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Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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I nitriti si sono ricercati colle reazioni della metafenilendiamina, con quella dell’acido solfanilico e solfato di [Greek: a] naftilamina, i nitrati colla salda d’amido e joduro di zinco, e colla soluzione d’indaco14. In ogni caso e per tutte quante le acque le reazioni furono negative. Ciò per quanto riguarda il 1894; nel 1895 trovai traccie di nitriti nel lago dell’Olen, come dissi più sopra.

Il comportarsi dei composti tanto ossigenati che idrogenati dell’azoto nelle nevi del Rosa è interessantissimo. Se i risultati da me ottenuti, in base ad accurate reazioni sottoposte sempre a controprove, sono di un valore positivo, non è perciò meno desiderabile che possano essere confermati da un numero maggiore di osservazioni estendentisi su più larga zona. La questione importante dell’origine e della distribuzione dei composti azotati alla superficie del globo e nell’aria dalle indagini che ho esposte riceve un nuovo contributo, per cui si rischiarano alcune circostanze finora meno note.

È generalmente ammesso che i composti azotati (ammoniaca, nitriti e nitrati) che si trovano in piccolissima quantità nell’aria e che da questa passano nelle acque meteoriche si formino sotto l’influenza delle scariche elettriche o di vive combustioni. Dall’epoca della celebre esperienza di Cavendish questo fatto è stato confermato in numerosi e varii modi15; e si potè constatare che i composti azotati sono tanto più abbondanti nell’atmosfera quanto più elevata è la temperatura e intensi i fenomeni elettrici, come avviene sopratutto nelle zone tropicali. Dei tre composti azotati accennati, l’ammoniaca essendo gazosa si diffonde nell’atmosfera e si rinviene anche negli strati più elevati; mentre invece i nitriti e nitrati (d’ammonio) tendono a precipitare nelle zone più basse, essendo solidi.

In un modo o nell’altro, sia che (come avviene per l’ammoniaca) siano diffusi nell’atmosfera, o (come succede dei nitrati e nitriti) vi siano sospesi, questi composti devono necessariamente essere imprigionati nelle goccie d’acqua o nei fiocchi di neve, e soffermarsi sui ghiacciai. E se nelle nevi delle alte vette non si trova se non ammoniaca, ciò deve riferirsi che in quelle altezze non si verificano quelle condizioni che sono necessarie perchè gli elementi dell’acqua si combinino coll’azoto atmosferico.

La questione muta dunque d’aspetto; a rischiararla diventa necessario verificare se ad una certa altezza i fenomeni elettrici mutino di natura, o d’intensità, il che per ora non è facile per la scarsità dei dati, le osservazioni continuate nelle zone elevate essendo ancora nell’inizio.

A tutta prima parrebbe che sulle alte vette si dovessero avere importantissimi fenomeni elettrici; è noto che ogni picco alpino ha numerose impronte di fulminazione, e spesso si mostra magnetico in conseguenza appunto delle scariche che ha subìto16. Sulle vette alpine alcuni viaggiatori hanno assistito a fenomeni elettrici imponenti; il sig. Galli il 16 agosto 1889 trovandosi alla Capanna del Bergli (3299), alla base del gruppo della Jungfrau, fu leggermente ferito da un fulmine penetrato nel rifugio. Si è in vista di questi pericoli che uno fra i principali intenti della Commissione nominata dal Club Alpino Italiano per dirigere la costruzione della Capanna Margherita sulla Punta Gnifetti, fu di trovare il modo di renderla sicura dal fulmine17. Si adottò il sistema di rivestirla di fogli di rame, armandola di punte agli spigoli, da cui scendono gomene metalliche che la mettono in diretta comunicazione col nucleo granitico del monte.

Dal complesso tuttavia delle osservazioni e dalla esperienza quotidiana risulta che i violenti fenomeni elettrici a grandi altezze sono rari e che le vere scariche temporalesche, in cui la ricomposizione della elettricità si fa repentinamente per mezzo di scintille, vi sono meno frequenti che non al basso; al disopra dei 3000 metri nella nostra latitudine temporali con lampi e tuoni si hanno assai più rari che al piano. La scarica elettrica nelle zone assai elevate muta carattere, non è più subitanea come quella della bottiglia di Leyda, ma diventa continua o semi-continua, assume l’apparenza di fuoco di S. Elmo o forse anche di scarica oscura. Su questo punto le osservazioni sono numerose e confermansi quotidianamente; il Vallot che è uno di coloro che abbia vissuto più a lungo sul Monte Bianco, cita fra i fenomeni elettrici non i fragorosi fulmini, ma le milles piqûres de l’électricité des orages18. Il Vallino ha radunato molti esempi di scariche elettriche nelle alte montagne19; se ne trovano pure registrati molti interessantissimi negli Annali dell’Osservatorio di Harvard College, il quale venne eretto sul Pikes Peak nelle Montagne Rocciose a 4308 m. Recentemente si pubblicarono nei «Sitzungsberichte» dell’Accademia di Vienna le osservazioni sulla elettricità atmosferica e sui fuochi di S. Elmo fatte sulla vetta del Sonnblick, confermandosi il risultato di precedenti osservazioni che dimostrano la variazione dell’energia elettrica esservi poca, comparata a quella della base perchè l’Osservatorio si erge al disopra di quegli strati dell’atmosfera in cui sono più, frequenti i processi elettrici20.

