Lia

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(26) LA STORIA DI LY


Lektos Ly! Il monarca, il tiranno, l’affamatore del popolo, il violentatore di fanciulle!

Guardai con occhi spalancati l’uomo biondo e la sua cicatrice, poi la donna che gli sedeva accanto, con un’espressione allarmata, e infine i miei compagni, che in verità non mi parevano stupiti quanto la situazione sembrava richiedere.

– Ho saputo della vostra recita a Larissa – iniziò il tiranno. – No, no, non dovete scusarvi – (nessuno, mi pareva, aveva accennato a scusarsi). – Questo è il primo motivo per cui devo ringraziarvi. È stata un’occasione per dimostrare che non tutti a Larissa sono disposti a chinare la testa davanti al nuovo regime. Il nome di Lektos Ly non è solo esecrato e vilipeso, il fango della menzogna non l’ha ancora ricoperto del tutto.

Si andava infervorando.

– Scusatemi. So che le vostre intenzioni erano altre, e non posso certo farvene una colpa. Ho imparato anch’io, e molto in fretta, questa lezione: che chi vive sulla strada non può permettersi di guardare se la mano che gli porge il cibo abbia le unghie curate. Forse un giorno potrò ricompensarvi per il rischio che, mi pare di capire, avete corso a causa dell’azione messa in atto dai miei sostenitori. Oltre, naturalmente, ad aver salvato me e la mia compagna dai sicari dei Dieci, poco fa. Suppongo faccia parte della nobile arte dell’attore riconoscere la vera natura degli uomini sotto le apparenze. Voi avete riconosciuto la nostra e ci avete protetto, e quella dei cavalieri, e li avete mandati su una falsa pista. Sì: erano sicari incaricati dai tiranni di Larissa di cercarci. Per uccidermi, suppongo. E non oso pensare a ciò che avrebbero fatto a mia moglie e alla creatura che...

Prese la mano della donna senza finire la frase.

– Non si accontentano più del mio esilio!

La sua compagna gli lanciò un’occhiata che pareva vagamente di rimprovero. Intuii che volesse dire: non sei davanti a qualche assemblea! Sta di fatto che da quel momento l’esposizione di Lektos Ly divenne un poco meno magniloquente.

Ma ecco, così come la ricordo, la sua storia.

Sono stato Tecnarca di Larissa. Non per mio merito, ma per intrighi altrui. Una comparsa destinata a lasciare la scena poco dopo il levarsi del sipario, giusto il tempo di intrattenere con qualche lazzo gli spettatori, mentre dietro le quinte gli attori veri si disputavano la parte principale. Le grandi famiglie che governano Larissa si erano accordate su di me come male minore, burattino, capro espiatorio se fosse stato necessario. Un animale ammaestrato, ecco cos’ero per loro!

Ly tratteneva a fatica la rabbia. Si era alzato, e solo la mano della sua compagna lo indusse a risedersi.

Sono stato Tecnarca di Larissa per nove anni. Gli attori veri non si aspettavano che durassi tanto a lungo. Ma gli accidenti della fortuna, lo stallo delle forze, il favore del popolo... da burattino a burattinaio.

Come sempre l’esercizio del potere crea nemici. Rancore in chi se l’è visto sfuggire di mano, invidia in chi pensa di possedere meriti superiori, e tante altre sfumature di odio.

Concepii, iniziai ad attuare un piano audace: liberare Larissa dalla cappa soffocante della sue tradizioni, dei patetici rituali che ci rendono oggetto di riso nelle città all’intorno, che ci impediscono di trarre giovamento dalle ricchezze del nostro territorio e dall’ingegno del nostro popolo.

Pensavo di poter iniziare quest’opera dai luoghi stessi del potere, dalla cerchia di persone che mi era più vicina, dai costumi che sovrintendono ai legami di parentela della nobiltà.

Dovete sapere questo: diventando Tecnarca mi ero fidanzato. Poiché non ero sposato, la scelta era stata quasi obbligata. La fanciulla apparteneva ad una delle famiglie che avevano stretto il patto sulla base del quale ero giunto al potere. Costei, in effetti, era solo una nipote acquisita del capo di una delle famiglie in questione: segno della considerazione in cui mi tenevano! Comunque, non devo lamentarmi: fra la nobiltà di Larissa, i matrimoni vengono combinati in funzione delle alleanze politiche. Suppongo accada in molti altri posti.

