Solo Per Uno Schiavo

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Artigli affilati gli lacerarono la pelle delle spalle. Ma il suo orgasmo fu così perfetto che lui nemmeno li sentì.

Strinse forte quell’angelo tra le braccia. Non voleva lasciarlo, ma come poteva trattenerlo? Non aveva nulla.

Nulla.

Per la prima volta, il desiderio di Libertà si fece impellente.

Doveva trovare una soluzione. Doveva strappare quelle catene. Doveva scappare, con lui.

Ma dove? Verso l’Oceano?

Doveva fare qualcosa. Qualsiasi cosa.

“Come ti chiami?” gli chiese. Perché, ovviamente, i convenevoli prima di tutto.

Ma non sentì mai la risposta. Si voltò, d’improvviso, percependo una presenza accanto a sé.

Melinda, un’amica-nemica di Aletta, era a un palmo da lui. E sogghignava sadica.

“Vattene,” disse, quindi, spingendo via il ragazzo. “Non avvicinarti mai più a me.”

Ma mentre lo disse, qualcosa gli morì dentro. Il giovane lo guardò e la Bestia sperò che il suo sguardo contraddicesse in toto le parole appena pronunciate. Lui lo fissò, le palpebre pesanti di lussuria, le labbra gonfie di baci. Un attimo dopo sparì tra la folla.

Erano circondati.

Doveva agire così.

Era l’unico modo.

L’avrebbero portato via.

Via da lui.

No, non l’avrebbe permesso.

Sarebbe morto, piuttosto.

CAPITOLO TRE

Melinda si avvicinò e gli toccò il culo. Così, di botto, senza senso. Al non si voltò. Non subito, almeno. Doveva prima affrontare quella tempesta di sentimenti e sensazioni, così estranei, che gli si agitava dentro.

Un sospiro, prima di tornare alla realtà.

La donna afferrò il guinzaglio e lo condusse al Ristorante.

“Stasera sarà davvero molto divertente. Se ti comporterai bene, avrai una bella sorpresa,” gli promise. Poi, sorrise e si strizzò i seni tra le mani. Al, senza nemmeno pensare, si inchinò e iniziò a baciarli. Puzzavano di borotalco.

“Ottimo lavoro,” commentò Melinda.

Al lanciò uno sguardo alla folla. Nessuna traccia del ragazzo, logicamente.

Nel Ristorante, Aletta recuperò il suo Schiavo. Lo fece inginocchiare davanti alle sue cosce aperte e non ebbe nemmeno bisogno di dirgli cosa fare. Tuttavia, nessuno ci badò. L’intero locale stava osservando il Quarto Tavolo, sì, ma era Stine colui che attirava l’attenzione. Tutti erano in attesa di vedere la Preda. I più maligni si aspettavano che il Padrone si desse alla caccia.

Finalmente, Ad fece il suo trionfale ingresso in sala. Non sembrava alla ricerca di niente e nessuno, non si guardò mai attorno, ma si diresse -sicuro- verso la tavolata numero Quattro. Le mani come in preghiera, la testa bassa. Gli uomini presenti divennero quasi duri, a quella vista, mentre le donne si incazzarono come faine. Quel bimbo era più bello di loro! Aletta si innervosì talmente tanto da stringere pericolosamente le cosce attorno alla testa della Bestia. Fu un miracolo che non finì decapitato. Ma lo Schiavo non si accorse del suo arrivo. Né sentì nulla, della conversazione successiva. Peccato, perché ne sarebbe stato orgoglioso.

Alcuni uomini iniziarono a proporre eventuali turni col nuovo arrivato, qualcun altro affermò di averlo visto per primo.

Stine non si scompose. Anzi, si rilassò meglio sulla sedia.

“Ciao,” sorrise il ragazzo.

“Salve,” rispose il Padrone, battendosi su un ginocchio come invitandolo a sedersi.

Troppo facile.

“Sto andando via. Sono solo venuto a riportarti una cosa che hai dimenticato, stamattina, quando ci siamo visti.”

E il cocktail, col mozzicone di sigaretta che ancora ci galleggiava dentro, venne rovesciato addosso al sorriso da-stronzo dell’uomo. L’intero Ristorante trattenne il fiato. Poi, il Padrone bestemmiò e cercò di afferrarlo. Ma il ragazzo aveva tutta l’intenzione di vendere cara la pelle. Artigliò quell’avanbraccio e lo sfregiò.