 

Tutti questi fatti giustificano quanto dissi dianzi che se non assolutamente mancanti, tuttavia le violenti scariche temporalesche che sono la sorgente più copiosa di composti nitrosi nell’aria, sono rare a grandi altezze; si comprende perciò come nella neve raccolta sulle vette si trovi in prevalenza e spesso sola l’ammoniaca che è diffusa nell’atmosfera e proviene dagli strati più bassi, e non i nitriti ed i nitrati la cui formazione a tali altezze è scarsa o nulla.

I risultati da me ottenuti relativamente ai composti azotati dell’acqua a grandi altitudini sono confermati da parecchi autori. Müntz e Aubin21 al Picco del Mezzodì (m. 2877) hanno esaminato sei acque di pioggia, tre di nebbie e quattro di neve e trovarono quasi completamente assenti i nitrati. Per contro l’ammoniaca era dovunque presente in quantità variabile, ma sempre inferiore a quella rinvenuta in regioni basse.

Boussingault comunicò all’Accademia di Francia22 alcune analisi di acque raccolte dal sig. Civiale nelle peregrinazioni da lui intraprese nelle Alpi. Non sono indicate le manipolazioni che abbia subito l’acqua, nè l’epoca dell’analisi rispetto a quella della raccolta, nè i metodi usati per il dosaggio.

I risultati sono:


Dall’esame di questo elenco risulta che in tutte le acque raccolte sopra ai 3000 metri mancava l’acido nitrico; l’ammoniaca invece si è rinvenuta anche a questa altezza al Velan, il picco che domina il passo del Gran S. Bernardo.

Per contro nella zona inferiore ai 3000 metri le quantità di ammoniaca e di acido nitrico sono variabili e spesso ragguardevoli, con questo tuttavia che i grandi ghiacciai alimentati da nevi la cui altitudine supera i 3000 metri anche più basso hanno poco o punto di acido nitrico; tali sono il ghiacciaio del Gorner formato appunto dalle nevi del Rosa di cui io studiai il versante meridionale, e quello di Aletsch le cui radici scendono per i fianchi della Jungfrau e delle altre vette più alte dell’Oberland Bernese.

Il fatto che la Mer de Glace ha dato invece molto acido nitrico e ammoniaca si spiega colla circostanza che si è esaminata la neve, e non il ghiaccio; ora al fondo del ghiacciaio e ad una altezza di 1350 m. questa neve era certamente d’origine locale, poichè quella alta fonde sul sito o si trasforma in ghiaccio. Un esame dei ghiacci compatti di questo estremo lembo del ghiacciaio avrebbe senza dubbio dato altri risultati e mi induce a pensarlo il fatto che esaminando in quest’anno 1895 il ghiaccio del limite più basso del ghiacciaio del Lys (2150 m.), che è una vera «Mer de glace», vi rinvenni ammoniaca in copia, e punto composti nitrosi.

È assai interessante il risultato delle analisi delle acque del circo Comboë che è un vallone aprentesi al sud d’Aosta, circondato da aspre roccie fra cui emerge il Monte Emilius; le nevi si raccolsero durante un temporale violento e siccome non esiste ghiacciaio in questa regione, dovevano essere di valanga, se pure non caddero nel momento stesso in cui infuriava il temporale; esse diedero un’acqua a reazione acida, contenente milligr. 0,66 di acido nitrico per litro.

Tutti questi dati confermano quanto ho detto dianzi che cioè, mentre anche in montagne alte si ha formazione di composti ossigenati dell’azoto quando vi siano veri temporali, al disopra di 3000 metri non si trovano più nitrati nè nitriti, il che deve essere in rapporto colla natura delle scariche elettriche in queste regioni.

