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Per provare a definire meglio la presenza di Burke in Leopardi bisogna dunque ripartire dal testo più vicino, vale a dire dalla traduzione dell’Ercolani, quest’ultimo autore anche autore di una versione delle Lectures on Rhetoric and Belles Lettres di Blair rimasta inedita perché completata a poca distanza dalla fortunatissima traduzione del Soave uscita nel 1803 e più volte ristampata. Rispetto alla versione di Burke messa a punto dal Marogna, il lavoro traduttorio dell’Ercolani appare piuttosto preciso e tutt’altro che superficiale, grazie soprattutto alle competenze linguistiche dell’autore, interprete fedele e acuto dell’originale.30 La prima osservazione interessante, dalla nostra prospettiva, si trova proprio nelle pagine iniziali e riguarda la ridefinizione del concetto di gusto. Svincolato sia dalle posizioni normative del classicismo che dal relativismo illuministico, il Gusto viene subito messo in relazione con l’effetto del sublime, in termini non molto diversi da quelli che abbiamo visto nel brano dello Zibaldone dove Leopardi dialogava con Di Breme. Per Burke, infatti, il gusto non è altro che «quella facoltà, o quelle facoltà dell’anima» per le quali «sono tocche e commosse dall’opere dell’immaginazione o delle belle arti»31, e qualche pagina dopo troviamo un corollario sul rapporto fra l’immaginazione e la sensibilità che potrebbe figurare a buon diritto nello Zibaldone fra commenti d’autore a L’infinito: «l’immaginazione è la provincia più estesa del piacere e del dolore, siccome essa è la regione de’ nostri timori e delle nostre speranze, e di tutte le nostre passioni»32.

Di là da questa generale tonalità di fondo, immediatamente riconoscibile, sono molti i riscontri fra la versione italiana dell’Enquiry e le pagine dello Zibaldone su cui si potrebbe discutere, a cominciare dalle «idee dell’eternità e dell’infinito», secondo Burke «le più commoventi idee che noi abbiamo»33, dall'insistenza sull’indeterminato proprio della poesia, risultato di «grandi e confuse immagini», che induce il richiamo inevitabile – sopratutto per un lettore del Settecento abituato a confrontarsi con Shakespeare e con Milton, esempi per eccellenza di un sublime letterario anticlassicistico – del primo canto del Paradise Lost:

Qui si vede una pittura nobilissima; e in che consiste questa poetica pittura? Nell’immagini d’una torre, di un arcangelo, del sole nascente in mezzo alla nebbia, in un’eclisse, nella rovina de’ monarchi, e nelle rivoluzioni de’ regni. L’animo è trasportato fuori di se da una folla di grandi e confuse immagini, che lo sorprendono appunto perché sono affollate e confuse. Poiché separatele, e perderete molto della grandezza; riunitele, e perderete la chiarezza. Le immagini risvegliate dalla poesia sono sempre di questo genere oscuro […] difficilmente alcuna cosa può far colpo sul nostro spirito con la sua grandezza, se non si approssima in qualche modo all’infinito.34

Un altro luogo degno di essere preso in considerazione per i suoi sviluppi in un’ottica leopardiana è poi quello sopra le cosiddette Privazioni che aveva già attratto l’interesse di Beccaria, di Martignoni e di Borsieri,35 e che prevedibilmente lascia più di un segno negli appunti sparsi del 1821, insieme alla riflessione complementare sul potere dei suoni.36 Nel capitolo XIX del libro, intitolato al Repentino, Burke si sofferma a lungo sulle risonanze interiori di ciò che definisce «un subitaneo principio, o un’improvvisa cessazione di suono», come «i rintocchi di una gran campana, quando il silenzio della notte impedisce l’attenzione dall’esser troppo dissipata»37. All’esempio, di per sé abbastanza significativo per la sua immediata traducibilità poetica, sembra di poter collegare un commento dello Zibaldone in data 16 ottobre 1821, dove Leopardi si sofferma sugli effetti dello «stormire del vento» quando «freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna», o quando «è udito da lungi», e dunque «non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono» (Zib. 1929).

Rispetto a quella che a prima vista si presenta come una sostanziale adesione, se non proprio come una rilettura critica dell’estetica di Burke nello Zibaldone, anche in vista di un suo riuso in poesia, l’aspetto più controverso rimane tuttavia quello che riguarda il giudizio di Leopardi sulla definizione di sublime divulgata dall’Enquiry, ovvero il rapporto con la sfera psicologica del terrore, nella quale è implicita una totale soggezione, o annientamento delle facoltà dell’anima. Ricordo qui brevemente i due passi maggiormente commentati dai censori sette-ottocenteschi di Burke:

Qualunque cosa è atta in un certo modo ad esercitare idee di dolore e di pericolo, vale a dire ciò che è in qualche modo terribile, e riguarda oggetti terribili, o opera in maniera analoga al terrore, è la sorgente del Sublime; cioè è atta a produrre la più grande commozione, perchè sono persuaso che le idee del dolore siano più potenti di quelle che vengono dalla parte del piacere.38

