Killer per Caso

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Aus der Reihe: Un Mistero di Riley Paige #5
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Killer per Caso
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Killer per Caso
Killer per Caso
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Wird gelesen Alessia De Lucia
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“Che n’è stato di Moran?” lei chiese.

Kelsey scosse la testa con disapprovazione.

“E’ ancora là fuori” rispose. “Spesso vorrei non aver fatto quel patto. Per anni e anni ormai, ha gestito quasi ogni tipo di attività da gang. I delinquenti più giovani lo guardano con ammirazione. E’ intelligente ed inafferrabile. La polizia locale e il Bureau non sono mai riusciti ad assicurarlo alla giustizia.”

Quel formicolio divenne più forte. Riley si ritrovò nella mente di Hatcher, che rimuginava in prigione per decenni sul tradimento di Moran. Nell’universo morale di Hatcher, un uomo simile non meritava di vivere. E giustizia non era mai stata fatta.

“Ha il suo attuale indirizzo?” Riley chiese a Kelsey.

“No, ma sono sicura che l’ufficio di zona l’abbia. Perché?”

Riley fece un respiro profondo.

“Perché Shane andrà ad ucciderlo.”

CAPITOLO SETTE

Riley era consapevole del grave pericolo che stava correndo Smokey. Ma in realtà non le importava molto di quel violento delinquente in carriera.

Contava solo Shane Hatcher.

Il suo lavoro consisteva nel riportarlo in prigione. Se poi fossero riusciti a catturarlo prima che uccidesse Moral per vendicarsi di come si era comportato, tanto meglio. Lei e Bill si sarebbero recati all’indirizzo di Moran, senza dargli alcun preavviso, contattando nel frattempo il commissariato di zona per fare affluire rinforzi sul posto.

Il viaggio dalla casa di Kelsey Sprigge, nella benestante Searcy, ai quartieri molto più sinistri delle gang di Syracuse durò circa mezz’ora. Il cielo era nuvoloso, ma non stava nevicando, e il traffico si muoveva normalmente lungo le strade sgombre.

Mentre Bill guidava, Riley accedette al database dell’FBI, e svolse una rapida ricerca al cellulare. Vide che la situazione delle gang locali era pessima. Varie bande avevano operato nella zona sin dai primi anni ’80. All’epoca di Shane la Catena, si era trattato soprattutto di delinquenti locali. In seguito, le gang nazionali si erano trasferite lì, portando con sé un’incredibile livello di violenza.

Le droghe, che innescavano questa violenza con i guadagni che potevano garantire, erano diventate più strane e molto più pericolose. Ora si vendevano sigarette di PCP e sostanze note come il “fulmine bianco”. Chissà quali altre sostanze ancora più letali sarebbero apparse in futuro …

Mentre Bill parcheggiava di fronte all’edificio cadente, dove viveva Moran, Riley vide due uomini, con indosso le giacche dell’FBI, uscire da un’altra auto; riconobbe gli Agenti McGill e Newton, che avevano incontrato all’aeroporto. Indossavano dei giubbotti antiproiettile sotto le giacche e reggevano in mano fucili Remington per il tiro di precisione.

“L’appartamento di Moran è al terzo piano” Riley disse.

Quando il gruppo di agenti si spostò verso l’entrata del palazzo, si imbatté in alcuni delinquenti, sparsi nel freddo e trasandato ingresso. Erano fermi lì, con le mani nelle tasche, seminascosti nelle loro felpe con cappuccio, e sembrarono prestare poca attenzione alla squadra armata.

Le guardie del corpo di Moran?

Lei non pensò che avrebbero provato a fermare la sua piccola unità di agenti, sebbene potessero segnalare a Moran che qualcuno stava salendo di sopra.

Sembrava che McGill e Newton conoscessero quei giovani. Gli agenti diedero loro delle rapide pacche sulle spalle.

“Siamo qui per vedere Smokey Moran” Riley disse.

