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Napoleone

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Il “quasi intiera„ apparisce sacrifizio ad interessi politici, o concessione graziosa alla patria dell'amanuense, poichè veramente non s'intende come non potesse far opera compiuta, essendo egli padrone di tutto: o forse escludeva Nizza e la Corsica, considerate come avamposti di Tolone e Marsiglia. Dopo tutto, a tale distanza dai fatti, e senz'altra via d'induzione, è ozioso almanaccare. Resta che da principio la penisola rimase nell'equilibrio instabile d'una federazione di stati, con persone della sua famiglia, imperanti da Milano a Napoli, lui re d'Italia, e un re di Roma aspettato. Quella trovata del “re di Roma„ fa intender meglio l'abbozzo della politica sua. Che forse pensò egli un'Italia e un Impero romano, sotto la tutela della Francia, e col centro fuori d'Italia? Per un grand'uomo imbevuto di antichità, questa tesi invertita non pare ammissibile. Sarebbe stata, se mai, una combinazione provvisoria, fin ch'egli fosse vissuto. Lui morto, chi ereditava l'impero? Non già l'imperator dei Francesi, ma il re di Roma, per cui fatto e nome l'impero diventava Romano. Così per via s'acconciavan le some; in due o tre generazioni, cancellata la vernice straniera, dato maggior lustro all'origine italiana dei Bonaparte, il colpo era fatto. Così egli avrebbe servita l'Italia, meglio di Carlomagno, ch'era un Franco, e aveva gradito d'incoronarsi a Roma per regnar poi da Acquisgrana; laddove egli s'era incoronato a Parigi, nella presenza del Papa, per grande atto decorativo, ma il figliuol suo procedeva virtualmente da Roma, e con lui si sarebbe per corso naturale di cose sollevata di tanto la condizione d'Italia. Ah, il condottiero medievale non aveva fatto mica un mal sogno!

IV

E non io lo faccio per lui, nè gl'impresto (che sarebbe irriverente) un pensier del mio capo. Sentite ciò ch'egli stesso diceva nel 1812: “Non crediate che io voglia innovar nulla in religione. Non sono un Abdallah Menou (alludeva, così parlando, ad un suo generale in Egitto, che s'era fatto musulmano per riuscir meglio accetto agli Arabi, come successore del Kléber); sarò un Costantino, non docile temporalmente, nè scismatico nella fede. Se tengo Roma per mio figlio, darò Nostra Donna al Papa; ma Parigi sarà levato così alto nella ammirazione degli uomini, che la sua cattedrale diverrà naturalmente quella del mondo cattolico. Questa è la ragione segreta, non la contradizione di ciò che ho fatto; è il Concordato, ingrandito come l'Impero. Ma per aver così piena ragione dalla Chiesa, occorre aver vinto ancor più nel cospetto degli uomini.„

Sogno, lo ripeto, ma grande, e d'un Italiano che sentendosi tale non dubitò di confessarlo ad ascoltatori Francesi, nei solenni colloquii di Longwood; ove, parlando de' suoi primi trionfi, ne esponeva le ragioni in tal forma: “L'istessa mia origine straniera, contro la quale si sono scalmanati in Francia, mi fu di gran prezzo, poichè essa mi fece considerar cittadino da tutti gl'Italiani, agevolando di molto i miei successi in Italia. I quali, come furono ottenuti, indussero a cercar da per tutto le circostanze della nostra famiglia, caduta nell'oscurità da gran tempo. A saputa di tutti gl'Italiani, essa aveva sostenuta una gran parte tra loro; ridivenne ai loro occhi, al loro sentire, una famiglia italiana; tanto che, quando si trattò di sposare la mia sorella Paolina al principe Borghese, fu una voce sola, a Roma e in Toscana, in quella famiglia e tra le sue alleate: sta bene, è cosa fatta tra noi, è una delle nostre casate. Più tardi, quando si trattò della mia incoronazione a Parigi, per mano del Papa, quest'atto, importantissimo come gli eventi mostrarono, incontrò gravi intoppi. Il partito austriaco, nel Conclave, si era risolutamente opposto; il partito italiano la vinse, aggiungendo alle ragioni politiche questa piccola considerazione d'amor proprio nazionale: “dopo tutto è una famiglia italiana, questa che noi imponiamo ai Barbari, per governarli; saremo così vendicati dei Galli…„ Dubito che ciò sia stato detto o pensato in Conclave; ne dubito soprattutto per l'accenno ai Barbari, che da Carlomagno in poi non eran più tali, e alla vendetta sui Galli, che era stata fatta, se mai, diciotto secoli innanzi, dalle armi di Cesare; ma è importante per me che in tal guisa abbia parlato della sua italianità Napoleone a Sant'Elena, nella grande ora della toilette pour la postérité.