Nella scarica elettrica temporalesca condizione essenziale per la combinazione dell’azoto coll’ossigeno è la temperatura elevata; col crescere della temperatura anche altre forme di scarica, e precisamente quella oscura, producono quantità sempre maggiori di composti nitrosi e nitrici. Questo fatto venne messo in luce da Hautefeuille e Chapuis23: essi trovarono che l’aria satura d’umidità e scaldata a 100° fatta passare in un tubo ad ozono (appareil à effluves) acquista 16 milligrammi d’acido nitrico per litro d’aria! mentre alla temperatura ordinaria, cæteris paribus, non si hanno che traccie di un acido che fuma all’aria. Se si pensa alle rigide temperature che regnano di sopra ai 3000 metri e alla natura delle scariche che si hanno, si può benissimo comprendere come la formazione di composti nitrosi cessi affatto.

Che i risultati negativi da me ottenuti possano ascriversi a scomparsa dei nitrati e nitriti dal ghiaccio non credo sia ammissibile (e lo provano le analisi delle acque del Civiale in cui quando esistevano i composti nitrosi si conservarono nel ghiaccio); l’ammoniaca nelle stesse condizioni persiste a lungo, mentre nell’acqua ed a temperatura più alta essa scompare dopo qualche tempo. Houzeau24 trovò che in un’acqua contenente milligr. 4,7 di ammoniaca per litro, dopo essere lasciata 13 giorni al sole ne rimanevano solo più 0,3. All’oscuro la perdita è assai meno sensibile; nello stesso periodo di tempo l’acqua da milligr. 4,7 passa a 2,6. Nel ghiaccio, sopratutto profondo, concorre altrettanto la bassa temperatura quanto l’oscurità e la mancanza di aria atmosferica a mantenere l’ammoniaca in quantità costante. Ma appena mutano le condizioni, fonde il ghiaccio, e l’acqua di fondita corre liberamente all’aria ed alla luce, ecco che l’ammoniaca si diffonde nell’atmosfera e scompare rapidissimamente.

Ho già accennato che nelle circostanze ordinarie, l’acqua del torrente Indren a due chilometri dalla sua sorgente non ha più traccia di ammoniaca e solo eccezionalmente, durante le giornate canicolari che inducono abbondante fondita, ne conserva ancora inalterata una porzione. Così pure, nel lago dell’Olen l’ammoniaca si conserva qualche tempo nell’acqua, ma in piccola quantità.

II.
Crioconite

Nordenskiöld nel suo viaggio in Groenlandia nel 1870 aveva trovato disseminata alla superficie del ghiaccio continentale (inlandsis), tanto nella sua porzione marginale, quanto a 150 chilometri dalle coste, una polvere fina, amorfa, che egli battezzò col nome di crioconite. Studiandone la forma e la composizione la credette d’origine cosmica e in parte anche eolica, cioè dovuta al trasporto di particelle per opera dei venti.

Lo scienziato svedese confermava le prime sue osservazioni esaminando varii esemplari di polvisculi caduti durante un uragano di neve nel 1871 a Stoccolma, o raccolti in varie parti della penisola scandinava; nel 1872 ritrovava e ristudiava la crioconite sui ghiacci galleggianti presso le isole Spitzberg25; tornato poi nel 1888 in Groenlandia riprendeva lo studio della crioconite, che egli trovò abbondante, e che anzi fu uno dei maggiori ostacoli al progresso della sua spedizione26.

La crioconite di Groenlandia è una polvere nera, fine, avente l’apparenza di fuliggine; si può trovare sparsa uniformemente alla superficie del ghiaccio in strati di spessore vario da 1 millimetro a 1 decimetro; spesso si raccoglie entro a cavità cilindriche verticali, veri pozzi in miniatura, profondi da pochi millimetri a 1 metro e larghi altrettanto. Il fondo è coperto d’un leggero strato di crioconite, mentre la cavità stessa contiene acqua, e la superficie per lo più è coperta da un velo di neve o di ghiaccio che nasconde il tutto. Nello spazio che è fra parecchi grandi fori si eleva un cono di ghiaccio annerito dal polviscolo. La superficie del ghiacciaio così tormentata è difficilissima a percorrersi; ad ogni passo la gamba affonda entro le trappole celate sotto la neve.

Nella crioconite di Groenlandia e di Spitzberg e nei corpuscoli trascinati e racchiusi nella neve delle bufere e delle nevicate esaminate dal Nordenskiöld si rinvennero costantemente granuli di ferro nativo con traccie di cobalto e di nickel, cristalli di quarzo, di mica, di augite e di altri minerali, sostanze organiche solubili in alcool ed etere, forme di vegetali monocellulari viventi, alcune volte (come per esempio dopo l’eruzione del vulcano Krakatoa) ceneri vulcaniche.