Nessuno dei giovani disse una parola. Si limitarono a guardare gli agenti con espressioni strane e vuote. A Riley parve un atteggiamento strano.

“Fuori” disse Newton, ed i ragazzi annuirono, uscendo dalla porta principale.

Guidati da Riley, i quattro agenti si precipitarono in cima alle tre rampe di scale. Quelli del posto si muovevano in testa al gruppo, controllando attentamente ogni corridoio. Al terzo piano, si fermarono davanti all’appartamento di Moran.

Riley bussò bruscamente alla porta. Non udendo risposta, gridò: “Smokey Moran, sono l’Agente dell’FBI Riley Paige. Io e i miei colleghi dovremmo parlarti. Non intendiamo farti niente. Non siamo qui per arrestarti.”

Di nuovo, non ci fu alcuna risposta.

“Abbiamo ragione di credere che la tua vita sia in pericolo” Riley gridò.

Ancora nessuna risposta.

Riley girò la maniglia della porta. Sorprendentemente non era chiusa e la porta si aprì.

Gli agenti entrarono in un appartamento ordinario, privo di qualsivoglia decorazione. Non c’erano nemmeno il televisore o altri apparecchi elettronici; nessun segno di un computer. Riley intuì quale fosse il modo di agire di Moran: era riuscito a dominare il sottobosco criminale, dando soltanto ordini faccia a faccia. Non andando mai in rete, senza usare neppure il telefono, era rimasto invisibile al radar delle forze dell’ordine.

Decisamente un individuo scaltro, pensò Riley. Talvolta i vecchi metodi funzionano al meglio.

Ma lui sembrava scomparso. I due agenti del posto controllarono rapidamente tutte le stanze e gli armadi. Nessuno era all’interno dell’appartamento.

Tutti tornarono in fondo alle scale. Ritornati nell’androne, McGill e Newton sollevarono i fucili, pronti ad entrare in azione. I giovani delinquenti li aspettavano alla base delle scale.

Riley li guardò. Si rese conto che avevano ovviamente eseguito l’ordine di lasciare Riley ed i colleghi cercare nell’appartamento vuoto. Ora sembrava che avessero qualcosa da dire.

“Smokey ha detto che pensava che sareste venuti” uno dei giovani delinquenti disse.

“Ci ha detto di darvi un messaggio” un altro disse.

“Ha detto di cercarlo al vecchio Deposito Bushnell in Dolliver Street” un terzo intervenne.

Poi, senza aggiungere altro, si misero da parte, lasciando agli agenti abbastanza spazio per andarsene.

“Era solo?” Riley domandò.

“Lo era quando se n’è andato da qui” uno dei giovani rispose.

Una sorta di solenne inquietudine si sentiva nell’aria. Riley non sapeva come interpretarla.

McGill e Newton mantennero gli occhi sui giovani, mentre gli agenti uscivano. Quando giunsero all’esterno, Newton disse: “So dove si trova il deposito.”

“Anch’io” McGill aggiunse. “E’ solo a pochi isolati da qui. E’ abbandonato ed è in vendita, e si dice che intendano trasformarlo in un condominio di lusso. Ma non mi piace l’idea. Quel posto é perfetto per un agguato.”

Prese poi il cellulare e chiese di far affluire ulteriori rinforzi sul posto.

“Dovremo stare attenti” esclamò Riley. “Fate strada.”

Bill sedette al posto di guida e iniziò a seguire il SUV dei locali.

Entrambe le auto parcheggiarono di fronte ad fatiscente edificio di mattoni su quattro piani, con una facciata cadente e finestre rotte. In quel momento, un altro veicolo dell’FBI accostò. Guardando verso l’edificio, Riley comprese che cosa aveva inteso dire McGill e perché avesse richiesto ulteriori rinforzi. Il posto era enorme e pericolante, con tre piani bui e finestre rotte. Tutte le finestre potevano facilmente nascondere un tiratore con un fucile.

Tutti e quattro gli agenti del luogo erano armati di fucili, ma lei e Bill disponevano solo di pistole. Potevano essere dei bersagli facili in una sparatoria.

