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...Sorella di Messalina

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XV

Nello studio soleggiato Alberto, in camiciotto da lavoro, stretti i fianchi da una cintura di cuoio, i capelli scarmigliati sulla fronte, dipingeva. Sbatteva delle pennellate di cadmio schietto in viso a una figura legnosa, dalle ombre di un cerulo d'acqua-marina e l'intitolava: «Donna nel Sole».

Il campanello squillò ed egli colla tavolozza alla mano, andò ad aprire.

Due uomini stavano sulla soglia. Con viva sorpresa Alberto riconobbe l'uno e l'altro. Il più vecchio—un bell'uomo, alto, aristocratico, sulla cinquantina, era quello stesso che accompagnava Raimonda alla stazione la mattina della Domenica delle Palme. Nell'altro Alberto riconobbe tosto il giovane cieco che aveva veduto al Valentino a braccio di Raimonda. Sotto il feltro a larghe falde facevano due cupe macchie i grandi occhiali azzurri.

Alberto salutò sorpreso e un po' turbato.

—La importuniamo?—domandò il più anziano dei due, mentre l'altro si teneva fermo sul limitare in atteggiamento rigido.

—Ma no, no! Tutt'altro,—rispose Alberto.

—Mi chiamo Scotti;—disse il nobiluomo—e questo è mio figlio. Egli desidera parlarle.

—Entrino, prego!—E Alberto stese la mano per guidare nello studio il più giovane dei due; ma questi si ritrasse, tenendo sempre una mano sul braccio del padre.

—C'è qualcuno qui, da lei?—domandò con diffidenza, e la sua voce tremava un poco.

—Nessuno, nessuno!—lo rassicurò Alberto.

Allora i due, tenendosi a braccetto, entrarono.

—Segga, la prego,—fece Alberto, spingendo subito verso il giovane una grande poltrona. Ma quello non ebbe l'aria di accorgersene, e rivolto al padre gli disse a bassa voce qualche parola che Alberto non intese.

Volgendosi al pittore il marchese Scotti disse:

—Mio figlio chiede se Ella può concedergli qualche momento.

—Ma s'imagini!—fece Alberto, sempre più sorpreso.

Allora il vecchio signore salutò cerimoniosamente, e uscì.

Vi fu un breve silenzio tra i due giovani; indi Alberto spinse di nuovo verso il suo visitatore la grande poltrona di cuoio.

—La prego, segga!

Ma l'altro nuovamente si scansò.

—Grazie,—disse. E soggiunse con una risatina amara:—È curioso che a noi, ciechi, non è mai consentito stare in piedi, neppure un momento. Tutti, non appena ci scorgono, si affrettano a spingerci in una seggiola o una poltrona. È un fenomeno curioso...

—Perdoni,—fece Alberto un po' mortificato. E rimase anche lui in piedi, in faccia all'altro, turbato da quello sguardo che, pur essendo spento, sembrava fisso in lui.

Dopo un attimo di silenzio il giovane cieco riparlò.

—Ella conosce il mio nome? Mi chiamo Adriano Scotti.

—Felicissimo!—fece Alberto e stese la sua mano. Ebbe poi un momento di umiliata tristezza poichè l'altro non si era accorto di quel gesto. La mano gli ricadde lungo il fianco.

—Ella, se non erro—continuò Adriano Scotti,—sta facendo il ritratto di una signora... di una signora che io conosco...

—La baronessa Ferrari?

—No,—rispose l'altro, secco secco.—La signora...—esitò, quasi schivo di pronunciarne il nome;—la signora... Rosàlia...

Alberto lo interruppe.

—«Rosàlia»? No. Non conosco Rosàlie.

L'altro parve impazientirsi.

—Come no? Se me l'ha detto la signora stessa...

—Io non conosco alcuna Rosàlia,—ripetè Alberto.

—Lei—insistette l'altro, e la sua voce tremava ancor più,—sta dipingendo una Madonna che è il ritratto di una signora che io conosco.

—Ah! la Madonna di Laghet? Sì, è vero; mi sono infatti inspirato a una signora ... un'amica... Ma essa non ha posato per me. E non si chiama Rosàlia. Si chiama Raimonda,—concluse Alberto.

Il cieco crollò nervosamente le spalle.

—Raimonda o Rosàlia... è tutt'uno,—disse impaziente, e Alberto vide sopra gli occhiali azzurri aggrottarsi le fini sopracciglia. Subito si sentì preso da rimorso e da pietà; per un attimo aveva scordato la sventura del suo interlocutore.