La presenza del ferro magnetico unito al cobalto ed al nickel, la costanza di composizione avente una certa indipendenza da quella delle roccie vicine, la diffusione in zone lontane fra di loro, sono altrettanti argomenti i quali inducono il Nordenskiöld ad attribuire alla crioconite un’origine eolica e cosmica.

Le idee dello scienziato svedese però non sono state accolte da tutti; parecchi vedono nella crioconite il prodotto dell’erosione e dello sgretolamento delle roccie fra cui è incassato il ghiacciaio, le quali anche in Groenlandia talora alzano il capo dal potentissimo mantello di ghiaccio, formando quei picchi isolati che si chiamano col nome di «Nunataks». Di più, un altro esploratore della Groenlandia, il Nansen, che, più fortunato di tutti i suoi predecessori, valicò dalla costa orientale alla occidentale percorrendo sempre l’inlandsis, non rinvenne che in un solo punto del suo tragitto la crioconite, il che dimostra la sua zona di distribuzione non essere così vasta come il Nordenskiöld vorrebbe ammettere.

Una polvere avente tutti i caratteri della crioconite si può trovare qua e là sui nostri ghiacciai; e come essi sono una miniatura dei vasti campi di ghiaccio polari, così la crioconite vi si trova radunata in condizioni che riproducono su piccola scala quelle della Groenlandia.

 

Nelle mie ricerche trovai i depositi caratteristici di crioconite limitati a quella parte del ghiacciaio del Garstelet che scende a lambire la cresta rocciosa che spiccandosi dall’Hohes Licht sale fino a formare il mucchio di pietrame su cui posa la Capanna Gnifetti. Verso il Garstelet questo sprone di roccie non ha quasi alcuna sporgenza, sì che il ghiacciaio scende lievemente a morirvi sopra; verso il ghiacciaio inferiore del Lys, invece, è un precipizio vertiginoso. L’orlo inferiore del ghiacciaio è quasi pianeggiante, e per un tratto, che si avanza di forse un centinaio di metri verso la parte superiore del ghiacciaio stesso, si mostra tutto cribroso per innumerevoli fori. Sono queste le aperture di piccoli pozzetti verticali, cilindrici, della profondità di 10 a 15 o 20 centimetri, del diametro che varia da pochi millimetri ad 8-10 centimetri. Chiusi talora da un dischetto di ghiaccio sottile, sono ripieni d’acqua limpidissima, e al fondo hanno uno straterello d’una polvere nera, fioccosa, che pare fuliggine.

Non è difficile il comprendere la formazione di queste cavità: gli ammassi di questo materiale scuro, che assorbe intensamente il calore, provocano la fusione del ghiaccio circostante e si vanno seppellendo nella fossa che scavano da sè, finchè, giunti a tale profondità che il calore diurno non li tocca più, si fermano. Ho potuto constatare che dopo una nevicata che abbia seppellito tutto uno strato di pozzetti di crioconite, al disotto dello strato superficiale permane la superficie cribrosa; in una sezione verticale praticata in queste condizioni si scorge sotto l’ultima neve recente la traccia dei pozzetti e della crioconite primitiva.

Nel 1895 percorsi in vario senso il Garstelet per istudiarvi l’origine della crioconite; e potei farmi una idea più esatta della sua formazione, sebbene non abbia per varie circostanze avuto mezzo di farne raccolta sì da ripetere e completare le analisi che riporto qui sotto.

Il Garstelet è una superficie unita di ghiaccio che non presenta traccia di crepacci se non nella porzione superiore, dove si confonde coll’Indren per fasciare i fianchi della Piramide Vincent. Per questa sua continuità e per la sua disposizione a ventaglio le acque di fondita vi scorrono sopra in un velo continuo e si raccolgono in rivoletti tutt’intorno all’estremità del ghiacciaio. Sono queste acque superficiali che raccolgono e trascinano il polviscolo nero detto crioconite, il quale s’arresta qua e là e si affonda nei pozzetti la cui acqua fa parte del velo scorrente sul ghiacciaio stesso. La neve recente porosa ricopre alla sua volta di uno strato più o meno sottile la massa glaciale, i pozzetti superficiali di crioconite e lo strato acqueo continuamente fluente. In qualunque punto colla piccozza si rompa la prima crosta tenue di neve e ghiaccio friabile, sgorga subito l’acqua irrompendo da ogni lato, riempie e inonda i pozzetti esportandone il fine detrito nero. Il ghiaccio sottoposto è compatto, duro, purissimo; le analisi gli assegnano il residuo fisso più tenue, e l’ammoniaca in certi punti è scomparsa, lavata essa pure dalle acque.