Eppure, un agguato non aveva alcun senso per lei. Dopo aver evitato scaltramente l’arresto per circa trent’anni, perché un uomo sveglio come Smokey Moran doveva fare qualcosa di incauto come sparare ad agenti dell’FBI?

Riley chiamò gli altri agenti alla radio.

“Indossate ancora i giubbotti antiproiettile?” chiese.

“Sì” giunse la risposta.

“Bene. Restate in auto, finché non vi dico di uscire.”

Bill aveva già raggiunto il sedile posteriore del loro abbondante SUV per prendere due giubbotti in Kevlar. Lui e Riley se li infilarono rapidamente. Poi, lei trovò un megafono.

Abbassò il finestrino, e gridò in direzione dell’edificio.

“Smokey Moran, siamo dell’FBI. Abbiamo ricevuto il tuo messaggio. Siamo venuti per te. Non vogliamo farti del male. Esci dall’edificio con le mani in alto, e parliamo.”

Lei attese per un intero minuto. Non accadde niente.

Riley comunicò via radio con Newton e McGill.

“Io e l’Agente Jeffreys stiamo uscendo dal nostro veicolo. Quando saremo fuori, uscirete anche voi, con le armi puntate. Ci vedremo alla porta d’ingresso. Tenete gli occhi aperti. Se vi accorgete di qualsiasi movimento da qualche parte all’interno dell’edificio, mettetevi al riparo.”

Riley e Bill uscirono dal SUV, e Newton e McGill uscirono dalla loro auto. Altri tre agenti dell’FBI armati pesantemente uscirono dal veicolo appena arrivato, e si unirono a loro.

Gli agenti si mossero con cautela verso l’edificio, tenendo d’occhio le finestre con le armi puntate. Infine, raggiunsero la relativa sicurezza dell’enorme porta d’ingresso.

“Qual è il piano?” McGill chiese, senza riuscire a nascondere un certo nervosismo.

“Arrestare Shane Hatcher, se è lì dentro” Riley disse. “Ucciderlo se necessario. E trovare Smokey Moran.”

Bill aggiunse: “Dovremo cercare nell’intero edificio.”

Riley notò che gli agenti locali non apprezzavano molto quel piano. Non poteva biasimarli.

“McGill” disse, “iniziate dal pianoterra e non trascurate nulla. Jeffreys e io andremo fino all’ultimo piano, e controlleremo tutto partendo da lì. Ci vediamo al centro.”

McGill annuì. Riley notò che la sua espressione tradiva un po’ di sollievo. Chiaramente sapeva che, probabilmente, il pericolo non era ai piani bassi. Bill e Riley si sarebbero esposti ad un rischio considerevolmente maggiore.

 

Newton la sorprese: “Salgo con voi.”

Sembrava deciso e tranquillo; Riley non fece alcuna obiezione.

Bill spinse i battenti della porta e tutti e sette gli agenti entrarono. Un vento gelido entrava dalle finestre del pianoterra, che era costituito da un grande ambiente vuoto, in cui si notavano solo colonne e porte che conducevano a stanze adiacenti. Lasciando McGill e gli altri tre a cominciare da laggiù, Riley e Bill si diressero verso una tromba delle scale più minacciosa. Newton li seguì da vicino.

Nonostante il freddo, Riley sentiva il sudore nei guanti e sulla fronte. Sentì il cuore batterle forte e si sforzò molto per tenere il respiro sotto controllo. Non importava quante volte lo avesse fatto, non si sarebbe mai abituata. Nessuno poteva farlo.

Alla fine, entrarono nel piano superiore dell’edificio.

Il cadavere fu la prima cosa che catturò l’attenzione di Riley.

Era legato con del nastro adesivo in posizione verticale ad un palo ed era così malridotto da non poter nemmeno quasi essere più definito umano. Le catene dei pneumatici erano avvolte intorno al suo collo.

L’arma prescelta di Hatcher, ricordò Riley.