“Non ho paura del sangue arterioso, io,” sibilò. “Non avresti dovuto afferrarmi a mani nude. Avresti dovuto spararmi, in mezzo agli occhi. Così mi avresti fermato. Forse.

Sporca di sangue, la mano si mosse in un gesto di saluto. Uno particolarmente vezzoso.

Poi, quella bellezza si girò e se ne andò.

“Bastardo!” esclamò Aletta. Tirò forte i capelli della Bestia, allontanandolo da sé e ridandogli l’udito. “Non ho più voglia di venire.”

Poi, gettò un piatto a terra. Cocci e cibo si mischiarono pericolosamente.

“Mangia!” ordinò.

E Al obbedì. Senza il minimo interesse né per il sushi di prima qualità né per la porcellana affilata. Tutto ciò fece imbestialire ancora di più la sua Padrona. Melinda approfittò della confusione per calpestare ogni singolo boccone. Perché così le andava. Poi, disse all’altra donna, “Non essere così arrabbiata. Vedrai che Stine lo troverà e se lo scoperà a dovere. E domani verrà a chiedere scusa, come si confà alla sua specie.”

E rise. “Questo lo rende ancora più interessante, non trovate?” aggiunse, poi.

Nessuno rispose.

Stine andò in bagno. Quando tornò, sembrava quasi non avesse subito danni. Amir, il proprietario di una rete di supermercati, si mise subito a leccargli il braccio offeso.

Il Padrone guardò in direzione di quella puttanella senza vergogna. Ma era troppo lontano, ormai. Soprattutto, non prestava la minima attenzione né a Stine né alla sua indignata squadra di supporto. Era come se non fossero nemmeno lì.

L’uomo era furioso.

“Gli costerà molto caro,” promise.

E non era tipo da minacciare invano.

CAPITOLO QUATTRO

Ad era sdraiato sul letto della sua cabina. Teneva stretto un cuscino, ondeggiando su un fianco. Nella sua mente e tra i tessuti del suo sistema nervoso, il breve ma intenso rapporto avuto con la Bestia era stato come un lampo luminoso. Quel riverbero non accennava a spegnersi. Nemmeno dopo aver giocato con un nativo di una tribù oceanica. Quel tizio avrebbe sborrato tutta la sera, solo guardandolo in quegli occhi cremisi. Ma Ad aveva pensieri solo per il Dio Pagano. Venne riportato alla realtà da un violento bussare alla porta. Il cuore cominciò a martellargli, furioso, nel petto.

E se fosse stato lui?

Si alzò di scatto e si lanciò ad aprire la porta.

Stine aveva avuto tutta l’intenzione di frustare a sangue quello stronzetto impudente, per poi trascinarlo nella sua suite. Ma vederlo lì, sulla soglia, nudo e stupendo, lo bloccò. Per quanto avesse un’alta opinione di sé e una reputazione degna di essere chiamata tale, il Padrone non aveva mai avuto occasione di osservare Schiavi D’Alto Borgo così da vicino. In realtà, non gli era nemmeno mai interessato scoparsi esemplari di tal fatta. Ma quel ragazzo, ecco, quel ragazzo era tutta un’altra storia. Il diretto interessato, però, non contraccambiava affatto il sentimento. Infatti, una volta capito che non si trattava della Bestia, sbatté la porta sui cardini così forte da far tremare gli stipiti.

Il Padrone si ritrovò, suo malgrado, a bussare. Di nuovo.

“Apri immediatamente, se non vuoi farlo sapere a chiunque,” intimò, seccato.

Ad scoppiò a ridere. Ma chi credeva di essere, quel vecchio? Sticazzi se anche tutta la nave fosse accorsa alla sua cabina. Riacchiappò il cuscino e lo strinse più di prima. Ricordandosi di come quell’uomo lo avesse fatto venire in un modo così devastante, iniziò a toccarsi. I colpi sempre più insistenti e gli avvertimenti sempre più minacciosi non gli davano fastidio. La porta avrebbe retto contro un uragano e ciò gli bastava.

“Oh, mio Dio,” mugugnò, mentre pensava a quelle mani enormi che gli cingevano la vita. Doveva rivederlo. Era essenziale che lo trovasse. E in fretta, pure.