Ho detto fanciulla, ma dovrei dire bambina. All’epoca del nostro fidanzamento lei aveva otto anni. L’età minima per sposarsi da noi è di quattordici, per le femmine. Per sei anni, dunque, il matrimonio rimase una promessa. Un altro trascorse nell’attesa: se l’età minima è quattordici, il costume l’allunga normalmente di un anno. Nel frattempo, lei era cresciuta: una creatura pallida e fragile, che a fatica si poteva immaginare potesse procreare dei figli. Aveva grandi occhi neri e l’ombra violacea delle vene dietro la pelle color cera. Questo è quanto ricordo di lei. Il suo nome non ha importanza.

Le facevo visita una volta alla settimana. In presenza delle sue dame di compagnia, conversavamo: del tempo, di etichetta, dei colori dei vestiti da indossare durante una caccia alla volpe, e di quelli per una gita in collina a mezza estate.

Tra le sue dame di compagnia...

Ly gettò un’occhiata alla sua donna, che arrossì leggermente.

Avrete compreso. I nostri occhi spesso si incontravano. Il suo saluto, cominciai ad immaginare, era diverso da quello che rivolgeva a chiunque altro. Giunsi ad attendere con ansia quegli incontri con la mia fidanzata!

Ly fece una lunga pausa. Poi riprese bruscamente.

In breve: diventammo amanti. Blanche ed io.

La cosa, inevitabilmente, si riseppe. Questo, di per sé, non era motivo di scandalo. A un Tecnarca, come ad ogni potente, sono consentite delle distrazioni, soprattutto se non ancora sposato, e a patto che ad esse indugi con discrezione.

Ma io e Blanche non eravamo solo amanti. Ci amavamo. E questa, questa era una inconcepibile infrazione all’etichetta!

Blanche rimase incinta. Anche questo si sarebbe potuto accomodare. Una periodo di vacanza in qualche villa di campagna... Le famiglie nobili di Larissa sono piene di bastardi.

Fu a questo punto che concepii il mio piano. Audace, folle, ingenuo: giudicate voi.

La mia politica di riforme mi aveva creato molti nemici, ma anche un seguito di sostenitori entusiasti: mercanti, cadetti, qualche nobile dalle idee aperte, letterati imbevuti di antiche dottrine, popolani che non avevano nulla da perdere. Sfidai il Senato. Ripudiai la mia promessa sposa. Contemporaneamente, proposi leggi innovative, rivoluzionarie: dal condono dei debiti, alla ridistribuzione delle terre. Fidavo nel sostegno di chi mi aveva manifestato simpatia durante gli anni di regno, e del popolo che non poteva non vedere in me un difensore, nello scarso peso familiare della mia ex-fidanzata.

Si sa: gli amici si trovano nella buona sorte, si perdono nella cattiva.

Molti che credevo fidati si tirarono indietro. Alcuni presero le parti dei miei avversari. Pochi mi rimasero fedeli. Perfino lei, la mia promessa sposa, trovò parole eloquenti per accusarmi davanti al senato. Tanto può l’orgoglio ferito; o forse qualcuno le aveva preparato il discorso.

Quanto al popolo, per lo più, rimase a guardare. Mi resi conto che per loro ero solo un nobile come gli altri, forse con idee un po’ bizzarre. Non mi avevano mai capito, né io avevo capito loro, suppongo.

Ecco, la mia storia è già finita.

Alzò le spalle.

Hanno decretato il mio esilio, sotto una qualche accusa di tradimento. I pochi amici che mi sono rimasti sono costretti a muoversi nell’ombra... come nell’occasione del vostro spettacolo. Ed ora si cerca anche la mia morte, temo. E forse quella di...

Non riuscì a continuare, forse per le lacrime, ed abbracciò la sua compagna, Blanche.

Il racconto di Lektos Ly ci lasciò grandemente commossi. Myrtilla aveva gli occhi lucidi. Gertrid abbracciò Blanche. Astrix si lisciava i baffi, e Dumpy Dum era singolarmente taciturno. Baran cercò di rincuorare Ly.

– Se davvero cercano di uccidervi, vuol dire che vi temono. Forse i vostri seguaci sono più numerosi di quanto immaginiate.