“Questo dev’essere Moran” Newton disse.

Riley e Bill si scambiarono un’occhiata. Sapevano che non era il momento di abbassare le armi, non ancora. Il corpo poteva essere un trucco di Hatcher per attirarli fuori.

Mentre si avvicinavano al cadavere, Newton tenne il fucile puntato dritto davanti a sé.

Le suole delle scarpe di Riley finirono in gelide pozze di sangue, mentre si avvicinava al corpo. Il volto era tanto malridotto da rendere impossibile un riconoscimento e sarebbe stato necessario ricorrere al DNA o alle impronte dei denti per identificarlo. Ma Riley non aveva alcun dubbio sul fatto che Newton avesse ragione; doveva trattarsi di Smokey Moran. Grottescamente, aveva ancora gli occhi spalancati, e la testa era fissata con nastro adesivo, in modo che sembrasse osservare direttamente Riley.

Riley si guardò di nuovo attorno.

“Hatcher non è qui” disse infine, rimettendo la sua pistola nella fondina.

Bill la imitò e si diresse verso il cadavere, accanto a Riley. Newton restò vigile, impugnando il suo fucile e muovendolo in tutte le direzioni.

“Che cos’è questo?” Bill disse, indicando un pezzo di carta ripiegato, che fuoriusciva dalla tasca della giacca della vittima.

Riley estrasse il foglietto e vi lesse:

“Un cavallo è legato ad una catena di 7,30 metri e mangia una mela, che è quasi ad 8 metri di distanza. Come ha fatto il cavallo ad arrivare alla mela?”

Riley s’irrigidì. Non era strano che Shane Hatcher avesse lasciato un indovinello. Diede il biglietto a Bill, che lo lesse, guardandola con un’espressione perplessa.

“La catena non è legata a niente” Riley spiegò.

Bill annuì. Riley era certa di aver risolto l’indovinello:

Shane la Catena adesso era libero.

Ed aveva appena iniziato a godere della sua libertà.

CAPITOLO OTTO

Seduta con Bill al bar dell’albergo, quella sera, Riley non riusciva a liberarsi dall’immagine del corpo tumefatto dalla mente. Né lei né Bill erano stati in grado di trovare un senso in quanto era successo. Non riusciva a credere che Shane Hatcher fosse evaso da Sing Sing per uccidere Smokey Moran. Ma, indubbiamente, aveva ucciso l’uomo.

Le luci natalizie del bar sembravano pacchiane più che un simbolo delle festività.

Riley porse il suo bicchiere vuoto ad una barista di passaggio, dicendo: “Ne prendo un altro”.

Notò che Bill la stava guardando con imbarazzo e ne comprese immediatamente il motivo. Era il suo secondo bourbon on the rocks. Bill sapeva che la storia di Riley con gli alcolici non era affatto piacevole.

“Non preoccuparti” gli disse. “Questo è l’ultimo per stasera.”

La donna non aveva alcun desiderio di ubriacarsi. Tutto ciò che voleva era rilassarsi un po’. Il primo bicchiere non l’aveva aiutata, e dubitava che il secondo ci sarebbe riuscito.

Riley e Bill avevano trascorso il resto di quella giornata a discutere sulle conseguenze dell’omicidio di Smokey Moran. Mentre lei e Bill avevano lavorato con la polizia locale ed il team del coroner sulla scena del crimine, avevano rimandato gli Agenti McGill e Newton all’edificio in cui aveva vissuto Moran. Avrebbero dovuto parlare con i giovani delinquenti che erano stati di guardia nell’androne. Ma quelli non si trovavano da nessuna parte. L’appartamento di Moran restava aperto ed incustodito.

Appena la barista mise il drink di fronte a Riley, quest’ultima rammentò le parole che i delinquenti le avevano rivolto nell’androne:

“Smokey ha detto che pensava che sareste venuti.”

“Ci ha detto di darvi un messaggio.”

Poi, avevano loro detto dove trovare Smokey Moran.