Vattene, non avvicinarti mai più a me, gli aveva detto, però, subito dopo. E Ad si rattristò. Poteva mica essere che fosse uno di quelli a cui piaceva conquistare la preda? Magari non apprezzava chi si concedeva subito, senza nemmeno essersi presentato. Ma non gli importava chissà tanto. Voleva sentire, di nuovo, tutto quel potere su di lui. Dentro di lui. Ad sapeva che nessuno, nemmeno un Dio Pagano, poteva rifiutare il piacere che lui era capace di offrirgli. Soprattutto una volta scoperto il suo potenziale. Avrebbe scommesso qualsiasi cosa che avrebbe voluto possederlo e dominarlo.

Stine si arrese. O, almeno, così sembrò al ragazzo.

Si sbagliava. Era solo andato alla Reception a chiedere una copia della chiave per poter entrare nella sua cabina. Ma Ad non poteva saperlo. E non gli poteva fregare di meno. Si infilò un paio di pantaloncini e corse fuori, alla ricerca della Bestia.

Quando Stine tornò, convinto di aver rovesciato la situazione, tentò -di nuovo- l’approccio del bussare. Nessuna risposta. Ridacchiando, usò il passe-partout ed entrò. Sfoggiando il suo miglior sorriso da-stronzo, ovviamente.

Ma non vide nessuno. Doveva essersi nascosto, il micetto. Iniziò, quindi, ad ispezionare ogni angolo. Controllò perfino sotto il letto. Niente. Nothing. Rien. Nada. Ничего.

Afferrò la coperta sul letto. Si era già immaginato come avrebbe costretto quella giovane bellezza a succhiarglielo, per poi farlo piangere e implorare. Non poteva mica scoparsi un letto vuoto! Per quanto tempo ancora quella puttana doveva farglielo odorare?! In preda alla rabbia, gettò per aria qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Finché, esausto, non si sdraiò sul materasso. Odorava di Ad. Odorava di desiderio. E Stine si calmò. Dopotutto, quel rizzacazzi sarebbe dovuto rientrare all’ovile. Prima o dopo.

 

E lui sarebbe stato lì, pronto, ad aspettarlo.

***

Ad non aveva la minima idea di dove cercare la Bestia. Sperava di trovarlo, di nuovo, sul Ponte Principale. L’ultima volta, stava osservando l’Oceano. Ma era buio e c’era ben poco da vedere. Il ragazzo si appoggiò, comunque, alla balaustra. Dove mai poteva essere?

***

Al era sdraiato per terra, accanto al giaciglio di Aletta. Gli aveva concesso una coperta, ma non un materasso. La verità? A lui andava benissimo. Da solo, a contatto col pavimento gelido, nell'oscurità, era molto più facile sognare. Soprattutto dopo che il corpo dell'amante dei suoi sogni aveva acquisito caratteristiche più che reali, giusto quella mattina.

***

“Ti ho preso, bastardo,” sibilò qualcuno alle sue spalle. Ad si sentì afferrare da dietro, per poi essere spinto in un angolo. Si divincolò e riuscì a vedere chi fosse l’aggressore. Amir. Non aveva dubbi. Stine non si era arreso manco per niente. Anzi, aveva chiamato i rinforzi. Quello si mise a mordicchiargli la nuca. Come se bastasse a fermarlo! Allungò una mano, alla ricerca di qualcosa. Qualsiasi cosa che potesse usare come arma. La trovò. Subito, la roteò sul polso e la spinse indietro, colpendo l’uomo allo stomaco. Il ragazzo, in realtà, mirava all’inguine. Ma dovette accontentarsi, visto che il risultato fu il medesimo. Si liberò dalla stretta e vide cos’aveva effettivamente usato. Una paletta, di quelle con cui si raccoglie la sabbia, ma d’oro massiccio. Non ebbe il tempo di ammirarne la fattura perché Amir stava tornando all’attacco. Quindi, gliela conficcò nella coscia. Di nuovo, aveva mirato all’inguine. Ma chissà perché non riusciva proprio a fare centro. Non perse tempo a pensarci e si lanciò dritto verso la sua cabina.