Ly sospirò. – Ahimè, non credo. Le famiglie di Larissa sono note per la pertinacia dei loro rancori, e l’acutezza dei loro sospetti.

Quanto a me, meditavo con emozione sul fato straordinario di trovarmi ad assistere ad una tragedia vera, non recitata ma vissuta! C’erano tutti gli ingredienti: scontri di potere, intrighi, amore, tradimento, morte...

Morte?

Guardai Blanche. Il suo viso portava i segni di quella bellezza stanca e tenera che è propria delle donne in attesa del loro primo figlio. Osservai Ly: la bella fronte sfigurata dalla cicatrice, che non ci aveva raccontato come si fosse procurato, e che gli dava un’espressione di fiera tristezza. Forse, pensai, era meglio che la vita non assomigliasse in tutto ad una tragedia. A quali spettatori poteva interessare un matrimonio felice, qualche figlio, una tranquilla vecchiaia, la morte nel proprio letto?

Ma se non parlava della vita, di cosa parlava la tragedia? Forse i suoi personaggi vivevano in un altro universo. In quello del mito, o del sogno, o del palcoscenico.

(27) LA LEZIONE DI BARAN


È possibile che queste riflessioni, o altre analoghe, si fossero presentate anche a Baran. Perché quella sera stessa, dopo avere abbondantemente bevuto, e forse anche per distrarre Ly e la sua compagna da pensieri più tristi, ci intrattenne con alcuni ammaestramenti sul teatro e sulla vita.

 

Non rammento esattamente come ci arrivò, ma ecco il succo della sua lezione, che, benché opinabile non mi pare del tutto priva di interesse.

Se volete che il pubblico pianga (iniziò Baran), è necessario innanzi tutto che gli attori piangano, e prima di loro chi ha trovato la vicenda. Vi chiederete perché abbia usato la parola “trovato” e non “inventato”. È presto detto: creare storie in realtà è come pescare nel fiume immenso dell’esistenza umana. Poeta è chi sa scegliere l’esca migliore, e il punto esatto della corrente.

Ma cosa pesca il poeta? Parole! Nient’altro che parole!

Questo disse Baran, e lo ripeté il naufrago venuto dal deserto, e se ben ricordate non è molto diverso da ciò che ho detto io, il vostro umile scrivano, all’inizio di questa mia relazione.

Cosa ci mette di suo, allora, il poeta? L’ordine. L’ordine è tutto. Ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Il fiume della vita scorre confuso e torbido. Il poeta lo rende limpido, come un torrente di montagna in cui potete contare i sassi del fondo.

Ma l’attore può aggiungere qualcosa alle parole del poeta. Qualcosa di unico e irripetibile. Cosa? So già quello che state pensando: il tono della voce, l’espressione del viso, l’incedere e il gesto. Tutto vero. Ma ciò che più conta, ciò che veramente conta, è altro.

Qui fece una pausa d’effetto.

Il silenzio. Il silenzio fra una parola e l’altra. Ossia, tutto ciò che non può essere scritto. Poiché, dovete sapere, la grandezza si ottiene aggiungendo, ma la perfezione togliendo.

Ma vediamo meglio cosa è quest’ordine di cui parlavo. Un’antica massima dice: simile alla pittura è la poesia, ed io per primo non ho ragione di contestarla. Tutti voi sapete quanta cura dedichi ai costumi di scena e ai fondali, e guai se le lampade non distribuiscono nella maniera più efficace luci ed ombre (qui ammiccò nella mia direzione). Vi chiederete cosa c’entra questo con la poesia propriamente detta, ma era solo per darvi l’idea.

(Se Baran non era molto coerente, dovete ricordare che aveva bevuto un po’. Un po’ più di quanto fosse solito, cioè.)

Ma il silenzio? Ecco, questo la pittura non lo sa riprodurre. Allora, dico io, perché non prendere esempio anche dalla musica? Qualcuno oserebbe negare che la poesia è anche simile alla musica?

Nessuno di noi osò negarlo.

Ma passiamo a quelli che sono i dettami più propri della nostra arte.