—Ebbene?—chiese in tono di maggiore dolcezza:—dato che è così... in che cosa posso io servirla?

—Anzitutto,—disse il giovane a bassa voce, e un fiotto vermiglio gli salì alle tempia,—mi conduca dove posso... guardare quel ritratto.

Commosso, Alberto lo prese per mano e lo condusse nello studiolo attiguo, dove su di un cavalletto sorrideva blanda la sua Madonna di Laghet, una Madonna dagli oblunghi occhi verdi un poco sciupati, dalle fini narici sensuali, dalla socchiusa bocca che pareva ritoccata al cinabro di Dorin.

—Com'è?—chiese il cieco a bassa voce, e sporgendosi a toccare lievemente colla punta delle dita l'orlo della tela.—Me la descriva.

—È diritta in piedi; sulle spalle ha un manto d'oltremare,—disse Alberto a bassa voce contemplando l'opera sua, la suggestiva figura che di sacro non aveva nulla se non la tenue, nebulosa aureola vagamente accennata dietro alla fine testa moderna.—Ha il sole nei capelli e l'ombra negli occhi. Tiene tra le mani, con sussiego, un teschio, un teschio giallolino chiaro...

—Perchè un teschio?—esclamò il giovane.

—Ma sapete pure,—rise Alberto—in pittura... un buon teschio fa sempre bene. D'altronde se gliel'ho messo tra le mani—soggiunse, fissando pensieroso il suo quadro—è perchè l'ho proprio veduta così.

—Veduta così? Dove? Quando?

—È venuta qui un giorno, e ha veduto sullo scaffale un teschio. L'ha preso, l'ha tenuto tra le mani... così... per un poco. Poi l'ha baciato...

—Dia qui, dia qui,—interruppe l'altro, stendendo le mani vagamente nel vuoto.—Dia anche a me.

Alberto obbedì; prese dallo scaffale il teschio gialliccio e glielo pose nelle palme. Subito le dita lunghe del giovane lo sfiorarono cercando le vuote orbite degli occhi.

—Anche tu, anche tu sei cieco,—mormorò, chino sul lugubre oggetto;—sei cieco e sei più spaventoso di me. Eppure, ella ti ha baciato!—E abbassando il capo poggiò la fronte sul lucido cranio glabro. Così inclinato non gli si vedevano più gli occhiali, non si vedeva che il giovanile capo adorno di bruni capelli ondeggianti.

E Alberto pensò:

—Che bel quadro, macabro e suggestivo!

L'altro alzò la fronte lievemente arrossata.

—E forse... forse siete cieco anche voi,—disse al pittore—cieco più di me, e più di questo!

Alzò le mani col teschio tondo e biancheggiante fra le dita. Poi indicando con un cenno del capo la tela:

—Non è, di noi tre, che lei... che lei che vede chiaro!... Noi brancoliamo nel buio. Essa ci guarda... e ride.

Gli sguardi di Alberto andarono dalle vuote occhiaie del teschio agli occhiali azzurri del giovane, e da quelli alle glauche iridi della donna dipinta. Un profondo turbamento, un turbamento come di sogno lo teneva.

Poi mosso da un profondo irresistibile impulso si sporse in avanti verso il pallido giovane; e sopra quel simbolo di morte che li separava, lo baciò in fronte.

.     .     .      .     .     .     

Allorchè, un'ora dopo, il marchese Scotti venne a prendere suo figlio, i due giovani si lasciarono con una lunga stretta di mano.

—È promesso?...—chiese Adriano, fermo sul limitare.

—È promesso,—rispose Alberto, a voce bassa.

XVI

E la promessa fu mantenuta.

Rivedendo Raimonda quella sera stessa, Alberto le narrò la visita ricevuta, e soggiunse:

—Egli ti prega di andare a trovarlo a Muralto. Te ne supplica. Io ho promesso per te, che ci andrai.

—Tu!... hai promesso per me?—Ella lo fissò con uno sguardo strano.

—Sì, ho promesso,—fece Alberto con l'espressione testarda di un fanciullo ostinato.—Mi ha detto che non lo ricevi quando viene a cercarti, che non rispondi quando ti scrive... Era molto infelice.

Raimonda lo fissava collo sguardo gelido e il sorriso cattivo.