Le molestie, in sé e per sé, non gli davano fastidio. Non lo avevano mai turbato. Sembrava attirarle molto più degli Schiavi, certo, ma lui non lo era. Però, nessuno sembrava capirlo. Firokami, tutto sommato, gli piaceva. Ci si era trasferito solo per frequentare l’Università. Era nato e cresciuto nell’Isola di Kee-Niu. Si era laureato a pieni voti e avrebbe potuto diventare molto ricco, se avesse voluto. Ma i Kee-Niani avevano altri valori. Lingotti, gioielli, sete e merletti gli provocavano l’orticaria. Lui era abituato a vestirsi di Sole e di Vento. Alle mani di quegli uomini, preferiva le carezze dell’acqua e dell’erba. Uscire dal campus universitario fu un’impresa. Anche se laureato, gli insegnanti non volevano proprio lasciarlo andare. Una bellezza come la sua, così esotica, non era facilmente rimpiazzabile. Ma un’orda di nuovi bellissimi giovani arrivò in Città giusto nel periodo della sua sessione e riuscì a mascherare la sua etnicità.

Così, riacquistò la sua Libertà. Non solo. Avendo finito perfettamente in corso e primo del suo anno, ricevette anche un generoso premio di Laurea dalla stessa Firokami. Era definitivamente libero. Tutta quella gente che voleva renderlo uno Schiavo era a dir poco ridicola. Se avesse voluto, loro sarebbero stati i suoi Schiavi. Ma a lui non importava nulla di dominio e sottomissione. Era, comunque, il prezzo da pagare per vivere lontano da casa. Non si curava di ciò, si limitava a guardare e passare.

Una volta raggiunta la sua cabina, si accorse che c’era qualcuno al suo interno. Sbirciò e vide Stine, addormentato, nel suo letto.

Patetico.

Sollevò gli occhi al cielo, esasperato. Girò i tacchi e attraversò il corridoio. Direzione, la cabina del Capitano della nave.

Il Comandante Stor stava già dormendo, quando bussò. Poteva essere uno dei suoi sottoposti. O la sua ninfetta. Oppure un passeggero. A ogni modo, doveva alzarsi. Quando aprì la porta, ciò che vide gli mozzò il fiato. Una meravigliosa creatura ciondolava sulla soglia. L’aveva già notato, quel ragazzo. Forse si trattava dell’amante di qualche Corifeo? Decisamente sì, uno così bello doveva essere uno Schiavo Di Lusso.

“Sì?” gli sorrise l’uomo.

Ad gli si avvicinò e, nella sua migliore interpretazione di Lady Macbeth, cinguettò, “Oh, Capitano! Mio Capitano! Aiutatemi! C’è un uomo nella mia cabina! Nel mio letto! Ho tanta, tanta paura! Non ho trovato nessuna guardia! Avrei chiesto a loro, prima di disturbare Voi, ma non sapevo a chi altri rivolgermi! Vi prego!”

“Non aggiungere altro! Mi vesto subito!” esclamò il Capitano.

Una brava persona? Mamifacciailpiacere! Non vedeva l’ora di buttare fuori qualcuno dalla sua nave. E a calci in culo, per di più. Tutto, pur di accaparrarsi la gratitudine di un Corifeo. Magari, lo avrebbe fatto ringraziare personalmente dal suo adorabile Schiavo.

“Oh, grazie! Grazie, mio Capitano! Mio eroe!” cinguettò, ancora, il ragazzo.

Stor si vestì alla velocità della luce. Poi, una volta cinte le delicate spalle di Ad con un braccio, lo condusse attraverso il corridoio.

“Vediamo un po’ chi è che ha sbagliato stanza.”

Stine era ancora addormentato. Ancora per poco. Venne bruscamente svegliato da uno spintone.

Indignato, era pronto a farla pagare a chiunque avesse osato. Ma non ne ebbe il tempo.

“Ehi! Cos’è che ti credi di fare nella cabina di questo ragazzo?” urlò il Comandante, indicando Ad. “Non avere paura, figliolo. Probabilmente ha solo alzato un po’ troppo il gomito e si è confuso. Non è vero, compare?”

“L’ho chiusa a chiave, prima di uscire. Me lo ricordo perfettamente,” disse, innocente, quell’esotica bellezza.

Stine si sedette sul letto e, con tutta la nonchalance del Mondo, si accese una sigaretta. Stor lo guardava, scioccato.

“La mia è una cabina per Non-Fumatori,” sussurrò Ad.

