importante della mia vita.

Qui il nostro narratore si interruppe e sorrise. Senza di essa, infatti, non sarei fra di voi. Ma è necessaria una spiegazione.

Come già sapete, Morraine è un’unica casa, racchiusa nelle mura di una normale città. Ciò significa che tutto il suo spazio interno è in gran parte già occupato. E data l’indole dei suoi abitanti, nessuno ha mai costruito la sua abitazione fuori dalle mura.

Per un raggio di venti leghe intorno a Morraine ci sono solo capanne per gli attrezzi agricoli, o per trascorrere qualche notte nella stagione del raccolto. Oltre, cominciano i villaggi e i paesi di coloro che vengono a Morraine per i mercati settimanali: gente che parla con la voce forte e alta di chi ha intorno alla sua casa uno spazio vuoto, e che noi ragazzini guardavamo con un misto di timore e sufficienza.

Ma a parte questo, che c’entra poco o niente, quello che voglio dire è che lo spazio, a Morraine, è limitato. Le possibilità di costruire nuove abitazioni sono prticamente nulle, per motivi igienici ed estetici, come minimo. Con qualche piccola eccezione, come vi racconterò a suo tempo...

Ma Morraine è ragionevolmente ricca e prospera: la sua pianura fertile, i fiumi abbondanti di acque, i suoi artigiani famosi anche dove gli uomini parlano altre lingue.

E a seconda delle circostanze (o dell’influsso degli astri, come vogliono alcuni), la sua popolazione aumenta.

Che fanno coloro che sono in eccesso? Se ne vanno, naturalmente. O non tanto naturalmente. Leggende antiche alludono a sparizioni misteriose, a rapimenti da parte di gnomi o di fate, e in queste leggende un ruolo importante giocano i cunicoli sotterranei della città. Ma ai miei tempi, posso giurarlo, nulla di tutto questo accadeva.

Chi se ne va è detto Portatore-della-lampada, perché al momento di lasciare la città, i suoi parenti gli affidano una lampada e dell’olio, che serviranno ad illuminargli la via.

I motivi per cui i portatori abbandonano Morraine sono molteplici e tutti convincenti. Perché una simile categoria di persone faccia la sua apparizione proprio nei momenti di sovrappopolazione, nessuno è mai riuscito a spiegarlo in maniera definitiva.

È come se una segreta inquietudine pervadesse la gioventù di Morraine, un desiderio di cose nuove, un’insofferenza verso i costumi dei padri, tanto forte da superare l’avversione per i luoghi dove “i muri non si incontrano”.

Nel mio caso, il desiderio si chiamava Lia. Il tempo, era quello dell’Abbondanza di Figli. Come le due cose coincidessero, è un mistero che non presumo di risolvere.

Il Portatore della Lampada è segnato, è quasi sacro. I cinici dicono che è il benvenuto: uno in meno! Comunque, nessuno contesta la sua decisione, e tutti si prodigano in aiuti.

Io avevo quattordici anni, che è giusto l'età minima per partire. Però non desideravo solo andarmene: desideravo andarmene per trovare Lia. Non potevo sopportare l’idea di aspettare, a Morraine, che Lelius riapparisse con il suo carro... fra un anno, o forse dieci, o forse mai.

Ma... lasciare Morraine! Viaggiare per il mondo! La prospettiva mi sgomentava. E c’erano anche un paio di ostacoli di ordine pratico. Primo fra tutti: come mi sarei guadagnato da vivere, durante il viaggio? Poiché la speranza di partire con ricchezze sufficienti appariva remota. La mia non era una famiglia ricca, e Morraine non offre occasioni di facili guadagni. Per non dire del fatto che la prospettiva di viaggiare con molto denaro era più inquietante che rassicurante: l’ignoranza ingigantisce i pericoli, soprattutto per chi, come me, era sempre vissuto entro le mura di una sola città-casa. No: una dignitosa povertà appariva più praticabile.

Che fare? Un’idea si presentò naturale alla mente: diventare io stesso attore! Farmi assumere da qualche compagnia di comici, percorrere le stesse strade di Lia!

L’idea mi riempì di entusiasmo. Presi a frequentare con assiduità ancora maggiore di prima tutti gli attori girovaghi che capitavano in città, e anche i saltimbanchi, i funamboli, i suonatori, perfino quelli che fanno ballare orsi e scimmie. Talvolta, soprattutto le compagnie più numerose hanno bisogno di qualcuno che dia una mano per allestire il palco e le scene, in cambio di qualche soldo o di un posto nelle prime file di panche. Ma ahimè, nessuno era interessato ad un ragazzino della mia età come attore: i pochi ruoli di giovinetto, nella severa economia dei teatranti di strada, venivano assunti da una delle donne.

Mi convinsi, mio malgrado, alla pazienza. Dovevo prepararmi, attendere il momento opportuno, raccogliere informazioni. E chissà che nel frattempo a Morraine non ricomparisse Lelius...

Sarei diventato un attore! Nel mio entusiasmo, riuscii a trascinare e i miei due amici, e accarezzai perfino l’idea di formare con loro una compagnia: qualche ragazza l’avremmo trovata, accumulando risparmi avremmo comprato un vecchio carro, i cavalli e qualche costume, e poi... le vie di tutte le Terre di Mezzo sarebbero state nostre! Da Seth ad Aix, da Aiguerre a Kaliphrene, dalle montagne al mare, e magari oltre...

