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Dizionario storico-critico degli scrittori di musica e de' più celebri artisti, vol. 4

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U

Ugolini (l'ab. Biagio), dottore veneziano, a cui si deve l'immensa collezione in 34 vol. in fol. col titolo Thesaurus antiquitatum sacrarum etc. Venetiis 1766. Il trentesimo secondo vol. è interamente addetto alla Musica degli Ebrei: vi si trovano in sul principio i 10 capitoli del Schilte Haggiborim, tradotti dall'ebreo in latino, dall'ab. Ugolini, i quali trattano di quasi tutte le parti della musica di questa nazione, e quindi 40 dissertazioni, o estratti dalle più considerevoli opere di diversi autori, come Abicht, Bartoloccio, Bocrisio, Bytemeister, Calmet, Drechsler, Glaser, Hasac, Heumann, Horch, Kircher, Lamy, Mersenne, Hothon, d'Outrein, Pfeiffer, Paschio, Reime, Schacchi, Schudt, Spencer e Van-Til, sullo stesso argomento.

Unger (Federico) di Brunswick, ove fu consigliere di giustizia, inventò ad Einbeck una macchina, che unita a un cembalo nota successivamente tutto quello che si suona su questo istromento. Egli comunicò in una lettera all'accademia di Berlino, di cui era membro, i disegni di questa macchina, e nel 1774 ne pubblicò a Brunswick una descrizione dettagliata. Quest'idea è stata di poi perfezionata da Holfeld, da Lenormand, e nel 1810 da Mr. Nabot meccanico in Londra, che più che altri vi è riuscito. (V. Archiv. des découvertes t. 2). Unger morì a Brunswick nel 1781.

Uregna (Pietro d'), monaco spagnuolo, visse nel decimosesto secolo a Vigevano nel Milanese. L'ab. Arteaga dice, che egli merita esser cavato dall'oscurità, ove indebitamente giaceva, poichè fu l'inventore della settima nota aggiunta alla scala di Guido Aretino; che siffatta scoperta si trova nel compendio del sistema di esso Uregna fatto, e pubblicato in Roma in lingua spagnuola l'anno 1669. Il libro ha per titolo: Arte nueva della musica inventada por S. Gregorio, desconcertada an. 1022 por Guido Aretino, restituida a su primera perfeccion por Fray Pedro de Urena, y reducida a este breve compendio por J. C. in 4º. L'autore del compendio è il cel. M. Caramuele. (Rivol. ec. t. I, p. 202).

V

Vaccari (Francesco), nato a Modena circa 1772, cominciò a studiar di violino dall'età di cinque anni, e mostrovvi le più grandi disposizioni. Suo padre per farvelo vie più avanzare, gli offriva a suonare a prima vista ogni specie di musica. Di nove anni eseguì in Parma un concerto di violino dinanzi al duca e al conte del Nord: Pugnani, che si era opposto a far suonare in corte un fanciullo, non lasciò, sentendolo, di ammirarne l'esecuzione. Egli passò poi in Firenze a prender lezione del cel. Nardini. Di tredici anni si rese a Mantova, ove Pichl presentogli per saggio un concerto da lui composto, ch'egli eseguì perfettamente a primo colpo d'occhio. Dopo aver viaggiato per quasi tutta l'Italia, il figlio del gran-duca di Parma lo portò seco in Ispagna, e verso l'anno 1804 fu dal re scelto come primo violino della corte. Nelle turbolenze politiche di Madrid passò in Portogallo, dove forse attualmente si trova. Egli ha scritto alcune sonate di violino.

Vague (M.), di Marsiglia, pubblicò in Parigi nel 1733, l'Art d'apprendre la musique, exposé d'une manière nouvelle et intelligible, par une suite de leçons, qui se servent successivement de préparation. Gli elogj prodigamente accordati a quest'opera sin dalla sua pubblicazione, e più ancora l'onore di una seconda edizione, sono una prova del suo merito. Le dissertazioni, che vanno alla fine, meritano di esser lette.