“Spegni quella cazzo di sigaretta, Padrone, e torna nella tua cabina. Adesso!”

Stine si alzò.

“Questo è il mio Schiavo. Tu, che cazzo è che vuoi? Chi sei?”

“Sono il Capitano di questa nave. E questo passeggero è sotto la mia protezione!”

Stor non poteva credere alle sue orecchie.

“Faccio questo lavoro da quarant’anni e mai, e dico mai, uno Schiavo è venuto a bussare -nel cuore della notte- per chiedermi di sbattere fuori a calci il loro Padrone! Vai via, adesso, o dovrò arrestarti e lasciarti al prossimo porto!” esclamò, volutamente calcando il tu.

“Come ti permetti! Io sono Stine Darmush!”

“Lo so chi sei, Padrone. E ti rispetto molto. Ma questo passeggero è sotto la mia protezione. E ho tutte le ragioni per credergli. Quindi, ascoltami. Hai una gioielleria di successo. Tutti gli Schiavi, incluso il qui presente, indossano qualcosa creato da te. Immagina che scandalo, se venisse fuori che ti rimorchi gli Schiavi degli altri? Pensa a tutti i problemi che avresti con, che ne so, Padron Son!”

Stor, mentre parlava, si accorse che Stine stava cercando di afferrare il ragazzo. Sospirò, ma sorrise. Per legge, non poteva espellere nessun Padrone. Aveva cercato di spaventarlo, ma un uomo con la mente annebbiata dalla lussuria è un osso duro da spezzare. “Oppure con Elm!”

Stor sorrise tutto il tempo, come per far capire al Padrone che lui lo capiva. Come resistere a tale bellezza! Ma le regole, il galateo, i cazzi e i mazzi, blah blah blah.

“Non posso certo ignorare le conseguenze, soprattutto da parte di tali cittadini.”

“Ma questo Schiavo è mio,” continuava a ridacchiare Stine.

“No, non lo è!” Il Capitano stava iniziando a perdere la pazienza. Inoltre, il ragazzo alla porta era palesemente annoiato. “Se lo fosse davvero, parlerebbe così? Davanti a te? Se l’hai comprato, dimmi dove. E perché non è nella tua cabina. Non farmi sollevare un polverone! Non costringermi a contattare le autorità di Firokami e denunciare uno dei suoi beniamini! Penso che non ci vorrà molto, al vero Padrone, per dimostrare che non hai alcun diritto sulla sua carne.”

Stine era duro come roccia. Lui lo sapeva, Stor lo sapeva, i muri lo sapevano. L'oggetto del suo desiderio era lì, in piedi sulla porta, aspettando che i due uomini si mettessero d’accordo e lo lasciassero rientrare nella sua cabina. A entrambi, per un secondo, passò per la mente che avrebbero potuto divertirsi -insieme- con quella puttanella. Ma a che prezzo? Sarebbero morti, dopo atroci sofferenze, nel giro di pochi giorni. Nessun orgasmo ne sarebbe valsa la pena. Quindi, uscirono nel corridoio.

Finalmente, Ad era tornato Padrone della sua cabina!

“Grazie, mio Capitano, grazie mille! Troverò il modo di ringraziarla! Non esiti a chiedermi qualsiasi cosa!” promise il giovane, prima di chiudersi dentro.

Stine e Stor rimasero in piedi, lì, davanti alla porta per qualche secondo. Stor non aveva smesso di sorridere un solo istante. Stine se avesse potuto dare fuoco alla porta con la forza dello sguardo l’avrebbe fatto. Poi, d’improvviso, la porta si riaprì. Veloce, un accendino volò dalla fessura e cadde a terra. Stine lo lasciò lì.

“Raccogli la tua spazzatura,” gli disse il Capitano.

“Lasciami i coglioni in pace!” rispose quello, prima di andarsene. “Ti ho rivolto la parola per sbaglio e mi hai fatto scendere la besciamella alle ginocchia!”

Stor raccolse l'accendino, si avvicinò a un cestino e ce lo gettò dentro. Si girò e si diresse verso la sua, di cabina. Per tutto il resto della nottata, non fece altro che ricordare quelle bellissime labbra che mormoravano, “Ho tanta, tanta paura! Non sapevo a chi altri rivolgermi! Vi prego”.

Si addormentò, solo dopo essersi toccato a dovere.