Nella nostra soffitta segreta allestimmo un teatro: Jues rubò una vecchia coperta di broccato blu a sua madre, per fare da fondale. Lucibello, grazie ai suoi soliti, misteriosi espedienti, arrivò un giorno con un costume da Artefice di Multiformi Metamorfosi. Il nome doveva esserselo inventato lui, ma il costume era senza dubbio impressionante: ampie brache verde cobalto, camicia che assumeva varie sfumature di viola a seconda di come la luce la colpiva, farsetto nero in cui erano intessute minute pagliuzze d’oro, scarpe nere con fibbia d’argento, cappello a cono con tre tese rivolte all'insù e uno stravagante pennacchio. La stoffa aveva il difetto di strapparsi ad ogni gesto un po’ brusco: ma questo era un segno della sua venerabile antichità.

Jues poi, che aveva una folta schiera di sorelle, venne costretto suo malgrado a procurarsi (e ad indossare) un improbabile costume da principessa. Il mio contributo al guardaroba fu piuttosto scarso: un cinturone di cuoio irrigidito, una spada che avevo fabbricato e dorato nella falegnameria di mio padre, il vecchio elmo di mio zio, che aveva servito qualche tempo nel corpo di guardia di Morraine. Ma soprattutto: un copione. Frugando in un baule dove erano conservati vecchi libri di mia zia, trovai alcuni scartafacci ingialliti, fragili, mangiati dai topi, formati da poche decine di fogli cuciti, con rozze incisioni sulla copertina e titoli come: La mirabile Historia dei Dodici Cavalieri, Le Due Figlie del Peccato, Il Mago di Qom, La Freccia insanguinata, Il volo dell’Uccello Fatato, Il Messaggero del Re, e altri ancora. Purtroppo, non trovai ciò che più avrei desiderato: la storia di Teseius e Phenissa.

 

La scelta ci occupò a lungo. La Mirabile Historia aveva evidentemente un numero eccessivo di personaggi, e nelle Due figlie ce n’era una di troppo. Il volo dell’uccello comportava l’uso di complicate macchine sceniche e così via.

Alla fine, anche per via del costume di Lucibello, la nostra scelta cadde sul Mago di Qom, che presentava anche il vantaggio di avere solo tre personaggi principali. La storia è semplice: il malvagio mago Zarkos costringe alle sue voglie la bellissima Zeryna, minacciando di orribili tormenti il suo fidanzato Glyon se la fanciulla non acconsente. Per salvare l’amato, Zeryna in uno straziante colloquio lo ripudia, simula amore per Zarkos; Glyon medita alternativamente vendetta e suicidio, maledice il momento in cui è nato. Ma nel giorno stesso delle nozze, già abbigliata nell’abito da sposa, Zeryna sceglie di morire di propria mano, eccitando così gli animi di tutta la cittadinanza di Qom contro la folle superbia di Zarkos. Glyon si fa artefice della giustizia, uccide il mago, viene proclamato eroe.

La versione in nostro possesso abbondava di monologhi patetici, declamati da Zeryna e Glyon (ossia: Jues ed io), che mi incaricai di accorciare ed accomodare, trasformando ad esempio le “perle distillate dall’amara rugiada del ricordo” in semplici “lacrime di rimorso”.

I preparativi si trascinarono fino ad inverno inoltrato, anche perché nessuno di noi aveva molto tempo libero. Il giorno della prima prova aveva gelato. Le fontane nei cortili sembravano candelabri rovesciati, e l’acqua poteva essere attinta solo dai pozzi. Avevamo portato della legna per accendere il caminetto nella nostra soffitta segreta, e le feritoie per i piccioni erano state otturate con stracci e paglia.

Ciascuno si era imparato a memoria le parti del primo atto. Iniziava Lucibello, nella parte del mago, e ci lasciò senza fiato: nella luce rossastra e balenante delle fiamme, che mettevano in risalto al meglio il suo costume, sembrava un’apparizione infernale, mentre il vento che soffiava dalle fessure caricava le sue parole di orrore. Il suo fisico poi era perfettamente adeguato al ruolo: magro, quasi ossuto, il viso affilato dal naso aquilino e dalle sopracciglia nere e folte. Jues ed io applaudimmo con convinzione.

Toccava poi alla vergine Zeryna. Jues, devo dire, se la cavò con onore, malgrado le vesti lo impacciassero non poco e la parte lo imbarazzasse. Fu sufficientemente patetico, senza scadere nel lacrimoso; evitò la trappola del falsetto, accontentandosi della sua voce normale, e comunicando il senso della femminilità tramite un gestire sobrio, il capo pudicamente reclinato. Anche lui ebbe applausi meritati. Jues (mi accorgo adesso di non aver mai descritto i miei due amici, e colgo l'occasione per rimediare) al contrario di Lucibello era un tipo bene in carne, con riccioli color carotae e carnagione pallida, non priva di qualche lentiggine. Cosa di cui all'epoca si vergognava parecchio

Toccava a me. Sebbene non avessi praticamente pubblico, il cuore mi batteva forte, mi pareva di soffocare. Le prime parole mi uscirono a fatica. Mi ripresi, prosegui brandendo la spada; arrivato al verso “non resterà questo ferro in ozio”, mi interruppi per un vuoto di memoria. Lucibello mi sibilò le parole. Riattaccai. Alzai con troppa foga la spada, che si spezzo contro una trave del tetto. Lucibello dovette aiutarmi altre due volte. Finii in fretta e furia. Dopo qualche secondo, Jues provò ad applaudire, senza convinzione. Lucibello si era già tolto il costume.

– Io devo scappare – disse.

Jues si districò dalle gonne. – Allora ci vediamo... domani? – propose.

Feci un vago cenno col capo. Jues uscì. Io mi tolsi elmo e cinturone, raccolsi i pezzi della spada, riposi tutti i costumi nel baule. Del fuoco non restavano che poche braci. Spensi la lampada e me ne andai.

Quella sera avevo capito che non sarei mai diventato un attore.