Dove i ghiacciai sono molto inclinati, e fessurati dai crepacci, e solcati da quei ruscelli che nascono, crescono impetuosi col sole e muoiono con lui, la crioconite è trascinata nelle cascate e scende a mescolarsi col profondo limo glaciale. Alla superficie calma, riposata, unita del Garstelet invece rimane a lungo depositata sotto l’acqua dei pozzetti, spesso congelantesi durante la notte, e lentamente scende a seppellirsi sotto le morene e le roccie che incassano il ghiaccio. Più in alto, al Colle del Lys (4200 m.) la mancanza di fusione, anche diurna, spiega l’assenza di crioconite, che potrebbe benissimo formarsi per la poca inclinazione e la scarsità di crepacci.

Con questo meccanismo continuo, agevolato dalla pressione e dal movimento dei ghiacciai, la crioconite della superficie scende al profondo, dove si mescola colle sabbie moreniche, coi limi glaciali e passa nelle correnti inter- e sottoglaciali, dove non è più possibile isolarla.

La raccolta della crioconite si fece (nel 1894) colle solite precauzioni, racchiudendola insieme a un poco d’acqua, in una boccia che venne subito sigillata alla lampada. Non avendo meco il necessario per verificare la presenza del ferro nativo, trasportai il materiale nel laboratorio di Torino, dove venne esaminato nel gennaio 1895.

La crioconite del Rosa è un miscuglio di sostanze diverse, in diverso grado di suddivisione. Una parte è in polvere finissima che nell’acqua riposata rimane sospesa per lungo tempo, quindici o venti giorni, comunicandole un leggero grado di opalescenza. Siccome l’acqua dei pozzetti di crioconite è assolutamente limpida e chiara, conviene ammettere che la formazione di tali cavità e la discesa della crioconite si faccia con grande lentezza in modo da non disturbare punto la parte più leggera del deposito.

Allorchè nell’inverno aprii in laboratorio la boccia contenente la crioconite, constatai che si era fatto un vuoto parziale, e trovai, non senza sorpresa che il miscuglio sviluppava un forte lezzo di putrido, avente carattere deciso fecaloide o scatolico.

Filtrai tosto per carta senza ceneri; il filtrato avente reazione debolissimamente alcalina era giallognolo, si intorbidiva all’aria coprendosi di uno strato sottile iridescente, mentre nello spessore del liquido l’intorbidamento si andava sempre facendo maggiore fino a depositare uno straterello di precipitato giallo ocraceo. L’odore fecaloide si faceva sempre più manifesto, ed era sopra tutto percepibile fiutando delle listerelle di carta da filtro bagnate nel liquido. Il filtrato dopo alcalinizzato con idrato sodico venne estratto con etere, che lasciò alla evaporazione una goccia di residuo avente intenso odore fecaloide; non si ottennero tuttavia cristalli, nè si ebbe la formazione di nitrato di nitroso-indolo trattando con acido nitrico-nitroso. La minima quantità di sostanza non permise di stabilire le altre reazioni; ma l’odore caratteristico è una prova certa della presenza di uno dei due composti o indolo o scatolo, e più probabilmente di quest’ultimo.

Il residuo della estrazione eterea, fatto bollire per separare le ocre e svaporato, si acidificò con H2SO4 e si distillò; il distillato, neutralizzato con un una traccia di NaOH e svaporato, lasciò un residuo piccolissimo di saponi. Questo residuo, introdotto in un piccolo palloncino e distillato con H2SO4, diede poche goccie di un distillato acido, avente forte odore di burro rancido, e non riducente i sali di argento; si trattava dunque di traccie d’un acido grasso (escluso il formico), probabilissimamente butirrico.

La fermentazione avviatasi nella crioconite era dovuta a numerosi microorganismi che vedevansi muovere in ogni senso in una goccia del liquido esaminato al microscopio; ad essi era dovuta la scomparsa dell’ossigeno, mentre avevano consumata scarsa sostanza organica azotata che era contenuta in questo deposito glaciale.

La polvere nera di crioconite rimasta sul filtro conteneva pure numerosi organismi; fra questi erano alghe verdi, le quali, non avendo potuto svilupparsi nell’ambiente disossigenato della boccia chiusa, dove gli anaerobii avevano il sopravvento, appena ebbero aria a disposizione cominciarono a vegetare e produssero clorofilla che tingeva le ultime acque di lavaggio.