Aver fatto grandi cose è bello, sovranamente bello, e accade a pochi. Ma i pochi che le han fatte, sono anche più famosi per averne pensate di maggiori. A cogliere il segno lontano, si vuol porre più alta la mira; e spesso vien meno l'arco, o la corda si spezza. Noi, gloriandoci di quell'Italiano, gli siam grati di aver fatto per la sua patria d'origine un sogno maraviglioso. Non ebbe tempo a mutarcelo in realtà, nè a consolidare la sua stessa fortuna. Ercole, combattendo con l'idra dalle sette teste sempre rinascenti, non venne a capo dell'impresa se non recidendole tutte d'un colpo. Ma quello era un semidio, e il tempo dei semidei è passato; Napoleone fu costretto a colpirle una dopo l'altra, e rinascevano tutte. A noi sia debito ricordare com'egli ci lasciasse il benefizio inenarrabile d'uno stimolo virile all'inerzia lunga e pericolosa, d'un mutamento profondo nella nostra compagine politica, onde furon troncate le radici alle vecchie antipatie regionali, onde un lievito possente a nuove e non più frenabili sollevazioni del sentimento patrio. “Ci sono in Italia duecentomila poltroni: ma io li impiegherò.„ E furono assai più di quel numero i valorosi che trasse d'Italia a tante guerre; la sua famosa ritirata, non dal nemico vinto, ma da un inverno invincibile, fu coperta dai nostri soldati.

 
Morian per le Rutene
Squallide piagge, ahi d'altra morte degni
Gl'Itali prodi…
 

e sia pure, come il Leopardi cantò; ma ancora ne rimasero tanti da fare tre rivoluzioni sulla terra nostra, da esser maestri alla generazione che l'ha composta in un regno. Ond'io posso applicare a noi ciò ch'egli diceva per tutti: “Qual gioventù lascio io dopo di me! Ed è opera mia. Essa mi vendicherà abbastanza, con tutto quello che saprà volere. Veduta l'opera, converrà bene render giustizia all'artefice.„ Il quale, non lo dimentichiamo, fu colpito dal fato nella pienezza degli anni virili. Dapprima confinato all'Elba, fra le tre culle della sua gente, San Miniato, Sarzana ed Aiaccio, tacque, sperando sempre di fare; poi quasi fuori del mondo, sopra uno scoglio dell'Oceano, come un eroe antico, disperando di fare, ha detto il segreto dell'anima sua, epico nell'opera, tragico nella contemplazione che ne ha fatta, rivivendola intiera. E si assiste a quella evocazione, come alla recita di un dramma, con tutte le ansie dell'affetto commosso, con tutti i dubbi della mente turbata, sapendo la catastrofe, e pure desiderando, quasi sperando il miracolo ch'ella riesca diversa. E là non più un uomo; è tutto un simbolo; il simbolo della nuova Europa che sorge, combatte e cade, lasciando ferito a morte il nemico. Dopo di lui, è bene l'Europa contemporanea; il passato può dar guizzi di serpe troncato; son guizzi d'agonia, mentre tutte le cose vitali rinascono; la patria nostra, ad esempio… Ma io non farò un inno, qui. So bene che tutto non è andato secondo le sapienti preparazioni e le giuste speranze dei migliori; che i pericoli non son tutti stornati da noi, se ancora ne durano in noi; che bisogna pensare, provvedere, meritare con forza e con senno una grande fortuna. Sia dunque l'inno riserbato alla Italia futura, se la dovremo davvero a noi stessi, savia, operosa, concorde, soprattutto concorde; e Dante e il Machiavello, grandi anime fiorentine, l'assistano.