—Sta bene. Poichè sei tu, proprio tu, che me lo chiedi, andrò.

E stringendo le labbra in una linea dura, mise fine alla conversazione prendendo un libro dalla tavola.

—È uno sventurato,—continuò Alberto dopo un silenzio. E per debito di coscienza insistette:—Andrai domani?

—Sì, sì; andrò domani. All'alba,—fece lei, ironica.

—No. Perchè all'alba? Va nel pomeriggio,—disse Alberto.—Ed io, verso sera, verrò a prenderti.

Stese la mano ad accarezzare le dita di Raimonda, strette come una piovra bianca intorno alla copertina del libro.—Farai una buona azione,—soggiunse un po' commosso.

—Sì, sì, sì—disse lei,—e si alzò. Gli battè leggermente la mano sulla spalla in quel gesto di indulgente superiorità che al giovane spiaceva assai, e lasciò la stanza.

All'indomani mattina, allorchè Alberto si recò a chiedere nuove di lei, gli dissero che alla prim'ora ella era partita.

XVII

Cadeva già il crepuscolo—un grigio crepuscolo autunnale—quando Alberto all'indomani scese alla stazione di Muralto e prese la biancheggiante via maestra che conduce in breve salita al Pian del Cigno e alla vecchia villa dei marchesi Scotti di Castellazzo.

Riconobbe l'entrata del parco descrittagli dal giovane, decifrò il nome sul cancello; lo schiuse ed entrò. Il giardino era triste e incolto, le aiuole senza fiori, il viale maculato e molle di vecchie foglie infradiciate.

 

Per quanto Adriano Scotti gli avesse descritto lo stato di rovina in cui era caduta la vecchia dimora patrizia della sua famiglia, nobilissima ma ormai quasi povera, Alberto provò un senso di sconforto, quasi di sbigottimento, davanti alla decadenza e l'abbandono di quel luogo. Si avanzò a passi lenti, spiando le finestre: nessuna di esse era aperta o illuminata.

I suoi passi non fecero rumore sulla superficie umida e fangosa del viale; ma quasi subito, sulla porta della villa, in cima alla breve scalinata di marmo, comparve la figura smilza del giovane cieco.

—Chi c'è?—domandò con la voce giovanile un po' vibrante. E subito ripetè con tono inquieto la domanda:—Chi c'è?

Alberto rallentò il passo.

—Sono io.—E pronunciò il suo nome.

—Ah!—fece il giovane, e rimase immobile sulla soglia.

Così ritto e immoto sullo sfondo nero della porta, aveva qualcosa di macabro e di spettrale, con quei due grandi cerchi scuri al posto degli occhi.

Alberto si avvicinò un poco titubante.

—Sono venuto a cercare... la signora... Mi ha pregato di venirla a prendere e riaccompagnarla in città.

Il cieco trasalì. Indi disse con tono aspro:

—Non è qui.

—Non è qui?—esclamò Alberto, fermandosi ai piedi della breve scalinata.—Ma come... non è qui?

—No. Non è venuta.

Alberto lo fissò stupito.

—Eppure... è partita di casa stamattina.

L'altro si strinse nelle spalle.

—Ah? è partita?—Ebbe un'amara risata. Poi chiese:—Vuole entrare?—E si trasse in disparte per lasciar libero il passo.

Alberto salì i quattro scalini ed entrò nella casa.

Adriano lo precedette camminando spedito e sicuro in quell'ambiente a lui noto. Traversarono la vasta anticamera buia e fredda; indi il giovane cieco aprì la porta di un salone, vasto anch'esso e buio e desolato.

—Non vorrei disturbare...—mormorò Alberto, esitando sul limitare.

—Entri, entri!—fece l'altro con una lieve nota d'impazienza; e Alberto obbedì.

Il cieco chiuse la porta, e Alberto si guardò intorno. La grande stanza, invasa dal crepuscolo e drappeggiata alle due finestre da ampie tende, era quasi buia. Già, pensò con mestizia Alberto, di questo il suo giovane ospite non si accorgeva!

Con una stretta di pietà al cuore Alberto obbedendo a un breve—S'accomodi!—depose sul divano cappello e soprabito. Indi sedette in una poltroncina accanto al caminetto spento.

Adriano Scotti prese posto in faccia a lui vicino al tavolo, e sedette appoggiando il gomito e velandosi la fronte colla mano.