Se vogliamo che gli spettatori rimangano fino alla fine della recita, e ricompensino generosamente i nostri sforzi, con applausi, e meglio ancora con monete sonanti, prima cura dell’attore deve essere la ricerca del verosimile. E questa si ottiene osservando i costumi degli uomini, mutevoli a seconda degli anni e delle indoli: quelli del fanciullo che ha appena appreso a parlare e nel giro di pochi momenti passa dal riso al pianto; quelli del giovane ancora imberbe che appena libero dalla sorveglianza dei genitori o del tutore, cerca i piaceri della sfida o dell’amore, pronto ad abbandonare oggi ciò che ieri piaceva. Il fiore dell’età e delle forze virili ricerca onori e ricchezze, amicizie e potere: brame dubbiose, che agitano la vita e lasciano insoddisfatti anche chi le ha raggiunte. Da vecchio infine, assediato da molti affanni, ecco che è timoroso di perdere ciò che ha acquistato, ricorda con nostalgia la sua passata gioventù e condanna i giovani del suo tempo.

Osservare, osservare: questo è il primo impegno dell’attore. Al mercato la servetta che compra verdure, sulla piazza l’incedere di un signorotto, all’osteria i discorsi di un ubriaco, sulla strada un viaggiatore incontrato per caso (qui lanciò un’occhiata a Lektos Ly): tutto questo può suggerirvi come muovere una mano o alzare un sopracciglio nella recita successiva.

I particolari: ecco il segreto dell’artista. In null’altro si distingue il grande attore, o il grande poeta, musicista, pittore, dal mediocre mestierante. Nei particolari si nasconde la divinità.

Soddisfatto di quest’ultima massima, Baran si versò un’abbondante dose di vino e bevve con gusto.

Molti, riprese, si sono chiesti se l’arte del poeta risieda nella dote di un ingegno naturale, oppure nell’attenta cura della propria educazione. A questa domanda, amici miei, vi è una risposta semplice e inutile: in entrambe. E una seconda risposta, complicata e altrettanto inutile: nella giusta misura delle due. La complicazione risiede nel fatto che ciascuno può calcolare a suo modo la giusta misura.

Io seguivo con grande attenzione il discorso di Baran. Approfittai di una pausa per guardarmi intorno. Dumpy Dum, in un angolo, dormiva. Myrtilla cuciva qualcosa. Gertrid pareva immersa in pensieri suoi. Astrix era sparito. Blanche, appoggiata sulla spalla di Lektos Ly, teneva gli occhi chiusi. Soltanto l’ex monarca di Larissa dimostrava la mia stessa attenzione.

– Le vostre parole dimostrano competenza, acume e, cosa più rara di tutte, buon senso – disse l’uomo biondo.

Baran chinò la testa, in segno di modesto assenso.

– Ma vogliate concedermi la grazia di un’ulteriore spiegazione. In che senso avete affermato che le risposte da voi citate sono inutili? Quelle, voglio dire, che riguardano la misura esatta di ingegno ed arte in quel composto ineffabile che è la poesia?

Baran sorrise, come se si fosse atteso la domanda.

– Ineffabile, avete detto bene! E qui è già la vostra risposta. Ma procediamo con ordine. Innanzi tutto, ciascuno dovrà riconoscere che lo studio di norme e dottrine, da solo, non ha mai aiutato alcun poeta a diventare tale: altrimenti accanto alle tante scuole, accademie, collegi, atenei che vantano le nostre nobili terre, ne avremmo anche una, o molte, sospetto, che laurea poeti. Il che non avviene. Al massimo, laureano pedanti commentatori di poeti.

“D’altra parte, si è mai visto un qualsivoglia ingegno illetterato produrre opere degne di memoria? Senza l'attenta e quotidiana familiarità con le opere dei grandi Autori passati? Anche in questo caso la risposta non può che essere negativa, e noi sorridiamo giustamente dei banali e ingenui tentativi di giovani che credono basti essere, o immaginarsi, innamorati per scrivere poesie.

“Dunque, se nessuna delle due qualità da sola consente di raggiungere la vetta, o anche le pendici, di questa ardua montagna che assicura un ricordo più perenne del bronzo, e una terza via non è mai stata suggerita, non ci resta che concludere che la misteriosa essenza di cui andiamo in cerca nasca da una qualche commistione delle due. E fin qui siamo nell’ambito del semplice.