Valburga (M. Antonietta) di Baviera, figlia dell'imperatore Carlo VI, elettrice vedova di Sassonia, morta a Dresda nel 1782, coltivò il suo spirito collo studio delle scienze, e delle arti di gusto, e senza mancar punto a' doveri d'una savia sovrana giunse così perfettamente a possederle, che i più abili professori riguardaronla come un prodigio del sesso. Alle profonde cognizioni in musica, univa somma abilità sul cembalo, ed una grande espressione nel canto. Possedeva sì bene l'italiano sino al segno di comporre degli eccellenti drammi in questa lingua, che ella medesima metteva in note. Tali sono il Trionfo della fedeltà, Talestri regina delle Amazoni, e l'oratorio la Conversione di S. Agostino, cui fè porre in musica dal Sassone. Il cel. abbate Eximeno nel dedicarle la sua Opera della Musica dice “che se il gran Metastasio ha avuto l'immortal gloria di stimolare co' suoi drammi il genio de' professori di musica; ella però non ha sofferto che altro genio esprimesse colla musica i nobili sentimenti de' suoi drammi.” Essendo venuta in Roma, fecesi ammirare pe' suoi sublimi talenti nella poesia e nella musica, e l'accademia degli Arcadi recossi a gloria di annoverarla tra' suoi membri, dove essa ebbe il nome di Ermelinda Talea. Il dottor Burney sommamente la loda, per avere avuta occasione nel 1772 di sentirla in Roma cantare un'intera scena, accompagnandosi al cembalo, del suo dramma il Trionfo. Puossi anche vedere un'intera aria della sua Talestri, che il surriferito Eximeno ha fatto imprimere alla fine del suo libro: lo stile ne è espressivo, grazioso, e pare recentemente scritta. Porpora era stato il suo maestro sì per la pratica, che per la composizione, ed essa aveva conservate nel suo canto, e nelle sue produzioni la maniera grande, nobile e semplice insieme di questo celebre maestro.

Valgulio (Carlo), nato a Brescia da una antica e distinta famiglia, fu uno de' più dotti uomini del sedicesimo secolo. Egli era secretario del card. Cesare Borgia, e possedeva a fondo la lingua greca e latina. Nel 1507 pubblicò in Brescia la sua traduzione latina del dialogo di Plutarco sulla musica in 4º con sue dottissime annotazioni, a cui fa precedere un Discorso sull'antica musica per render più facile l'intelligenza del suo autore. Spiega in esso i diversi termini della musica usati da Plutarco; prende a difendere l'antico musico Aristosseno contro le ingiuste accuse de' suoi avversarj, e deplora la totale perdita di una musica così perfetta qual si era quella degli antichi; perdita non per tanto, che secondo lui non è irreparabile, poichè quest'arte può essere ristabilita per li medesimi mezzi, che la portarono anticamente ad un sì alto grado di perfezione. Nè altra cagione del cattivo stato della medesima crede potersi assegnare, se non la trascuranza de' suoi professori nel non voler consultare le opere degli antichi, ove troverebbero di che migliorare un'arte così utile. Valgulio, dice M. Burette, merita della stima, e dell'attenzione per avere avuto il coraggio di spianare il primo un pezzo cotanto difficile a ben capirsi, qual si è questo dialogo di Plutarco sulla musica, e di tradurlo in un latino puro abbastanza, perchè Enrico Stefano lo adottasse nella sua edizione (Histoir. littéraire du Dial. sur la musique). Tuttavolta fa maraviglia come la versione di Valgulio sia sfuggita all'esatto Fabricio. Gaffurio, altro letterato musico di quel secolo, fa onorevol menzione del Valgulio in un suo Trattato italiano, e lo chiama homo doctissimo, et experto in tutte le discipline.

Valla (Giorgio) da Piacenza, letterato di grido sulla fine del quindicesimo secolo, e i principj del seguente, nel 1501 pubblicò in Venezia, de Musicâ libri V. Diè ancora una versione latina dell'Introduzione armonica del greco Euclide, cui egli attribuisce a Cleonide (benchè non sia nè dell'uno, nè dell'altro, come lo abbiamo avvertito all'artic. Euclide t. 2 p. 124), pubblicata insieme con l'Architettura di Vitruvio a Venezia l'anno 1497, in fol.

Valle (Pietro della), cavaliere romano, che secondo Kircher, era gran musico e precettore di musica, nacque in Roma a' 2 di aprile del 1586. Si ha di lui una dissertazione de musicâ ætatis suæ, che si trova inserita nel secondo tomo delle opere di Doni, Firenze 1763.

Valle (Guglielmo della), frate conventuale, che ne' suoi scritti mostra aver del gusto per le belle arti, è autore delle Memorie storiche per la vita del Pad. Martini cel. maestro di cappella, Napoli 1785 in 8º; in esse dà egli un estratto delle di lui opere musicali, e specialmente della sua storia pubblicata in tre volumi, ma rimasta imperfetta per la morte del suo autore. Il P. della Valle dà eziandio l'estratto del 4º tomo, che sui manoscritti del Martini continuar dovevasi dal Pad. Stanislao Mattei: la musica degli Etruschi, de' Romani e de' bassi secoli ne è il soggetto. Fa quindi le difese del Martini e della scuola musicale italiana contro gli attacchi del frivolo autore di un libercolo francese intitolato: Brigandage de la musique italienne, e rapporta alla fine le lettere dell'avvocato Mattei, dell'ab. Eximeno, del P. Martini ed alcune sue ancora sulla questione: Se i greci ebbero cognizione dell'armonia simultanea o contrappunto. Diverse altre lettere del Martini, e di alcuni celebri letterati al medesimo egli riferisce molto interessanti alla letteratura della musica. Il P. della Valle pubblicò anche il di lui elogio, che letto aveva nell'accademia di Roma nel 1784 e che si trova nel tomo 57 del Giornale de' letterati.