Ecco i risultati dell’esame dei vegetali contenuti nella crioconite, esame gentilmente intrapreso dal prof. Belli, assistente alla cattedra di Botanica:

Alghe (Diatomeae) appartenenti con tutta probabilità ai generi Pinnularia sp., Navicula sp., Frustulia sp.?

"    (Cyanophyceae) Oscillaria sp.!!

"    (Chlorophyceae) Pleurococcus sp., Chroococcus sp.! Hematococcus pluvialis Kh.!!

Funghi (Bacteriaceae) Bacillus sp., Bacterium sp., numerosissimi.

"    (Ascomycetes) Spore con episporio echimato di difficile identificazione.

Gymnospermae. Polline di conifera (Gruppo Abietineae). Inoltre: Pappi di Composite? o di Graminacee o Ciperacee. Fili o tricomi appartenenti probabilmente a semi piumosi (Salix, Epilobium, Clematis, ecc.).

Il processo di putrefazione avviatosi nella crioconite del Rosa, la avvicina una volta di più alla crioconite boreale; anche Nordenskiöld trovò una quantità di detriti abbandonati dal ghiacciaio nel letto di un torrente, i quali erano caduti in preda a decomposizione putrida ed esalavano odore d’acido butirrico. Da questi ammassi di crioconite il Berggren isolò un certo numero di alghe, che descrisse nei resoconti dell’Accademia di Stoccolma27. Si è appunto in causa all’avviatasi decomposizione putrida che il ferro nativo che potesse essere contenuto nella crioconite del Rosa si combinò con altri elementi per passare allo stato ferroso, che alla sua volta si trasformò in ferrico quando aperta la boccia si diede libero accesso all’ossigeno. Dai dosaggi fatti risultò che la crioconite del Rosa in cui si era sviluppata la putrefazione, conteneva circa 16% di sostanza organica; il ferro rimasto allo stato insolubile rappresentava ancora il 3,5%.

È dunque assodato che anche la crioconite nostrana racchiude indubbiamente elementi eolici, ma non ho potuto accertarmi se vi esistano anche elementi cosmici, che sarebbero rappresentati dal ferro nativo.

La presenza di crioconite e la sua composizione serve a dimostrare con ogni certezza quanto ho sostenuto già da tempo28 che cioè l’aria dell’alta montagna racchiude anch’essa numerosi corpi stranieri.

E qui fa d’uopo di ben precisare la questione; se si parla dell’aria di montagna nei periodi di calma, non c’è dubbio che essa si debba considerare come esente o quasi da ogni germe sospeso; questo fatto, già noto per l’esperienza di vari autori29, abbiamo potuto confermare parecchie volte nel 1895 esponendo alcune scatole Petri, contenenti gelatine o agar sterilizzati, per 24 ore all’aria in varie località, al Corno del Camoscio sopra il Col di Olen, al Telcio e in prossimità dell’alpe Lavez. Nessuna di queste scatole accusò pure un germe. È troppo chiaro che l’atmosfera essendo calma, i germi sospesi nelle zone basse non possono salire, mentre quelli giacenti al suolo della montagna, i quali si van facendo più rari quanto più ci si allontana dai luoghi dove è più attiva la vita vegetale ed animale, non sono smossi che raramente per essere la regione quasi affatto disabitata.

Io credo inoltre che una parte considerevole dei germi viventi che siano pervenuti in qualsiasi modo a una certa altezza, vi periscono in breve tempo, e mi conforta in tale opinione, la quale tuttavia merita di essere confortata da altre più numerose osservazioni, il fatto che nella neve nei pressi delle Capanne-rifugio Gnifetti e Regina Margherita, dove sono numerose le deiezioni umane, non abbiamo trovato quella quantità di microorganismi che era ragionevole aspettarsi. Su questo fatto dirà più particolareggiatamente la relazione del dott. Scofone.

Ma appena s’alzi dal piano il vento ad assalire i fianchi del monte, ecco che l’aria di montagna si carica di polviscoli non meno di quella dei centri abitati. Questo stato di cose è pressochè abituale in alcune zone, dove il vento regna continuamente. La punta del Monte Marzo, sulla quale io feci le esperienze del 1883, si trova appunto in queste condizioni, poichè il contrafforte che chiude la Val d’Aosta a destra della Dora, di cui il Monte Marzo fa parte, è quasi di continuo esposto ai venti, e le nubi vi fanno dimora abituale. I nomi stessi di alcuni passaggi: Col Nivolé, Col della Nuva (da nuvola) indicano questo fatto. Perciò si comprende come io abbia allora trovato abbondanti germi, assai più numerosi sulla vetta dove era continuo quasi il soffiar del vento, che non a qualche centinaio di metri sotto, dove era il casolare che ci alloggiava30.