“Il difficile, e l’inutile, arrivano ora. Io vi chiedo – (qui Baran si alzò, per dare maggior enfasi alle sue dichiarazioni. Devo dire che la sua mole oscillava leggermente, ma forse era l’effetto dell’unica candela.) – Forse che qualche poeta, o un adepto in qualsivoglia delle Sette Arti Maggiori, ha mai calcolato prima di accingersi a comporre la proporzione fra ispirazione e istruzione, fra sogno e ragione, fra ciò che gli dicono le sue viscere e ciò che gli consiglia il suo cervello? Nossignore! Si mettesse a calcolare queste cose, non scriverebbe mai un rigo!

Soddisfatto delle sue conclusioni, Baran si permise un piccolo rutto, soffocandolo per rispetto a madama Blanche.

– Ma una volta completata l’opera, essa diventa oggetto pubblico – osservò il falso tiranno.

Baran aggrottò la fronte.

– Voglio dire, diventa oggetto di lettura. Cioè di un esame, più o meno approfondito. In cui non è illegittimo distinguere proporzioni e componenti. Come un esperto di vini sa distinguere l’annata, la qualità, la provenienza, la mescolanza eventuale. – Non so se ci fosse una qualche ironia in questa similitudine, del resto non del tutto appropriata, di Ly.

Baran forse preferì non cogliere l’ironia, ma non si lasciò sfuggire l’inconsistenza dell’argomento.

– Verissimo! Se, come nel caso degli esperti di vini, fosse acquisita la concordanza, e verificabile l’esattezza delle diagnosi. Ma vi è mai capitato di trovare due di questi vostri lettori esperti che vadano d’accordo fra loro? O che vi abbiano mai fornito una riprova delle loro affermazioni?

A questo, Lektos Ly non ebbe nulla da ribattere.

– Tuttavia, riflettere sulle proprie creazioni è prerogativa di questo essere razionale che chiamiamo uomo, e ciò che lo differenzia dagli animali.

Ci crediate o no, questa obiezione fui io ad avanzarla.

Baran mi guardò con accigliato stupore. Poi sorrise.

– Il nostro Arquin è un ragazzo sveglio. Del resto già me n’ero accorto. Lo sapete che conosce ben nove stili di scrittura? Ha studiato.

– E dove, posso chiedere? – volle sapere Lektos Ly.

Questo, con mio grande imbarazzo, mi aveva portato al centro dell’attenzione.

– Qua e là... – farfugliai.

– Arquin legge molto – disse Myrtilla.

– La strada e i libri sono la scuola migliore che esista – sentenziò Baran.

Lusingato da questi complimenti, non insistetti per ottenere una risposta alla mia domanda. Blanche, del resto, dava evidenti segni di stanchezza.

Così, dopo che Baran si fu versato ciò che restava nel boccale, ci disponemmo a dormire.

(28) GYENNA


E infine giungemmo al mare.

Ventre immenso della creazione, utero insaziabile

come dice non so più quale poeta.

Il mare, per me, fu Gyenna.

Gyenna era la città più grande che avessi mai visto, e la più sporca. Da allora ho appreso che tutte le città di mare, quale più quale meno, lo sono. Sporche voglio dire. Vi arrivammo dopo inesauribili ed estenuanti salite e discese, valichi che erano solo preludio a valichi successivi, polvere e sassi. Lungo le salite, tutti a piedi a spingere il carro. Nelle discese, a piedi per impedire che rotolasse giù. Solo Blanche veniva risparmiata.

Ed ecco, dalla cima di un crinale come tanti (nessuno mi aveva avvertito, suppongo per sorprendermi), in un limpido pomeriggio, con un sole arancione quasi davanti agli occhi... il mare.

Ciò che distingue un mare da un deserto, lo dico per voi che non l’avete mai visto, non è l’infinita vicinanza dell’orizzonte, né l’equanime diffondersi della luce. No: è il movimento.

Anche quando il mare è calmo, come lo era quella prima sera che lo vidi dalle montagne, il suo respiro è visibile, come quello di un bambino addormentato. Nella tempesta, il suo ansare è terribile, come antiche divinità che fanno l’amore.

Il deserto è polvere. È morto, non fosse che per il vento che da lontano viene a riscuoterlo.

Questo mi apparve da qual valico di cui ho dimenticato il nome: il respiro del mare, che si rivelava attraverso l’infinitesimo frangersi delle onde. Il respiro della nostra grande madre

Gyenna, adesso. Che è una delle città più belle che abbia mai visto.