CAPITOLO CINQUE

Al si alzava, ogni giorno, molto presto. Cercava di andare in bagno durante la notte, mentre la sua Padrona dormiva. Non sempre, però, ciò era possibile. Aveva bisogno di un permesso speciale, anche per fare pipì. Ma non doveva assolutamente svegliarla, per chiederglielo. In linea di massima, era meglio non far sapere ad Aletta che lui, in bagno, ci andava. Perché, a quel punto, lei avrebbe voluto sapere perché lui -in bagno- ci stava andando. E cosa ci andava a fare e come lo faceva. La prospettiva di morire di blocco intestinale era molto più allettante di quel ridicolo terzo grado.

Quella mattina, Al era stato più discreto del solito. Dopo l’incidente col bellissimo Efebo era cruciale non attirare l’attenzione. Non più del solito, almeno. Quindi, aveva già obbedito a mezza dozzina di richieste assurde. Era lì che svolgeva il suo allenamento -Aletta lo voleva sempre pompato e senza un filo di grasso- quando uno degli Schiavi di Melinda piombò nella suite. La notte prima, Amir era stato trovato sul Ponte Principale. Svenuto, insanguinato, derubato. Le guardie erano già all’opera.

“Devo andare! Tu finisci i tuoi esercizi! Se scopro che non hai combinato nulla, ti aumento il carico!” minacciò la donna, prima di correre fuori dalla stanza.

E Al obbedì. Non che avesse chissà che altro da fare. Sicuramente Aletta sarebbe rientrata subito.

Ma Aletta non rientrò. La Bestia, quindi, decise di sfidare la sorte. Prese un libro e iniziò a leggere. Poteva farlo solo in quei rari momenti in cui ci si dimenticava di lui.

Lui adorava leggere. Avrebbe voluto farlo sempre. Aveva una grande immaginazione, ma era riuscito a finire pochissimi libri. Spesso era stato interrotto, proprio sul più bello. E quel libro, lui, non l’aveva mai più visto.

Oltre trent’anni di Schiavitù l’avevano svuotato. Era vivo, ma era morto dentro. Non aveva una vera e propria opinione emotiva. Nessuno gli chiedeva un parere. E quando succedeva, la sua risposta doveva corrispondere al volere dei Padroni. Un perfetto Animale domestico, creato per soddisfare ogni tipo di desiderio. Quelli di tutti, tranne il suo. Non si poteva dire nulla sul suo carattere. Semplicemente, non ne possedeva uno. Non aveva bisogni particolari che richiedessero soddisfazione. Non c'era nulla che Aletta potesse fare per dargli un po’ di gioia. Non che lei l’avrebbe fatto, sia ben chiaro. Dopotutto, era dovere di Al portare gioia ai Padroni. Non viceversa.

A ogni modo, il libro del giorno si intitolava, ‘Più Forte Della Morte’. L’autore, Albireo, era famoso per le tematiche e le storie a sfondo omosessuale.

O, forse, quel genere era quello più popolare a Firokami.

La trama era molto semplice. Il figlio di un ricco uomo d’affari di Frican torna a casa dall’Università e si innamora di uno Schiavo zombie.

A metà lettura, intrigato e confuso, Al sbirciò la fine. E fu ancora più confuso. Una conversazione tra due personaggi di cui, ancora, non aveva letto nulla. L’Amore è sempre più forte. Sia della Vita, sia della Morte. Fine. L’Albireo era famoso anche perché, nelle sue opere, il lieto fine era una costante. Anche se quei personaggi erano, apparentemente, morti. L’importante è stare assieme a chi si ama. Così pensava Al, anche se lui non avrebbe mai avuto un lieto fine del genere. Ritornò, comunque, a leggere dove aveva interrotto.

 

Arrivò esattamente fino al momento in cui il padre -disperato- decide di non interferire con la storia tra suo figlio e lo Schiavo, in modo da fargli capire da solo che razza di errore sia mischiarsi coi morti. E proprio in quel momento, Aletta entrò nella stanza. La Bestia era seduta, a gambe incrociate, sul pavimento. Aletta lo guardò e sorrise. Brutto segno. Lo Schiavo, però. Non si scompose. Chiuse il libro e lo rimise a posto. Aletta si sedette, mentre poggiava una borsa sul tavolo.