Dopo un breve silenzio parlò:

—Che cosa le ha detto ieri Rosàlia?—domandò a bassa voce.

—Che sarebbe venuta qui stamane.

—È tutto il giorno che l'aspetto.—E il giovane alzò nella penombra il triste viso mutilato, fatto più bianco per le due chiazze scure dell'orbite.

Un'onda di tristezza immensa invase il cuore di Alberto. E alla tristezza si mesceva un senso di disgusto, di nausea della vita, di orrore di sè, e di costui, e della donna che li faceva soffrire entrambi.

—Crede che verrà ancora?—chiese l'altro e la sua voce pareva quella di un bambino malinconico e pauroso.—Crede che verrà? Poichè le ha detto di venirla a prendere?...

Alberto non rispose; e i due sedettero immobili, silenziosi nel buio.

D'un tratto Alberto trasalì. Aveva udito dei passi nell'andito. Ma il suo compagno scosse malinconicamente il capo.

—No. Non è lei.

Si bussò alla porta. Nessuno dei due rispose; allora l'uscio si aprì e sulla soglia comparve una contadina con una candela accesa in mano.

Parve stupita di vedere l'estraneo.

—La cena è pronta, signor Adriano,—disse.—Non vuol mangiare?

Quegli rispose:—No!

La contadina rimase, un po' perplessa, sulla porta.

—Non le occorre niente?

Il cieco ripetè:—No.

Gli occhi della donna vagarono incerti dal padrone allo sconosciuto visitatore.

—Vogliono il lume?

Stavolta fu Alberto che, visto il silenzio del suo compagno, rispose:—No!

Un'altra breve pausa, poi la donna disse:

—Allora me ne vado?

Nessuno le rispose, ed ella, dopo un istante d'incertezza, richiuse l'uscio e si allontanò.

Si udirono i suoi passi aggirarsi per la casa, indi il cigolio della porta d'uscita; un fruscio sul viale... poi più nulla.

E di nuovo il silenzio cadde sui due uomini seduti in quella stanza ormai completamente immersa nell'oscurità.

Ad Alberto pareva di essere piombato in un fantastico sogno pauroso; gli pareva di essere cieco anche lui, trascinato dal suo compagno silente in un nero abisso di tristezza.

Finalmente, quando i suoi nervi non poterono più reggere alla tensione di quel silenzio, egli si scosse e si alzò.

—È inutile che io aspetti,—disse.—Certo non verrà più.

E come un'eco più triste gli giunse nel buio la voce del suo compagno:

—Non verrà più.

E d'un tratto sentì che quello si abbatteva colla fronte sul tavolo e piangeva.

Allora stese la mano cercando quella del giovane. La trovò; era madida e fredda.

Scosso da un profondo sgomento, Alberto mormorò:

—Ditemi che cosa posso fare per voi?

Ora l'altro piangeva davvero; piangeva come un bambino, scosso da disperati singulti. Alberto si chinò e gli cinse la spalla col braccio.

—Ditemi, ditemi che cosa posso fare?

—Restate qui!—mormorò l'altro.—Restate con me! Non mi lasciate. Ho paura, qui, solo nel buio, coi miei ricordi... coi miei terribili ricordi...

E per tutta la notte Alberto restò con lui, nel silenzio, nella solitudine, nell'oscurità.

.     .     .      .     .     .     

Nelle ore che precedono l'alba, quando la vitalità è più bassa, più profondo lo spavento della vita e il bisogno di aggrapparsi a un'altra anima, fu Alberto che, tenendo stretta la mano del compagno, narrò la sua angosciante vicenda di passione.

—... Ed io non so,—concluse,—non so perchè l'amo! Non so neppure se l'amo. So che soffro, soffro...

Allora l'altro, a sua volta, parlò:

—Ascoltami. Io, cieco, ti aprirò gli occhi.

XVIII

—Io conobbi Rosàlia (da voi si fa chiamare Raimonda?...) quattro anni fa.

Io allora ci vedevo.

La trovai al letto d'agonia di un giovane ch'era stato mio compagno di scuola: Angelo Silvani. Forse ne avete sentito parlare: era quel violinista che si avvelenò, così drammaticamente, durante un suo concerto... tra un pezzo e l'altro... Ricordate? Tutti i giornali ne parlarono.