Vallo (Domenico), napoletano, diè alle stampe un Compendio elementare di Musica specolativo-pratica, in 8º, Napoli 1804. L'autore dice che “obbligato dalle circostanze di apostatare dal foro, e di dare un addio ai libri della dotta legge, la necessità ridestò in lui quei musicali talenti, la di cui acquisizione, abbenchè estranea allo scopo che mirava, pure adolescente la riguardò come mezzo salutare a poter suffogare talvolta nel camin della vita il molesto senso delle edaci cure; che metamorfosato in tal guisa da uom legale in musico, giunto in paese straniero meritò il compatimento de' particolari del luogo, e la benemerenza degli allievi a lui affidati per essere istituiti nell'aurea scienza musicale. Dopo aver così consumato un intero lustro, essendosi avvisato della mancanza di un breve metodo di musicali rudimenti, vennegli in pensiero di compilare il presente, che ora offre al pubblico.” In esso lungi dall'occuparmi, egli dice, de' rapporti chimerici tra la musica e le altre scienze, e lungi dal prescrutare il principio fisico della risonanza de' corpi sonori, ed il principio metafisico del sentimento dell'armonia, è solo mio disegno di fornire a' principianti in iscorcio le sommarie cognizioni di teoria sufficienti a rischiarar la pratica de' principj. Pare in verità che questo compendio sia assai ben fatto, e possa riuscir di profitto non che agli scolari, ma ai maestri eziandio; mancando essi d'ordinario di un buon metodo elementare. Gli uni e gli altri vi troveranno chiarezza e precision nelle idee, una scelta erudizione, e de' principj atti a formare un musico di buon gusto.

 

Vallotti (Franc. Antonio), nato a Vercelli nel 1697, fece i suoi primi studj nel Seminario di quella città, ed applicatosi con ispezialità alla musica sotto il cel. Brisson, fece in quest'arte de' molto rapidi progressi. La poco fortuna de' suoi parenti l'obbligò a prender l'abito di minore conventuale; dopo il noviziato, ritornò in Piemonte, studiò la teologia e la filosofia, e lasciò ben tosto le lettere per la musica. Egli fu dapprima organista del suo gran convento di Padova, e poco appresso ne divenne maestro di cappella. La sua maniera sembrò tutta nuova: fornito di un sentimento delicato, e di un'anima, per così dire, tutta armonica, fu del paro applaudito da' suoi compatriotti e dagli esteri. Dopo il 1750 veniva riguardato come uno de' migliori teorici, e de più bravi compositori per chiesa. Il dottor Burney rapporta di aver veduto presso di lui nel 1770 in Padova, oltre ad una preziosa biblioteca, due grandi armadii pieni di partiture delle sue composizioni, tra le quali eravi la Messa di Requiem per le esequie di Tartini (Travels, etc.). Nel 1779, diè egli alla luce in Padova la prima parte della Scienza teorica e pratica della moderna musica, in 4º. Questo primo libro è puramente teorico: altri tre ne prometteva l'autore, che son rimasti inediti. Il secondo dovea contenere gli elementi pratici della musica; il terzo i principj del contrappunto, e 'l quarto le regole dell'accompagnamento. Egli morì a 16 gennaro del 1780, l' ab. Fanzago pronunziò il suo elogio. Il cel. P. Martini fu incaricato dai Padri di Padova a cooperarsi alla pubblicazione del resto di quell'opera del Vallotti, ed essendogli stati perciò rimessi i manoscritti, così loro scriveva: Non posso esprimere con quanto piacere abbia dato una scorsa a tali scritti, dai quali rilevasi il profondo sapere del P. Vallotti, e il danno che ne verrebbe al pubblico se non si proseguisse a stampare quanto manca al compimento di tutta l'opera. Non sappiamo però per qual ragione sia svanita l'esecuzione di un sì util progetto. Anche il Burney grandemente bramava che se ne facesse parte al pubblico per la maniera chiara ed intelligibile, con la quale era scritta. Nell'Effemeridi letterarie di Roma del 1780, uscì quindi una mordace critica al primo tomo del Vallotti, che recò molto disgusto al Martini. Sono stato tentato, dice egli in una lettera, per la stima e l'onore del defunto a rispondervi; ma il mio naturale abborrisce troppo la guerra. Codesto P. Barca amicissimo del Vallotti, e che è informato del profondo suo sapere potrebbe confutare i Signori Effemeridisti, per far noto al mondo, che se fosse vivo il cel. Vallotti, forse non si sarebbero azzardati a tanto, perchè loro avrebbe risposto per le rime. La migliore apologia però sarebbe stata al certo la pubblicazion delle sue opere, il che, per disavventura dell'arte non si è sinora avverato.