“Che follia! Dove andremo a finire! Aggredire un Padrone! Sarà sicuramente uno Schiavo che non è stato educato a dovere. Posso solo immaginare cosa gli faranno, quando lo troveranno. Tu cosa pensi che dovremmo fare, a Schiavi del genere?” chiese Aletta.

“Punirli, Padrona,” rispose Al.

“Certo,” annuì la donna. Poi, indicò la borsa. “Ti ho portato la colazione. Mangia.”

Al si alzò, raccolse la busta e si rimise sul pavimento. Zuppa, un po’ di carne, del succo di frutta. Si trattava palesemente di avanzi. Non era certo la prima volta. Ma il pensiero che il giorno prima si fosse scopato un Angelo del Paradiso e quella mattina una donna sul viale del tramonto, gli faceva specie. Non aveva proprio fame, ma non poteva disobbedire a un ordine. Poi, lo avrebbero lasciato senza cibo per giorni. Quindi, infilò una mano nel sacchetto e prese la prima cosa che gli capitò. Lo Schiavo aspettava pazientemente la vecchiaia. A quel punto, avrebbe smesso di essere interessante per i Padroni. Nessuno avrebbe speso tempo e denaro per un restauro. Avrebbe dovuto aspettare una decina d’anni, non di più. Non vedeva l’ora di essere vecchio e brutto. La sua Padrona adorava la carne fresca. Perdeva tempo con lui solo ed esclusivamente perché la sua bellezza era fuori dal comune. Ma alla prima ruga gli avrebbe dato un calcio in culo ben assestato. E non ci sarebbe stato nulla tra lui e il Mare. Ma, in quel preciso istante, Aletta era lì che gli toccava le natiche con la punta delle sue scarpe tacco dodici.

“Mettiti a quattro zampe, per mangiare.”

Lo Schiavo obbedì. E la punta di quel tacco dodici gli penetrò lo sfintere.

“No, sdraiati e mangia,” ordinò, di nuovo, Aletta. Lo Schiavo obbedì un’altra volta, sperando fosse l’ultima. Ma Aletta infilò il tacco fino al calcagno. Quel sottile pezzo di metallo riaprì abrasioni vecchie, mentre ne apriva di nuove. E Al urlò.

“Vi prego, Padrona! Fa male!” implorò, irrigidendosi.

La donna, per tutta risposta, rise e iniziò a fare avantindietro.

“Certo che fa male. Deve fare male! Mica mi diverto, sennò!”

La sofferenza della Bestia era quasi commovente. Sarebbe stata capace di scioglierle il cuore, se ne avesse avuto uno.

Al ruggì di dolore, stringendosi la testa fra le mani. Come avrebbe voluto essere uno Schiavo Zombie in un lontano Paese dimenticato.

“Hai due scelte. Disabituare il tuo intestino a lavorare come si deve oppure diventare un Cuore per i Padroni. Non ringraziare me. È stata un’idea di Gene!”

“Non so cosa significhi, Signora. Potreste spiegarmelo, per favore?”

Aletta si appoggiò allo Schiavo, sorridendo.

“Ti faremo un clistere, dopo ogni pasto. Tempo un mese, il tuo intestino non vorrà più essere tale. Perché non ci riuscirà,” disse, raggiante, mentre sfilava -finalmente- il tacco dal culo di Al. Solo per calpestargli i testicoli, subito dopo.

La Bestia non aveva pace.

“E il Cuore sarà proprio qui, tra le tue palle. Che non ti verranno tagliate solo perché Gene è più che contrario. Chissà poi perché.”

“Ma mia Signora. Volete rinunciare a me per darmi ad altri Padroni?” chiese lo Schiavo.

“Macché! Il tuo destino è quello di morire sotto la mia proprietà, fattene una ragione,” disse. Poi, rise. “Chi mai rinuncerebbe a te?”

“Ma Signora. Perché mi fate scegliere, tra intestino e Cuore? Voi avrete sicuramente già deciso.”

“Embè? Voglio che tu scelga lo stesso!” rispose la donna, senza mai smettere né di ridere né di schiacciare i testicoli -ormai martoriati- di Al.

Al era certo che, qualsiasi cosa scegliesse, Aletta l’avrebbe obbligato a fare il contrario. Cosa scegliere, quindi, tra la padella e la brace?