Gyenna si protende verso il mare su un lungo promontorio ricurvo, che lo abbraccia quasi tornando su se stesso. Non contenta, Gyenna conficca pali nell’acqua, vi getta sopra pontili e passerelle, su cui poi costruisce stravaganti architetture lignee, che a loro volta cedono il posto a barconi, chiatte, semplici zattere, spesso indissolubilmente unite ai pontili, altre volte ormeggiate come se immaginassero ancora di poter salpare.

Su una di queste prendemmo alloggio.

– Costa meno – spiegò Baran.

La Gyenna acquatica è costruita in legno di ibix. Questo legno, mi informò Baran, ha la proprietà di indurire nell’acqua di mare, assumendo al contempo un colore quasi nero, che alla luce della luna diventa argenteo. Gli spioventi dei tetti sono adorni di draghi intagliati e altri animali fantastici, che hanno lo scopo di tenere lontani gli spiriti maligni.

Lasciammo il carro in un deposito, una cavernosa struttura per metà sulla terra e metà sul mare, che odorava di spezie, pesce affumicato e altre cose che non riconobbi. Baran pagò un ometto dalla carnagione giallastra, seduto in una specie di gabbia sospesa al soffitto, da cui poteva dominare tutto il deposito, o almeno quanto si scorgeva di esso alla luce delle lampade ad olio disposte apparentemente a caso. Il guardiano prese i soldi e restituì la ricevuta mediante un cestino calato con una corda.

 

Percorremmo pontili e passerelle scricchiolanti. Io mi tenevo in mezzo al gruppo, perché non c’erano balaustre e non sapevo nuotare. Era peggio che camminare sui tetti di Morraine, per me.

Lanterne di vari colori punteggiavano l’intrico dei moli. Porte di locande rovesciavano nella notte luci giallastre e suoni di strumenti. L’aria era gonfia di odori: pesce marcio, frittura, incensi. E la salsedine del mare

Nella notte, si aggiravano marinai e prostitute, viaggiatori e mercanti. Indossavano vestiti dalle fogge più strane, parlavano lingue sconosciute.

Il nostro alloggio si chiamava Sirena australe, e costei era rappresentata piuttosto rozzamente con i seni nudi su un’insegna di legno.

Baran, che era conosciuto all’oste, ordinò una cena di pesce per tutti. Il padrone lo invitò in cucina a scegliere. Li seguii. In una grande cesta posata per terra c’erano gli animali più strani che avessi mai visto in vita mia. Alcuni muovevano ancora le branchie, altri le chele; uno di questi venne afferrato e sventrato dal cuoco; altri, più piccoli, tuffati nell’olio bollente. Baran e l’oste discussero del pesce, della cottura, delle salse. Io osservavo le antenne di una creatura grigia, striata di rosso, e pensai: ecco come doveva essere la Tarma Lunare.

Non avevo mai mangiato pesce di mare, ma il vino, che era fresco, e amarognolo, mi aiutò a comprendere i nuovi sapori.

Dovetti berne un po’ troppo, perché al momento di andare a letto cercai di abbracciare furtivamente Myrtilla, che mi respinse ridendo.

La mattina seguente Lektos Ly ci diede il suo addio. Aveva certi amici, a Gyenna. L’avrebbero fatto partire, insieme a Blanche. Per dove? Oltremare. Non poté o non volle essere più preciso.

Ma prima di lasciarci, consegnò a Baran una lettera con il suo sigillo. – In cambio dei favori che mi avete fatto – disse. – È una lettera di presentazione per il Proto-Archivista di Bejzart XII, Arconte di Argyria.

“Come forse saprete, fra sei mesi inizieranno i festeggiamenti per i duemila anni della fondazione dell’Archìa. Il Proto-Archivista, di nome Gyon Balasco, è un mio... amico. Mi deve dei favori, di cui confido non si sia scordato.”

Un silenzio particolare aveva accolto questa dichiarazione. Dire che restammo con il fiato sospeso è poco. Avessimo potuto sospendere il battito del cuore, l’avremmo fatto.

Per parte mia (qui parla il vostro scrivano e notista) potevo ben crederlo. Poiché anche qui nell’oasi, a migliaia di leghe e di dune, a centinaia di fiumi e di foreste, a decine di montagne e di laghi, e a qualche mare di distanza da Morraine e Larissa e Gyenna, e da tutti i luoghi che il viaggiatore ci aveva nominato delle sue Terre di Mezzo (in mezzo a cosa, poi? Se c’è qualcosa che è in mezzo, è questa oasi nel Grande Deserto), anche qui, dico, è noto il nome di Argyria. Anche se, devo aggiungere, la notizia del bi-millenario ci giugeva del tutto nuova. Del resto, il computo degli anni è quanto mai vario da nazione a nazione.