Valmalete (Louis de), dilettante assai distinto sul violino, nato a Rieux circa 1768, fece i suoi primi studj musicali sotto M. Fonces, e a' quindici anni di sua età cantava qualunque musica a batter d'occhio. Ebbe le prime lezioni di violino da Turlet, primo violinista del teatro di Tolosa, a cui davasi il nome di Tartini della Provenza: nel 1787 venne a Parigi, e prese lezioni da Gaviniès. M. de Liron iniziavalo ne' misteri della composizione, finchè venne a morire nel 1806. M. Valmalete è oggidì uno de' primi dilettanti della Francia: egli suona da primo violino con altrettanto di esattezza che d'intendimento nelle composizioni di Tartini, di Haydn, e di Boccherini: accompagna molto bene al piano-forte, ed ha fatto sinora imprimere a Parigi tre romanzi, di cui ha composto i versi e la musica. Nel 1805, pubblicò inoltre le Due odi sull'armonia di Dryden, e di Pope, ch'egli ha tradotto da poeta e da musico.

Vandermonde (M.), nato in Parigi nel 1735, e quivi morto nel primo di gennaro 1796, era gran geometra e fisico, e non per tanto falso spirito. Nel 1780 espose in una sessione pubblica dell'accademia delle scienze, di cui era membro, un nuovo sistema di armonia. Egli riferisce le maniere di procedere adottate sino a lui a due regole principali, una sulla successione degli accordi, l'altra sulla disposizione delle parti; queste due leggi generali, secondo lui, dipendono da una legge più sublime, che regolar deve tutta l'armonia. L'autore temendo che si potesse trar profitto dalla sua scoverta, inviluppò il suo sistema di tanta oscurità, che finì col non comprendervi niente egli stesso.

Vanhal (Giovanni), boemo, dimorante in Vienna, ove viveva da semplice particolare del prodotto della vendita di sue composizioni, che sono state impresse per la più parte a Amsterdam, a Berlino, e a Parigi. Queste consistono in sonate di cembalo, in divertimenti e rondò con variazioni, in sinfonie, in concerti, ed anche in musica vocale, e tutte stimatissime. Le sue prime sinfonie comparvero nel pubblico nel 1767, e furono generalmente ricercate. Vi si ammirava la vivacità dell'espressione, e la leggiadria del canto. Si pretendeva a quest'epoca ch'egli fosse soggetto ad attacchi di follia: Burney, che il vide in Vienna nel 1772, par che confermi tal voce, nel dire che lo trovò guarito di siffatta malattia. Vanhal migliorò notabilmente la sua fortuna con un vantaggioso matrimonio; e sarebbe divenuto ricchissimo, se non portava tanto avanti la prodigalità verso i suoi confratelli. Gli è assai volte accaduto di torsi l'abito dalla persona per vestirne un musico bisognoso.

Van-Swieten (il Barone di), prefetto dell'imperiale biblioteca di Vienna, e presidente della commissione d'istruzione pubblica, uomo dottissimo anche nella musica, e compositore non privo di merito, morto a Vienna nel 1806, è inoltre autore d'una dissertazione De musicæ in medicinam influxu atque utilitate, Leida 1773. A lui dobbiamo la divina musica dell'Haydn, della creazione, e delle quattro stagioni: eccone il come. Osservato aveva il Barone, che sebbene la musica non abbia un linguaggio, pure come sa esprimere a maraviglia gli affetti, così può colorire e dipingere le immagini, mercè la imitazione degli effetti analoghi: aveva pure osservato che sebbene quà e là s'incontrino nelle produzioni dei valenti maestri, dei cenni di questa imitazione, nulla di meno un tal campo restava pressocchè tutto a scorrere, e l'additò al suo amico Haydn, l'impresa da tentarsi fu dapprima un oratorio tutto di genere descrittivo. Haydn accettò l'invito, e ne nacque questo capo d'opera: il barone tradusse in tedesco il testo inglese del cel. Milton dell'oratorio intitolato la Creazione del mondo, e vi aggiunse cori, arie, duetti, ed altri pezzi concertati, onde pompeggiar potesse il talento del maestro. Nel 1795 l'Haydn vi pose la prima mano: non meno di 2 anni vi sudò sopra, ma fece un lavoro di secoli. Due anni dopo, cioè nel 1800, animato dal successo, e più ancora stimolatovi dall'amico Barone, compose le quattro stagioni. Il poema è una imitazione di quello di Thompson, ridotto a cantata da Van-Swieten: in quanto alla musica, è opera tale da assicurare il primato nel genere descrittivo al suo autore, quand'anche non avesse composta la creazione. Può leggersi la dotta analisi, che fa della musica dell'Haydn su questi due poemi del Van-Swieten, il non mai abbastanza lodato Carpani nelle lettere 10 e 12. Dice egli inoltre, che se il Barone non moriva, avressimo un terzo oratorio dell'Haydn de' quattro novissimi. Tanta era l'autorità, egli soggiunge, che il detto Barone aveva preso sopra il buon vecchio, che d'altronde non poco doveva ai di lui lumi, ed alla di lui amicizia.