Siccome lo stato atmosferico in montagna è soggetto a frequenti e improvvisi mutamenti, così è erroneo esprimere con una media il contenuto in corpuscoli sospesi nell’aria, come si fa per altri componenti quali sarebbero l’acido carbonico, o l’ammoniaca, i quali, benchè soggetti a leggere variazioni, sono pure continuamente presenti. E se si vogliono pure aver medie, non è filtrando qualche metro cubo d’aria per poche ore che si potranno avere i dati per stabilirle; ma bisognerà trarli ripetendo le osservazioni nelle varie condizioni meteorologiche che si succedono con tanta frequenza in montagna.

Il miglior metodo è ancora l’esame delle nevi, quali ho praticato in lavori precedenti31, perchè, sebbene non dia dei risultati quantitativi, permette di ottenere un’idea completa dei materiali contenuti nell’atmosfera, mentre le correnti degli aspiratori non trascinano che i corpuscoli più sottili e leggeri.

È necessario sopratutto, discorrendo dell’aria di montagna e dei materiali che contiene sospesi, tener presente che le condizioni lassù non sono come quelle di una città in cui il continuo moto e il viavai riempie l’aria di polvere e le impedisce di purificarsi, sì che la polvere diventa un elemento costante dell’atmosfera; in montagna poche ore di calma o il sopravvenire d’una nevicata depurano quasi completamente l’aria; ma il sorgere subitaneo d’un vento o d’una procella di neve rigettano nell’aria i turbini di materie solide di cui s’era liberata.