“Distruggete il mio intestino, Signora. Il mio culo diventerà il luogo più pulito dell’universo, per i miei Padroni,” disse, infine, Al. La sua cautela era quasi visibile, mentre pronunciava quelle parole.

“Bene. Mangia,” ordinò la donna, tornando a sedersi e osservandolo.

Lo Schiavo ripensò alle parole che aveva sentito migliaia di volte, quando si trovava ancora a Dora. Morirai qui. E invece era stato comprato da Aletta. Anche lei, talvolta, lo diceva. Ma la Bestia sperava davvero si sbagliasse. Dopotutto, le capitava -molto spesso- di parlare a vanvera. Quindi, continuò a trangugiare la sua colazione. La donna sorrise tutto il tempo. Quando finì, Al scoprì il motivo del suo buonumore. Un vibratore.

Ecco cosa nascondeva.

Quell’arnese era enorme. Ci aveva già a provato, ma non si adattava affatto alla Bestia. L’ultima volta lo aveva perfino tagliato. Al rabbrividì, quando la sua Padrona lo accarezzò con quel glande di gomma. Si fermò proprio sull’entrata. E lo Schiavo rabbrividì.

“Lo riconosci? Siete vecchi amici, mi pare.”

“Vi prego, mia Signora! Perché volete punirmi?” implorò lo Schiavo. E sembrava crederci.

“Ma non è una punizione!” esclamò Aletta, con lo stupore più fasullo che potesse tirare fuori. “Si tratta di una ricompensa! Sborrerai fino all’ora di cena! Non sei contento?”

Il concetto di Premio periodicamente veniva abbinato a quello di Punizione. Senza nessuna logica, ovviamente. I Padroni agivano così perché così era, punto. Un gruppo di bambini troppo cresciuti a cui piace impiccare lucertole e gattini, giusto per. Non provavano nemmeno a nasconderla, la loro natura. Capitava che il bullismo fosse talmente estremo che perfino uno Schiavo navigato come Al se ne lamentasse. Aletta lo sapeva e lo puniva di conseguenza. Sperava, in tal modo, di scacciare la Bestia.

“Vi prego! La mia ricompensa più grande è quella di ammirarvi e stare con Voi! Non perdete tempo a ricompensarmi!” esclamò Al. Ma, in realtà, quel cambio nella routine lo interessava.

Poi, voleva riprovarci. Chissà che quella volta sarebbe stato in grado di ingoiarlo tutto.

Aletta rise. Era riuscita a spaventare un Dio Pagano. Poverella. Mica l’aveva capito che fingeva!

“Alza quel culetto, da bravo,” cantilenò la Signora.

E Al obbedì. Come sempre, i Padroni si rivelavano creature stupide. La donna tirò fuori una lama e incise lo sfintere del poveretto. Era passato del tempo, troppo tempo. E se si fosse abituato e non si fosse tagliato? Meglio prevenire. Dopo, spalmò la verga di lubricante. Quando -poi- iniziò a preparare il passaggio, Al cominciò a masturbarsi. Un disperato tentativo di alleviare il dolore. Ma la Padrona non era affatto d’accordo e gli strizzò le palle.

“Se ti contorci, io -queste- te le strappo.”

Lo Schiavo si bloccò. Allontanò le mani dal suo scroto e se le portò al volto. Quando la punta venne, lentamente, introdotta, urlò. Il dolore fu come lava rovente nel suo intestino. Bene.

“Perché mai devi fare sempre queste sceneggiate ogni volta che ti infilo qualcosa in culo? Non stai mica morendo!”

Al tremava, coperto di sudore freddo. Il dolore era acuto, fisso e pulsante. Calde lacrime gli rigarono il viso. Finalmente, qualcosa di nuovo! La donna aveva infilato quel coso tutto fino alla fine, dove lo bloccò con un plug. Poi, gli toccò il cazzo. Stranamente, era ancora duro.

“Ma che bravo! Guarda, non ti metto nemmeno l’anello!” disse, aprendo il portatile.

Al non si mosse. Cercò di rilassarsi, ma il dolore non accennava a diminuire. Anzi, il buco si strinse. Di conseguenza, divenne ancora più doloroso. Lo Schiavo strinse i pugni, tirandosi i capelli. Tremava tutto. Poi, vennero i singhiozzi. Dopo, si pisciò addosso. Non si era mai sentito così vivo.