Vatry (l'abbé Jean), morto nel 1769, membro dell'accademia delle Iscrizioni, nel di cui tom. 8 1733 trovansi due sue Dissertazioni sulle tragedie degli antichi. Egli ragiona de' vantaggi, che l'antica tragedia ricavava da' suoi Cori per la gran varietà del loro canto, diverso da quello delle scene: abbraccia l'opinion di coloro, che sostengono essersi cantate le tragedie dal principio sino al fine, come si fa ne' nostri drammi per musica. Su tal principio mette in luogo della declamazione una specie di musica così differente da quella de' Cori, come lo era la Poesia de' medesimi da quella delle scene, sì per la cadenza e l'armonia, come per l'espressione. L'Autore va innanzi all'obbjezione, che è un assurdo il minacciare, il lagnarsi, e il morir cantando: risponde che la Tragedia è a dir vero una imitazione, ma una imitazione in versi, ossia un Poema destinato a divenire spettacolo: che imita non che per i suoi discorsi, ma eziandio per via dell'azione, e de' gesti, che esser debbono diversi dal tuono naturale e di conversazione, e a cui preseder fia d'uopo la musica: in somma che non è meno assurdo il parlare in versi, che il cantare nel più forte di una passione.

Vecchi (Orazio), diverso da Orfeo Vecchi maestro di musica nello stesso secolo, era poeta insieme e maestro di cappella in Modena circa 1590. Deesi a costui la prima Opera buffa, e poesia e musica, che sortì alla luce in Vinegia l'anno 1597 col titolo: Anfiparnasso Commedia dedicata a D. Alessandro d'Este. L'accademia filarmonica possiede nella sua biblioteca un esemplare di quest'opera così rara, che il Zeno, comecchè in tal genere di erudizione fosse versatissimo, confessa in una sua lettera al Muratori d'ignorarne persin l'esistenza. Il Vecchi nella Dedica dice: “Non essendo questo accoppiamento di commedia, e di musica più stato fatto, ch'io mi sappia da altri, e forse non immaginato, sarà facile aggiungere molte cose per dargli perfezione; ed io dovrò essere se non lodato, almeno non biasimato dell'invenzione.” Ed in fatti nell'Epitafio del Vecchi in Modena, che rapporta il Muratori nella sua Perfetta Poesia, così vi si legge: Qui harmoniam primus comicæ facultati conjunxit, et totum terrarum orbem in sui admirationem traxit. Ma il dotto Arteaga, che ebbe alle mani questa rara edizione dell'Anfiparnasso dice che “nè la musica, nè la poesia meriterebbono, che se ne facesse menzione, se la circostanza d'esser la prima nel suo genere non mi obbligasse a darle qualche luogo nella Storia.” (Rivoluz. t. 1, p. 264).

Venini (Francesco), nativo di Lago di Como fu da prima Somasco, e sin dal 1755 professor pubblico di matematica in Parma: lasciò poi quella congregazione, e venne da abate secolare in Francia al servigio di Monsignore di Aix. Uscì una di lui Dissertazione in Parigi sui principj dell'armonia musicale e poetica, in 8º gr. Ella è divisa in cinque capitoli. Nel primo ragionasi dei principj dell'armonia musicale, e in pria di quella, che risulta dalla combinazione equitemporanea o successiva dei suoni gravi cogli acuti. Nel secondo si tratta dell'armonia risultante dalla durata dei suoni, ossia del ritmo musicale. In questi due capi evvi molto uso di frazioni, e l'autore protesta a p. 17 di essersi valuto del sistema di Rameau, e del terzo suono del Tartini. Il conte Giovio fa menzione del Venini nel suo Dizionario ragionato degli scrittori Comaschi.

Vento (Mattia), maestro napoletano, dopo aver fatti i suoi studj, e la sua riputazione in Italia, fu chiamato in Inghilterra, ove soggiornò gli ultimi sette anni di sua vita, che terminò quivi l'anno 1778. Le sue opere per teatro sono poco conosciute oggi giorno, comecchè avessero ottenuto del successo a' suoi tempi: egli aveva messo anche in musica quasi tutte le canzoni anacreontiche del Metastasio, in uno stile facile e naturale. Le sue sonate per cembalo, pria che si avesse preso gusto in Italia per quelle de' tedeschi, vi ebbero gran voga.

Venuti (l'ab. Rodolfo), nativo di Cortona, per le sue profonde cognizioni in letteratura divenne primo ispettore delle antichità in Roma, ove è morto verso il 1780. Delle sue opere non farem qui menzione che delle addizioni da lui fatte all'opera del cel. Bianchini sull'antica musica, di cui fu egli il primo editore: Blanchini de tribus generibus musicæ veterum, opus ineditum, nonnullis additis a Rod. Venuti, etc. Romæ in 4º, 1742.