– Ma certo! – disse Baran, e per la prima volta da che l’avevo conosciuto parlò sotto voce. – Argyria! Ho sentito... tutti abbiamo sentito dei duemila anni di Argyria.

– Durante questo viaggio – riprese Lektos Ly – ho potuto apprezzare i vostri meriti... come persone e come artisti. La vastità del vostro repertorio, la molteplicità della vostra esperienza, la qualità della vostra recitazione vi pongono senz’altro al pari delle migliori compagnie itineranti delle Terre. Sono certo che anche il sovrano di Argyria saprà apprezzare i vostri numerosi meriti, e confido che non sfigurerete in quella celebrazione...

– Ly... – Blanche gli sfiorò un braccio con un sorriso di rimprovero.

– Scusate – disse Ly. – Talvolta dimentico di non essere più... – Fece un gesto vago con la mano.

Baran si alzò e gli strinse la mano, con energia. – Non potremo mai ringraziarvi abbastanza! – Aveva ritrovato la sua voce.

Myrtilla lo baciò su una guancia.

Gertrid abbracciò Blanche. – Vedrai, tutto andrà bene! – le disse. Fui sorpreso di vedere due lacrime agli angoli dei suoi occhi.

– Fra sei mesi, ricordate! – disse Ly. Come se fosse possibile che lo scordassimo. – Ad Argyria.

Lektos Ly strinse la mano anche a me, Blanche mi baciò sulla guancia. Ci furono molte altre espressioni di saluto. Poi l’antico Tecnarca di Larissa e la sua compagna uscirono dalla Sirena Australe, e dalle nostre vite.

Quella sera, dopo aver rappresentato con discreto successo Il Mercante di Qom su una piazza della Vecchia Gyenna (quella di terra) né troppo grande né troppo piccola, e piena per metà, disteso su un letto della Sirena Australe, fra il confortevole russare di Baran e quello di Dumpy Dum, ripensai ad Argyria, terra di favole, di principesse e di cavalieri.

Non so qui da voi, nel deserto, ma nella terra di Mezzo non esiste un computo comune degli anni. Molte città, fra queste anche Morraine, prendono come punto di partenza la loro fondazione, reale o leggendaria che sia.

Alcuni regni o principati si affidano a calcoli dinastici. Le repubbliche preferiscono qualche avvenimento decisivo della loro storia. Molte religioni contano gli anni a partire alla nascita di qualche profeta. Fra certi popoli delle montagne è ancora in uso una numerazione che parte da un dio incarnato della Prima Era; la quantità stravagante degli anni così accumulati è per loro argomento di venerazione, per tutti gli altri testimonianza di inattendibilità. Sull’isola di Kyos, gli indovini il primo giorno dell’anno (che naturalmente non è lo stesso primo giorno di altre isole, o città, o nazioni) traggono gli auspici e assegnano a quell’anno un nome particolare. Il sistema è senza dubbio poco pratico, ma per parte mia ho sempre pensato che sia preferibile nascere secondo un nome che secondo un numero.

Per parte sua, il vostro umile copista può aggiungere che qui, nell’oasi, per trovare il luogo che occupiamo lungo il fiume del tempo, noi consideriamo il corso delle stelle e il loro lentissimo declinare.

Ebbene, fra tutti questi calendari, quando ci si deve accordare fra città, principati, confederazioni e repubbliche per trovare una data di riferimento comune, quello di Argyria viene preferito in quanto il più antico e venerabile.

Ma a parte tutto questo, i miei pensieri ruotavano come pianeti attorno ad un’altra stella (se è vero, come sostengono alcuni astronomi, che sono i pianeti a ruotare attorno alle stelle): questa stella era Lia.

Poiché, se alla festa per i duemila anni di Argyria erano davvero invitati (e chi poteva dubitarne?) i più celebri artisti delle Terre di Mezzo, senza dubbio fra questi non sarebbe mancato Lelius Abramus, con i suo carro pieno di giocolieri, saltimbanchi, pagliacci, eccetera, con i suoi burattini. E Lia.