Riley scosse la testa, mentre riviveva mentalmente il momento.

“Avremmo dovuto parlare con quei delinquenti, quando ne abbiamo avuto la possibilità” disse a Bill. “Avremmo dovuto fare loro delle domande.”

Bill alzò le spalle.

“Su che cosa?” domandò. “Che cosa avrebbero potuto dirci?”

Riley non rispose. La verità era che non sapeva che cosa rispondere. Ma l’intera faccenda sembrava strana. Ricordò le espressioni di quei delinquenti: austere, tetre e persino tristi. Era quasi come se comprendessero che il loro capo fosse andato dritto verso la sua morte, come se fossero già in lutto. Il fatto che ora avessero lasciato le proprie postazioni, apparentemente per sempre, sembrava confermarlo.

Allora che cosa aveva detto loro Moran prima di andarsene? Che non sarebbe tornato? Riley era disorientata da quella possibilità. Perché un intelligente, esperto delinquente come Moran non era riuscito a stare lontano dal pericolo? Perché era andato in quel deposito, se, in qualche modo, sapeva quello che lo aspettava?

Interrompendo i pensieri di Riley, Bill chiese: “Quale pensi che sarà la prossima mossa di Hatcher?”

“Non lo so” Riley rispose.

Era difficile da ammettere, ma era vero. Esperti agenti dell’FBI ora erano di guardia a casa di Kelsey Sprigge, nel caso in cui la donna fosse il prossimo bersaglio di Hatcher. Ma Riley ormai era convinta che non sarebbe successo. Kelsey aveva ragione. Hatcher non avrebbe ucciso quella donna soltanto per aver svolto il suo lavoro molti anni prima, specialmente dopo che lei gli aveva davvero salvato la vita.

“Pensi che possa venire a cercare te ora?” Bill domandò.

“Vorrei che lo facesse” Riley replicò.

Bill sembrava un po’ scioccato.

“Non dirai sul serio” la rimbrottò.

“Invece sì” Riley precisò. “Se solo si facesse vedere, forse potrei fare qualcosa. E’ come una partita a scacchi da bendati. Come posso fare la mia mossa, se non conosco le sue?”

Bill e Riley bevettero i loro drink in silenzio, rimanendo in silenzio per pochi momenti.

“L’hai incontrato anche tu, Bill” Riley disse. “Come pensi di affrontarlo?”

Bill emise un lungo sospiro.

“A dire il vero, certamente mi ha inquadrato in fretta” disse. “Mi ha detto di togliermi dalla testa l’idea di mettere le cose a posto con Maggie. Non avevo idea di quanto avesse ragione.”

“Come procedono le cose in questi giorni con Maggie?” Riley chiese.

Bill sbatacchiò il ghiaccio nel suo bicchiere.

“Non vanno da nessuna parte” rispose. “Mi sento arenato. Sei mesi di separazione, nessuna possibilità di tornare insieme, ma occorrono sei mesi prima che il divorzio diventi definitivo. Sembra che la mia vita sia giunta a un punto fermo. Almeno, lei è più comprensiva riguardo alla custodia dei ragazzi. Li lascerà passare del tempo con me.”

“Bene” Riley esclamò.

Lei notò che Bill ora la stava guardando nostalgicamente.

Non va bene, lei pensò.

Lei e Bill avevano trascorso anni a lottare contro la loro attrazione reciproca, a volte molto maldestramente. Riley ancora si vergognava di quando, da ubriaca, gli aveva telefonato chiedendogli di iniziare una storia con lei. La loro amicizia e il loro rapporto professionale erano sopravvissute a stento a quel triste episodio.

Lei non voleva riprendere di nuovo quella strada, specialmente ora che le cose erano così confuse con Ryan e Blaine al contempo. Poi, trangugiò il resto del suo drink.

“Devo rientrare ora” disse.

“Sì, anch’io” Bill aggiunse con una nota di riluttanza nella voce.