 

Veracini (Francesco M.), fiorentino, uno de' più gran virtuosi sul violino, la di cui maniera ardita e nuova diè occasione, e stimolo al cel. Tartini di formar la sua novella scuola come si è detto nel suo articolo. Nel 1720 Veracini fu chiamato a Dresda in qualità di compositore per la cappella del re di Polonia. Mattheson rapporta, ch'egli perdè colà prestamente l'uso della ragione, sì per la lettura de' libri di alchimia, per cui andava perduto, come per uno studio avanzato di troppo della musica. In un accesso di manía egli precipitossi, li dì 13 Agosto del 1722, dalla fenestra della sua camera, ed ebbe la fortuna di non farsi altro male che rompersi una gamba. Dacchè fu guarito sì della follia, che della frattura lasciò Dresda, e venne a stabilirsi a Londra, ove probabilmente finì i suoi giorni. Walther cita di lui dodici a solo per violino impressi a Dresda nel 1721. Cramer lo accusa di aver mostrato dell'orgoglio, e del dispregio pei virtuosi del paese in Dresda.

Viadana (Ludovico), nativo di Lodi nel Milanese, era maestro di cappella della cattedrale di Fano sul principio del sec. 17, e nel 1614 della cattedrale di Mantova. Egli si rese celebre per avere il primo introdotto de' concerti nelle chiese, ed inventato il basso continuo: o per dir meglio egli fu il primo ad usare il basso sonante oltre il basso che canta con le altre voci, e a renderlo continuo allorchè questo intermette in certe pause, così può ben capirsi quel che Brossard, e Rousseau hanno con poca esattezza detto ne' loro dizionarj di musica, cioè che un certo Lud. Viana fu il primo a mettere il basso in uso sul principio del diciasettesimo secolo. Viadana diè delle regole del basso continuo in un'opera scritta nelle tre lingue latina, italiana, e tedesca. Le di lui composizioni per chiesa, molto in istima presso i suoi contemporanei, trovansi impresse in Roma, in Venezia, ed altrove.

Vicentino (D. Nicolò). Prete di Vicenza assai dotto pel suo secolo nella teoria, e nella pratica della musica, trovavasi in Roma nel 1551, e vi sostenne una disputa con Vincenzo Lusitano altro scrittore di musica portoghese. Si trattava di determinare il genere della moderna musica; sosteneva il Lusitano, che ella era nel genere diatonico, e 'l Vicentino al contrario, che ella risultava da tutti e tre i generi, diatonico, cromatico, ed enarmonico rimescolati insieme. Fece ciascuno scommessa di due scudi d'oro a favor della sua opinione, e la questione fu rimessa all'arbitrio di due preti cantori della cappella pontificia. Gli arbitri ascoltarono le due parti per più sessioni dinanzi al cardinal di Ferrara, e ad una assemblea di molti letterati, ed intendenti delle scienze armoniche: essi decisero a pro del Lusitano. Ma il Vicentino tacciolli d'ingiustizia, e sostenne che il cardinale suo protettore non era rimasto meno di lui rivoltato del loro giudizio. Bottrigari nel suo trattato del Melone censura fortemente la sentenza degli arbitri, e difende il parere del Vicentino sul fondo della quistione. Tentò oltracciò il Vicentino di ridurre alla pratica quella sua teoria in un nuovo stromento di sua invenzione, ch'egli chiamò archicembalo, e nel 1555 diè alla luce in Roma un gran vol. in fol. per ispiegarlo ed insegnarne l'accordatura, col seguente titolo: L'antica musica ridotta alla moderna pratica, con la dichiarazione e con gli esempj dei tre generi con le loro specie, e con l'invenzione d'un nuovo stromento, nel quale si contiene tutta la perfetta musica, con molti segreti musicali, ec. In questa ed in siffatte opere de' nostri antichi italiani benchè si trovino degli errori e de' pregiudizj, non sono però, al dir di Requeno, affatto indegne della nostra stima, mentre i loro autori cercando l'antica musica, avanzaronsi nella moderna, e rischiararono con la loro pratica, e stabilirono varie corde dubbiose della nostra armonia. Eran essi filosofi, e da filosofi ragionavano; ma non era possibile, che sul principio delle loro scoperte giugnessero tosto alla perfezione dell'arte, onde ha ben ragione l'ab. Arteaga di alzar la sua voce contro a' maestri, e a' musici del nostro tempo, che col fasto proprio dell'ignoranza vilipendono le gloriose fatiche degli altri secoli. “Si trova pur fra voi, egli dice, chi sappia tanto avanti ne' principj filosofici dell'arte propria, quanto sapevan quegli uomini del secolo decimosettimo, che voi onorate coll'urbano titolo di seguaci del rancidume?”