Non so perchè egli volle quella fine orribile e sensazionale. Non so perchè Rosàlia si trovasse presente alla sua agonia. Essa non me l'ha mai detto. So che, vedendola per la prima volta a quel capezzale di moribondo, ella non mi piacque; la trovai quasi brutta, insignificante, trascurabile.

La sera che Angelo spirò eravamo in molti vicino a lui. Ella d'un tratto diede un urlo e mi cadde svenuta ai piedi. Mio padre ed io la portammo a casa sua; e all'indomani andammo a chiedere sue nuove. Io vi tornai l'indomani ancora, e i giorni susseguenti.

Probabilmente ero anch'io, agli occhi suoi, un essere nullo, insignificante, trascurabile. Certo non avevo alcuna qualità speciale e impressionante; non ero nè molto brillante, nè molto bello, nè molto ricco. Ero come tanti; ero come tutti. Ero giovane, null'altro. Studiavo legge senza eccellere; facevo della musica mediocre; scrivevo dei brutti versi. Ero insomma un giovinotto qualunque.

Come avvenne che quella donna si accorgesse di me, si incapricciasse di me? Non lo so. So che d'improvviso mi trovai afferrato da lei, ammaliato da lei, dominato da lei. Ella mi vinse, mi cinse, mi avvinse a lei con subdole arti, con sortilegi malefici. Versò alle mie labbra il filtro delle più raffinate lusinghe, delle più ricercate perversità...

Ed io, pur ribellandomi, pur riluttante, pur non amandola—anzi, detestandola quasi!—divenni suo schiavo, cosa sua.

Ed io, pur ribellandomi, pur riluttante, mai, nè un giorno, nè un'ora, nè un attimo di felicità.

Era una tortura la sua passione. La sua ferocia, la sua gelosia, financo la sua lussuria, così macabra e morbosa, mi martoriavano la carne e lo spirito. Essa era un'amante spaventosa, mostruosa.

Aveva sopratutto la fissazione, l'ossessione continua della sua età, del suo declinare fisico a raffronto della mia giovinezza.

La mia giovinezza! era per lei un delitto. Pur essendo la fonte unica della sua passione per me, ella la odiava e la temeva.

—Come sei giovane! come sei giovane!—sospirava in un singulto, carezzandomi la fronte.—Che meraviglia!...—E poi, abbassando la voce:—E che orrore! ah, che orrore!...

E si abbatteva su me con una frenesia in cui vi era quasi dell'odio.

Era costantemente preoccupata della sua apparenza, del suo aspetto di fronte a me.

—Non guardarmi, non guardarmi!—esclamava sovente, quando io rivolgevo gli occhi a lei.—Vorrei che tu non mi vedessi!

E soggiungeva piano:—Vorrei che tu... non ci vedessi!

Questa idea divenne una manìa, una fissazione. Non volle ricevermi che di sera. Ci incontravamo quasi sempre nelle tenebre. Se arrivavo di giorno ella teneva chiuse le imposte e abbassate le tende; poi, anche di sera velava di rosso cupo i lumi; o li spegneva.

Io ne soffrivo. Aborrivo tutto quel buio.

—Anch'io, anch'io—esclamava lei—lo aborro! Vorrei vederti, vorrei guardarti! Vorrei bere con gli occhi la tua bellezza... Ma tu, tu non devi vedere il mio triste volto sfiorito!

Talvolta mi implorava, umile e lusinghiera:—Tieni chiusi i tuoi occhi, ed io lascerò entrare la luce. Ma tu, tieni chiusi gli occhi...

Ed io, docile, chiudevo gli occhi.

Allora la udivo spalancare finestre e imposte; poi sentivo su di me fisso e intenso il suo sguardo: pareva che mi bruciasse, che mi lambisse come una fiamma.

—Ah! come sei bello! come sei bello!—E si avventava sulla mia bocca con una furia di passione, togliendomi il fiato, bevendomi l'alito con lunghi singhiozzanti respiri.

Allora se io schiudevo le palpebre, subito su di esse si abbatteva la sua mano, la sua mano fresca e leggera, ma inesorabile. E sentivo nella sua bocca il rauco singulto:

—No! no! Tu non devi guardarmi! Vorrei spegnere il tuo sguardo perchè non mi vedessi più.

.     .     .      .     .     .     