Dott. Piero Giacosa
(Sezione di Torino).
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14Tiemann u. Gaertner, op. cit., pag. 38-39.
15Vedi Dammer, Handbuch der anorganischen Chemie, vol. II, parte 1ª, pag. 52. Per quanto si riferisce alla distribuzione dei composti azotati nell’aria in varie zone e latitudini, vedi pure i lavori di Schlösing nei Comptes rendus, vol. 81, pag. 1252; vol. 82, pag. 969; di Müntz e Aubin, ibid. vol. 95, pag. 788, 919; vol. 97, pag. 240; vol. 108, pag. 1062; di Marcano e Müntz, ib., vol. 113, pag. 779, e gli Annuaires de l’Observatoire de Montsouris.
16Alfonso Sella, nei “Rend. R. Acc. dei Lincei„ del 18 gennaio 1891.
17Porro, nel “Boll. C. A. I.„ vol. XXIV, pag. 121.
18Annales de l’Observatoire météorologique du Mont-Blanc, Paris 1893, vol. I, prefazione.
19“Riv. Mens. C. A. I.„ vol. IX, pag. 115.—Vedi pure “Zeitschr. d. Deutsch. u. Oesterr. Alpenverein„ XX.
20“Nature„ 16 maggio 1895.—Riferisco qui una interessante relazione trasmessami dal dott. E. Oddone, direttore dell’Osservatorio geodinamico di Pavia, sopra i fenomeni elettrici osservati alla Capanna Margherita. «Sui fenomeni luminosi al Monte Rosa la sera del 21, o 22 che sia, agosto 1893 ricordo che lassù sulla vetta era nebbioso e vi cadeva insignificante un nevischio. La temperatura era di -5°. Nella vallata della Sesia imperversava il temporale. Dapprima comparvero sui 6 parafulmini delle piccole stellette simili a brillanti di media grossezza illuminati dal sole. La luce loro era bianca. Ma quando i lampi in basso percotevano la montagna, quasi il suolo e le nubi fossero anodo e catodo di una gigantesca batteria, allora le stellette mutavansi in fiocchi allungati e sibilanti. Ed a me appariva che dopo fulmini azzurri si avessero fuochi negativi (stellette), dopo fulmini rossi si avessero fuochi positivi (fiocchi). Il suono era quello del vapore che esce dalla caldaia, attenuato ma distinto, o meglio s’avvicinava a quel zittìo che si fa nelle sale ove si ha piacere di udire la musica ed il vicino disturba. La lunghezza dei fiocchi era forse di un centimetro, ma l’occhio li giudicava più lunghi. Nuovi lampi, e comparivano le stellette, nuovi lampi ancora e ritornavano i fiocchetti. L’intervallo era di due o tre primi. Avvicinatosi il temporale, non solo dalle punte sui tetti, ma da ogni asperità delle rupi, dagli spigoli dei disordinati assiti fuori della capanna, dalla balaustrata in legno uscivano grossi fiocchi bluastri e fatui lunghi almeno 5 centimetri. All’occhio sembravano più estesi, la luce però era smorta ed a stento si avrebbe potuto leggere con simili candele. In tutto se ne potevano contare una ventina e non mutavano più in stellette. Stavano fissi, offrendo solo un crescendo al momento del lampo (momenti che alcune volte col lampo sparivano totalmente per un secondo!!). Questi fiocchi dolcemente zittivano, come fu detto sopra, mentre la neve attorno, benchè non fosforescente, pure leggermente crepitava e schioppettava. Ho provato a mettere la mano sui parafulmini. Il fiocco spariva per un attimo, ma poi tornava e mi lambiva le mani senza provocare sensazioni. Eravamo in tre o quattro fuori della capanna appoggiati all’uscio di entrata. I capelli e la barba, ad eccezione di qualche luminosità sui peli isolati, non davano niente, ma se si toccavano colle mani se ne sprigionavano ramificazioni luminose molto più intense di quelle che escono dalle macchine di Holtz senza condensatori. La lunghezza di quelle vive fiammelle era di cm. 5, ma ne uscivano delle maggiori se si bagnavano le dita di saliva. La pelle irritata dava la sensazione ben nota. L’alpenstock, alzato la punta in alto, dava fiocchi di cm. 10 di lunghezza e di 3 cm di diametro circa. Lo zittìo che emetteva incuteva timore. L’uomo colla bocca difficilmente sa fare più forte. Dopo ci siamo ritirati per prudenza, ma non credo che il temporale crescesse in intensità. Un portatore che uscì ancora rientrò atterrito: disse che allo scoppiare di un lampo ne aveva avuto la barba investita e la vista e la memoria momentaneamente offuscata, ma credo esagerasse. Il tuono al massimo del temporale rumoreggiava forte, ma prima e dopo vedevansi i lampi ed esso a noi non giungeva.
21“Compt. rend.„ vol. 95 (1882), pag. 919.
22“Compt. rend.„ vol. 95 (1882), pag. 1121.
23“Compt. rend.„ 1892, pag. 134.
24“Compt. rend.„ 1883, pag. 525.
25Om kosmiskt stoft, som med nederbörden faller till jordytan. “Ofversigt a Kongl. Vetenshaps-Academiens Förhandlingar„ 1874, nº 1. Stockholm.
26A. E. Nordenskiöld: La seconde expédition suédoise au Grönland (Paris, Hachette) pag. 194 e segg.
27Anno 1871, p. 293 (citato da Nordenskiöld, Om kosmiskt stoft, ecc.).
28“Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino„ vol. XVIII, 28 gennaio 1888.
29Giacosa, loc. cit, e “Annuaire de l’Observatoire de Montsouris„, 1884-1885.
30Le mie esperienze del 1883 non ebbero la ventura di essere approvate dal dottor Miquel, batteriologo dell’osservatorio municipale di Parigi, situato a Montsouris. Egli le critica vivamente nell’Annuario del 1884 a pag. 531, e la sua critica contrasta singolarmente colle lodi date al signor di Freundenreich di Berna che avendo eseguito ricerche analoghe sulle montagne era giunto a risultati che al Miquel parvero più attendibili. Non risposi allora alle critiche del batteriologo di Parigi e mi limito ora a dimostrare che il Freundenreich ed io non meritavamo ni cet excès d’honneur ni cette indignité. Le alte lodi per cui è additato alla riconoscenza del mondo degli scienziati il sig. di Freundenreich per avere preso la determinazione di salire sullo Schilthorn (2792 m.) e starci quattro ore per filtrarvi dell’aria (pag. 536) e quelle che gli si tributano l’anno seguente per essere stato al Niesen e al Théodule, non avranno avuto altro effetto che di far sorridere il dotto Bernese che sa come a queste altezze ci si giunga se non così facilmente come alla Torre Eiffel, certo senza incorrere in pericoli tali da meritare di essere tramandati alla posterità; mentre la confessione penosa d’impotenza a cui il Miquel vorrebbe costringermi, perchè essendo in montagna e sprovvisto di laboratorio non ebbi mezzi di far quello che non fece neppure il sig. di Freundenreich di coltivare cioè i germi trovati per accertarmi dei micrococchi esistenti, non mi ha punto commosso. Entrambi gli apprezzamenti provano soltanto che il signor Miquel in quell’epoca non sapeva ancora che cosa vuol dire montagna e lavorare in montagna. Forse a quest’ora l’avrà imparato.
31“Giornale della R. Accad. di Medicina di Torino„, 1890, n. 1 e 2.