Viel (M.) pubblicò nel 1784, alla fine di una sua operetta intitolata: Considération sur l'origine de la peinture et du langage, una curiosa memoria sui balbuzienti al cembalo. M. Viel propone il seguente problema, che non è stato ancora sciolto dai fisiologi. Perchè un balbo, che non lo è più cantando, lo è non pertanto sul cembalo, e come questa difficoltà può pervenire sino alle dita?

Vienne (M. de), musico francese, morto a Charcuton vicino a Parigi nel 1802 con molte sue composizioni di uno stile piacevole e cantante ha rigenerata la musica degli stromenti da fiato. Egli ha inoltre arricchito il teatro francese di alcune produzioni di gusto, come les Comédiens ambulans, les Visitandines, le Valet de deux maîtres. La sua più bell'opera è il suo Méthode de flûte, da lui riveduta, corretta, e considerevolmente accresciuta alcun poco prima di sua morte.

Vieuzac (Barrere de), membro di più accademie, e letterato di un gusto luminoso, e costante per le belle arti in generale, e con ispezialità per la musica. Egli ha scritto molte dissertazioni in forma di lettere sulla musica italiana, e fra le altre sulle più belle composizioni di Cimarosa e di Paesiello. Queste lettere sono inserite nel Journal des défenseurs de la patrie, anno 1810, e 1811. Ha scritto inoltre sulle tre scuole di musica, italiana, tedesca e francese, come sull'influenza del clima di Parigi sulle arti; un'eccellente notizia sul genio e le opere musicali di Winter; ed una analisi di quelle di Dalayrac.

Vignoles (Alfonso des), di una antica e nobil famiglia della Linguadoca, venne a stabilirsi in Berlino sin dal tempo, in cui il re Federico I vi eresse la Real Società delle Scienze, come uno de' primi suoi membri, e vi divenne in appresso direttore della classe delle matematiche, posto ch'egli occupò con distinzione sino alla morte. Egli divenne per la sua decrepita vecchiezza il Decano di tutti i Letterati dell'Europa, e finì i suoi giorni in età di 95 anni nel 1744. Oltre a un gran numero di dotte opere abbiamo di lui Remarques sur la musique des Anciens dirette a M. Achard, che M. Formey ha inserite nei tomi X, XI, e XV della Nouvelle Bibliothèque Germanique. (V. élog. des Acad. de Berlin, t. 1, 1757)

Villeblanche (Armand de), nato a Parigi nel 1786, ebbe in Inghilterra le prime lezioni di composizione da M. de Marin suo parente, e poi dall'ab. Roze in Parigi. Cramer fu suo maestro sul forte-piano, da cui apprese egli tutti i secreti di quest'instromento. Abbiamo di lui tre opere di sonate per forte-piano impresse nel 1811 sommamente pregevoli. La sua musica sul dramma la Colère d'Achille è stata ricevuta all'imperiale accademia di musica.