Talvolta ella m'inebriava non solo della sua perversa e raffinata lascivia, ma ancora di liquori strani, di bevande esotiche e sconosciute, di droghe stupefacenti od eccitanti. E a me pareva di vivere di una vita chimerica, inverosimile, rimossa dall'elementare esistenza quotidiana. Mi pareva di raggiungere altezze di lussuria e abissi di depravazione riservati a pochi esseri umani, privilegiati ed eccezionali.

Un giorno fui invitato da un amico, Ignazio Weill, ad una festa in casa sua. Weill era stato anch'egli, come Silvani, mio compagno di scuola e d'università; laureati, io in legge e lui in medicina, ci eravamo da qualche anno perduti di vista. Da studenti lo chiamavamo «Ignis» o «Ignatius... Fatuus», perchè ogni momento ci annunciava qualche sua idea straordinaria, qualche sua «trovata luminosa» che poi per lo più si spegneva nel nulla.

Ed ecco che dopo aver vagabondato un paio d'anni per l'Europa e l'America egli ricompariva tra noi e invitava gli amici di un tempo all'inaugurazione di un lussuoso alloggio e di uno studio magnifico in Piazza Cavour.

Egli annunciò che avremmo veduto anche una installazione misteriosa e speciale in cima alla sua casa, una specie di «Roof-garden» all'americana.

«Vedrai, caro Scotti», mi diceva nel suo biglietto d'invito, «vedrai gli splendori di questa mia nuovissima idea luminosa!».

E aggiungeva un poscritto:

«Porta teco amici... e amiche!».

Alla sera fissata Rosàlia dichiarò che sarebbe venuta con me. Questo mi stupì, poichè di solito non voleva uscire; nè le piaceva vedermi in compagnia d'altri. Ella, come la maggior parte delle donne innamorate, aveva creato intorno a me il completo isolamento.

 

Non vi era che Pierino Alessi, un innocuo giovane, mezzo esaltato, mezzo deficiente, che fosse ammesso talvolta ai nostri incontri. Anche a questa festa egli si accompagnò a noi.

Rosàlia in quella sera fu bella come io non l'avevo veduta mai. Non so a quali arti avesse ricorso, o se era soltanto la passione e l'allegrezza,—e un meraviglioso vestito tutto a squame d'argento—che la trasfiguravano così. Certo è che la nostra entrata nelle sale di Weill fu trionfale.

Già ferveva il frastuono e la giocondità; un'orchestrina pseudo-boema strepitava inascoltata tra le risa e i clamori.

Weill, lungo, magro, un po' spiritato, ci diede con esuberanza il benvenuto.

Vi erano poche donne, e me ne rallegrai per Rosàlia che le detestava cordialmente.

Si cenò in un frastuono di conversazione allegra; e sul finire avevamo tutti bevuto troppo, fumato, parlato e riso troppo.

Weill, seduto a capo tavola, si lanciò in una lunga dissertazione scientifico-poetica a cui nessuno diede ascolto; già, eravamo esaltati ed eccitati dai vini, dalle sigarette drogate e dalla nostra esuberanza stessa.

Tentando di vincere il frastuono, egli ci spiegò che mancava all'umanità un rimedio universale, un vero antidoto contro tutti i mali. Ora, questo specifico miracoloso, lui, la Germania e l'America insieme, l'avevano trovato.

Naturalmente, l'idea era sua; i tedeschi l'avevano concretata e applicata, e gli americani l'avevano sfruttata.

Mercè questa scoperta non solo egli diventava milionario, ma l'Italia, ma l'umanità intera si prostrerebbe ai suoi piedi in una frenesia di ammirazione e di riconoscenza.

—E sapete di che cosa si tratta? Sapete che cos'ho, io, imprigionato quassù sotto al tetto? Il sole! In una lampada a mercurio in quarzo io ho fabbricato... il sole artificiale!

Noi urlammo ed applaudimmo. Ed egli continuò:

—Voi sapete della scoperta di Erlangen... avrete pur sentito parlare di Erlangen...

—Sì, sì!—gridammo noi, che non sapevamo se Erlangen fosse una persona o un paese.

—Ebbene, voi sapete che a Erlangen oggi si esperimenta coi raggi Roentgen portati alla potenza di trecento mila volts, e che si scioglie un tumore in tre giorni invece che in sei mesi. Ebbene, quei raggi, come d'altronde anche quelli del radium, non hanno che un'azione puramente locale. Ma i miei raggi, i miei portentosi raggi ultra-violetti, agiscono su tutto l'organismo! Io posso con essi guarire ogni morbo che affligge l'umanità.