Pagarono il conto e lasciarono il bar. Bill si diresse alla sua camera d’albergo. In tutta la confusione frenetica di quella giornata, Riley non aveva ancora tirato fuori la sua valigia e i beni personali dall’auto. Si diresse alla tromba delle scale e passò dalla porta, che la condusse direttamente nel parcheggio del garage dell’albergo, nel seminterrato.

Un soffio d’aria fredda la investì bruscamente, quando entrò in quei locali in grigio cemento a vista. Non c’era nessuno lì.

Si diresse direttamente al SUV dell’FBI, parcheggiato sul lato opposto del garage. Nell’attimo in cui metteva mano alla maniglia dello sportello, la sua vista periferica colse un movimento da qualche parte alla sua sinistra.

Girò la testa per guardare. Non vide altro che auto parcheggiate, eppure era convinta di aver percepito un rumore. Era certa che i suoi occhi non le stessero tirando un brutto scherzo. C’era qualcun altro nel garage.

“Chi c’è?” gridò.

La sua voce risuonò forte in tutto il garage, seguita dal gemito del vento freddo.

Fu attraversata da una scarica di adrenalina. Era sicura che ci fosse qualcuno lì e che si stesse nascondendo. Chi poteva essere se non Shane Hatcher?

Mise mano alla sua pistola, chiedendosi se anche lui ne avesse una. Se così fosse stato, l’avrebbe usata? No, sparare così a bruciapelo non sembrava affatto nello stile di Hatcher. Non si sarebbe sorpresa se non fosse stato nemmeno armato; ma, ad ogni modo, non sarebbe stato meno pericoloso.

S’incamminò con cautela nella direzione dalla quale le era sembrato che provenisse quel rumore. Ora i suoi stessi passi sembravano assolutamente assordanti all’interno del garage. Non aveva percorso che pochi metri, quando sentì un rumore provenire da dietro di lei, seguito da un rantolo.

Si girò, con la pistola puntata e pronta all’uso. Ma, in quello stesso istante, sentì i passi di una persona che correva, dalla direzione opposta. Si voltò di nuovo, ma non vide e sentì alcunché.

Comprese immediatamente che cos’era appena successo. Lui aveva lanciato qualcosa — forse un sassolino—dall’altra parte, per distrarla. Ora si stava spostando tra le auto parcheggiate da qualche parte. Ma dove?

Voltandosi da una parte e dall’altra mentre camminava, si fece largo tra le auto parcheggiate, guardando ovunque potesse.

Finalmente, raggiunse l’uscita del garage. Fuori nevicava. Ed eccolo lì: la sua sagoma era inconfondibile, lì nello spazio aperto illuminato dalle luci artificiali.

“Hatcher!” Riley gridò, puntandogli contro la pistola. “Fermo!”

Lei sentì una risatina familiare ed arcigna. Poi, la sagoma sparì nella notte.

Riley gli corse dietro, uscendo all’aperto. Il vento e il freddo erano molto più pungenti di quanto fossero all’interno del garage, e Riley non era coperta adeguatamente. Iniziò a tremare, il respiro quasi soffocato dall’aria gelida. I fiocchi di neve le colpirono il viso e le punsero la pelle.

Il vialetto d’accesso al garage conduceva rapidamente ad una strada ben illuminata. Guardando a destra e a sinistra, cercando ovunque, Riley gridò.

“Hatcher! Esci fuori!”

Si udiva solo il basso rombo del traffico, non distante. Guardandosi intorno, in direzione delle forme degli alberi e dei cespugli ricoperti di neve, Riley trovò difficile immaginare che l’uomo si fosse nascosto tra di essi.

“Hatcher!” gridò di nuovo.

Finalmente, raggiunse la strada e guardò in entrambe le direzioni, sui marciapiedi sgombri lungo la strada. Non vide proprio nessuno.

Se n’è andato, decise.

Guardando sempre in ogni direzione, Riley tornò al garage. Non appena mise piede nell’ampia apertura, sentì un lieve rumore.

Prima di poter reagire, fu afferrata violentemente alle spalle.

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