Villoteau (G. A.), professore di musica a Parigi, membro di più società letterarie nato a Bellème nel 1760, è autore di una eccellente opera in 2 vol. in 8º, pubblicata a Parigi nel 1807 con questo titolo, Mémoire sur l'utilité d'une théorie exacte et complète des principes naturels de la musique. Essa non è come dice egli stesso, che una breve introduzione ad un'opera più grande, ch'egli medita sull'analogia della musica con le arti, che hanno per oggetto l'imitazion del linguaggio. M. Fayolle ha data una dettagliata analisi di questi due ben grossi volumi nelle sue Quatre Saisons du Parnasse (Automne 1807) che non sarà discaro ai lettori di qui riferire, non essendo sinora quest'opera giunta sino a noi. L'A. tratta nella prima parte dell'arte musica considerata ne' suoi rapporti più diretti, e più naturali col linguaggio, e coi costumi. Prima di stabilire questo punto egli dà a divedere quanto in generale si han poche idee distinte sulla natura della musica, e quanto è falsa l'opinion di coloro nel sostenere che quest'arte sia una cosa puramente arbitraria, che nulla imita, nulla dipinge ed esprime; che non ha se non molto poca o niuna influenza sui costumi, e che non dee essere ammessa nell'educazione se non come esercizio di mero divertimento. Per prova del contrario egli dimostra che la musica è fondata sullo studio delle modificazioni espressive della voce; che la sua espressione è composta degli elementi medesimi della espressione naturale del linguaggio; che quest'arte è cominciata a formarsi dacchè gli uomini sono stati costretti pei loro bisogni, e le diverse relazioni socievoli, d'interessare i loro simili alla loro sorte, e che eglino han sentito la necessità di perfezionare l'espressione naturale per renderla più energica; avvegnachè, per giungere a tale scopo, attaccar si dovettero ad imitare gli accenti di coloro, l'espression de' quali era la più perfetta: e questa prima imitazione, dic'egli, fu il primo passo dell'arte. La musica, così unita al linguaggio sin dalla sua origine, ebbe dunque una massima influenza sui costumi; e quel che ci fa osservare l'autore era stato sentito dagli antichi. Nella seconda parte tratta della musica riguardata sotto il rapporto dell'arte, dalla prima epoca della sua depravazione presso i Greci sino al tempo in cui ce ne è giunta la cognizione. L' A. si applica a scovrirci le cagioni, che han fatto dicadere l'arte musica dall'alto grado d'importanza, che ella già ebbe come quelle eziandio che le han fatto perdere quella possente energia, che tanto impero le dava sui costumi presso le più culte, come presso le più selvagge nazioni dell'antichità. Espone un gran numero di fatti citati dagli antichi, per avere contribuito alla corruzione dell'arte musica, e della morale: prova egli quindi con un gran numero di autorità, e coll'esame delle parti essenziali della teoria, dello studio, e della pratica delle diverse arti, che hanno il linguaggio per oggetto, che elleno in origine fecero parte della musica, e che ogni specie di discorso premeditato fu anticamente cantato. Fa osservare oltracciò le tracce molto sensibili che ciascuna di esse ha costantemente conservata della stretta unione, che ebbe dal suo principio colla musica, benchè ne sia stata quindi assolutamente distaccata. Giugne finalmente all'epoca della riforma del musicale sistema de' Greci fatta da Guido Aretino. Queste due prime parti sono seguite da note in supplemento storiche, e piene di una scelta e vasta erudizione. Nella terza parte l'A. tratta dell'attuale stato della musica nell'Europa dopo la riforma dell'antico sistema de' greci introdotta da Guido d'Arezzo, e de' mezzi che contribuir possono vie meglio alla di lei perfezione. Quì fa egli conoscere quel che v'ha di vizio in cotale riforma con un parallelo del sistema riformato da Guido con quello de' Greci: fa osservare gli inconvenienti, che risultano dal moderno sistema, ed i vantaggi che offriva l'antico. Esamina le conseguenze pregiudizievoli a' progressi dell'arte che ha portate seco il moderno sistema, ed i moltiplici errori che sono derivati da queste conseguenze medesime; il che gli dà agio di fare alcune riflessioni sulle cognizioni necessarie ad un perfetto musico, e 'l mena a nuove considerazioni generali sulla natura, origine, ed oggetto della musica. Consacra finalmente la quarta parte nell'esaminare qual sia la vera origine, l'oggetto e lo scopo della musica. Conseguentemente l'A. vi discute da prima le principali opinioni, che sono state in diversi tempi spacciate sull'origine della musica. Egli prova non essere quest'arte una invenzione arbitraria, o dovuta solo al caso, ma che ella ci è stata inspirata dalla natura, e che piuttosto è stata dallo stesso Dio offerta agli uomini anzicchè realmente inventata da loro. Secondo lui quest'arte fu sin dal suo nascere essenzialmente tradizionale; e che pel suo mezzo si sono conservate, comunicate e perpetuate pel corso di un gran numero di secoli senza veruna alterazione le leggi, le scienze, le arti, e tutte in somma le umane cognizioni. Egli ne dà in prova, che la tradizione orale e cantata, che fu per assai gran tempo la sola ammessa, necessariamente aveva da se stessa un carattere di autenticità che non permetteva a quei che la tramandavano di alterarla impunemente, mentre che qualunque altra tradizione, e soprattutto la scrittura, potendo per contrario essere clandestinamente trasmessa al favore del silenzio e dell'arcano, non offeriva la sicurezza medesima; per altro questi monumenti muti di rimembranza non facevano sullo spirito, e sul cuore un'impressione così profonda e durevole come la voce, poichè assai volte negletti o distrutti dal tempo, divenivano in appresso inintelligibili, o soggetti a mille false interpretazioni. Perciò egli è, dice l'autore, che i più antichi legislatori di tutte le nazioni civilizzate non permisero che la tradizione fosse per altro mezzo conservata e propagata se non del canto. L'ultimo capitolo contiene un epilogo di tutta l'opera, e le principali ragioni sulle quali l'autore forma il giudizio, ch'egli reca della musica. “Questa Memoria, dice M. Raymond, annunzia che il suo autore non è solamente un professore distinto nella sua arte, ma che egli è inoltre un letterato profondo nella cognizione delle lingue, degli usi, e delle arti degli antichi, e ben capace di concepire le utili riforme, che ci sarebbero d'uopo. Egli giudica dell'arte musica da filosofo e da uomo sensibile: ammira le ricchezze della nostra musica, e compiange l'abuso che se ne fa: propone una riforma, che tenderebbe a ricondurla alla sua primitiva purezza; e se pur ciò non avviene, avrà sempre la gloria e 'l conforto di aver concepito un util progetto.” (Lettre a M. Villoteau 1811).