La passione cagionata dal grande e dal sublime della natura, quando queste cagioni operano più potentemente, è lo stupore; che è quello stato dell’anima, in cui tutti i suoi movimenti sono sospesi, con qualche grado di orrore. In questo caso lo spirito è sì pienamente occupato del suo oggetto che non può ammetterne verun altro, né per conseguenza ragionare sopra quell’oggetto che tutto l’impiega. Quindi nasce il gran potere del sublime, che lungi dall’esser prodotto dai nostri raziocinj, gli anticipa, e ci trasporta con forza invincibile.39

Si tratta, come è noto, di affermazioni spesso contestate fin dal primo apparire dell’Enquiry e lungo tutto il Tournant des Lumières, per ragioni che riguardano in primo luogo l'orizzonte fisiologico dell’estetica di Burke:40 dopo il Kant della Kritik der Urteilskraft, anche in Italia teorici e critici meno noti e tuttavia influenti del primo Ottocento, come il Visconti dei Saggi sul Bello41, rifiutano le premesse materialistiche implicite nell’idea di delight, sulla scorta delle proposte meno radicali di Blair. Lo stesso Martignoni, su cui è giunto il momento di soffermarsi, non fa eccezione, e nella parte del suo trattato dedicato al Sublime annota al riguardo:

Non saprei tuttavia circonscrivere con Burke al solo terrore gli effetti di questo eccelso sentimento, comeché non di rado esso entri nelle impressioni, che di lui vengono risvegliate. Al che per avventura egli si indusse per avere osservato, che anche la meraviglia serba un cotal carattere grave ed austero, e con un non so qual turbamento ricerca l’anima nell’atto di sollevarla sopra se stessa, e ne abbia quindi per analogia confusi gli effetti con quelli del terrore.42

Significativamente, Martignoni si preoccupa di distinguere fra l’impressione del sublime, esercitata sui sensi, e la sua rielaborazione artistica attraverso l’immaginazione creativa, che opera attraverso il sentimento della meraviglia, la cui azione ha (cartesianamente) l’effetto di «elevar l’anima e di rinvigorirla contro l’impression del terrore»43. Il risultato è una sorta di rivisitazione moderna del topos lucreziano del Suave mari magnum, ovvero del sublime come prodotto di una distanza. L’esempio chiarificatore è quello pittorico di Vernet, già oggetto dell’attenzione profonda di un altro esegeta acuto di Burke, ma assai più attrezzato, il Diderot dei Salons. Contrapponendo il terrore reale dei marinai preda della burrasca al sublime convertito in arte del pittore di marine, Martignoni osserva, in maniera quasi perentoria:

Una burrasca, la qual non è, che un oggetto di spavento e di orrore pe’ naviganti, che agghiacciano all’aspetto dell’imminente loro naufragio, era un sublime spettacolo per Vernetto, che il terrore non ne apprendeva, o il pericolo, ma l’imponenza soltanto ne scorgeva, o la maestà di così eccelsa scena.44

Viceversa, in un altro luogo del testo, e precisamente nel passo sulle Privazioni che era piaciuto al Borsieri, Martignoni sembra per un attimo contemplare una forma di immaginazione senza limiti, frutto dell’esperienza radicale del sublime inteso come «solenne e sacro terrore»:

Convengo perciò volentieri col ricordato Burke nel ritenere che tutte le privazioni generali sieno grandi, come lo sono infatti il silenzio, il vuoto, la solitudine, le tenebre, ed anche più le idee di morte e di annientamento, siccome quelle, dalle quali l’anima rifugge sbigottita. E a dir vero cotali idee invadono gli animi di un solenne e sacro terrore, il qual tanto più diviene energico, quanto che da nessun limite è frenato l’entusiasmo della commossa fantasia, e lo spirito ripiegato in se stesso tutta dispiega la sua forza creatrice.45

Se dunque perfino la sintesi conciliante proposta dal Martignoni nel suo trattato, vera e propria summa dell’estetica settecentesca nella quale Burke occupa una posizione significativa ma non assoluta, finisce quasi per confermare suo malgrado l’influenza delle posizioni più radicali dell’Enquiry attraverso l’ossimoro dello «spirito ripiegato in se stesso» che «tutta dispiega la sua forza creatrice», tanto più viene da chiedersi quale sia al riguardo la posizione di Leopardi. In altre parole, il verso finale de L’infinito («E il naufragar m’è dolce in questo mare») si deve intendere come una traduzione poetica del delight nel senso psicofisiologico di Burke, o invece si può pensare che proprio la memoria, evocata fin dall’inizio attraverso la forte cesura del primo verso («Sempre caro mi fu quest’ermo colle») sia funzionale a introdurre nel testo una dimensione temporale successiva, nella quale l’attività libera dell’immaginazione ritorna sulle idee di morte limitando alla finzione della scrittura quello che Giuseppe Sertoli, attribuendo al sublime di Burke una moderna sfumatura freudiana, ha definito il brivido dell’annientamento46? Un appunto senza data dello Zibaldone, nel quale Leopardi commenta un brano della Corinne di Mme De Staël relativo alla mancata visita dei due protagonisti alle catacombe romane, sembra autorizzare questa seconda interpretazione:

 

L’ame est si mal à l’aise dans ce lieu (dice la Staël delle catacombe, liv. 5 ch. 2 de la Corinne), qu’il n’en peut résulter aucun bien pour elle. L’homme est une partie de la création, il faut qu’il trouve son harmonie morale dans l’ensemble de l’univers, dans l’ordre habituel de la destinée; et de certaines exceptions violentes et rédoutables peuvent étonner de la pensée, mais effraient tellement l’imagination, que la disposition habituelle de l’ame ne saurait y gagner. Queste parole sono una solenniss. condanna degli orrori e dell’eccesso terribile tanto caro ai romantici, dal quale l’immaginazione e il sentimento in vece d’essere scosso è oppresso e schiacciato, e non trova altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi della fantasia e schivar quell’immagine che tu gli presenti. (Zib. 73sq.)

Alcune pagine dopo, nel pensiero datato 4 marzo 1821, Leopardi aggiunge una lunga chiosa sull’«eccesso di sensazione» che assume quasi il valore emblematico di una risposta implicita al sistema estetico dell’Enquiry, fondato come si è visto su di una sorta di rovesciamento dei principî del vitalismo:

L’eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l’indolenza e l’inazione, anzi l’abito ancora dell’inattività negl’individui e ne’ popoli […]. Il poeta al colmo dell’entusiasmo della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All’aspetto dell’infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna; in somma non è capace di nulla, né di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria né di pratica. L’infinito si può esprimere solo quando non si sente: bensì dopo sentito. […] Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch’egli è sommo; ma la sua proprietà è di render l’uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l’animo in guisa, ch’egli non conosce se stesso, né la passione che prova, né l’oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, né si può dire interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, né tutti interi, ma nel successo dello spazio e de’ momenti […]. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorché non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l’animo nostro non sia capace di contenerla tutta intera simultaneamente. (Zib. 714-716)

A naturale complemento di queste riflessioni, che implicano quasi sempre delle conseguenze sul piano poetico, si può infine citare, tratto sempre dallo Zibaldone, una sorta di avantesto in prosa de L’infinito e de La sera del dì di festa (due idilli legati da una rivisitazione personalissima del topos dell’ubi sunt in chiave autobiografica) il quale documenta per così dire una prima fase della scrittura, rispetto al tempo dell’esperienza e alla sua rielaborazione poetica:

Dolor mio nel sentire a tarda notte al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco. (Zib. 50sq.)

Mentre nello Zibaldone si percepisce ancora l’effetto pervasivo del sentimento doloroso, nel testo lirico di arrivo – L’infinito – l’attenzione si concentra tutta sull’attività dell’immaginazione che rielabora il dettaglio quotidiano, come mostra la trasformazione del «canto notturno» «de’ villani passeggeri» nel rumore indistinto della stagione «presente e viva», evocata per contrasto attraverso il paragone con il silenzio dell’eternità («le morte stagioni») interrotto dal rumore improvviso del vento tra le piante. Ma se tutto questo è vero, allora proprio l’autonomia creativa del momento poetico successivo all’esperienza dominante della passione, che Leopardi rivendica più volte nel suo giornale letterario, induce a credere che riguardo all’Enquiry Leopardi potesse implicitamente condividere, anche senza conoscerla, l’opinione di Ermes Visconti, quando nei Saggi sul Bello afferma recisamente, con un giudizio che assomiglia a un elogio funebre, che la dottrina di Burke aveva segnato un’epoca, «come la segnano per l’ordinario tutti i sistemi inventati dai grandi valentuomini, all’ingegno de’ quali è dato di compensare con molti dettagli pregevoli l’erroneità dell’insieme»47.

Di là da ogni confronto con le teorie estetiche del Tournant des Lumières, L’infinito possiede senza dubbio una coerenza testuale in sé conclusa, che le riflessioni dello Zibaldone contribuiscono a illuminare dall’interno. Tuttavia dopo quanto si è detto non sembra inutile riaprire quella sintesi della cultura estetica del Tournant des Lumières che è il trattato di Martignoni, e precisamente la sezione dedicata al Sublime artificiale, ovvero al sublime in poesia, che come provano anche i commenti dello Zibaldone alle Riflessioni intorno alla natura dello stile di Beccaria è il vero oggetto della riflessione leopardiana. Dopo aver affermato, in maniera piuttosto tradizionale, che un oggetto di per sé non sublime «può elevarvisi, qualora a renderlo illustre, e ad ingrandirlo pongansi in uso vocaboli splendidi, gravi ed armoniosi», Martignoni cerca va di chiarire le caratteristiche di un sublime di «composizione» che potremmo definire retorico, nel senso ancora di Beccaria, perchè opera secondo un processo analogico non razionale:

A ben comprendere […] come si generi una tal sorta di Sublime detto artificiale, giova il riflettere, che alle volte un oggetto per se non sublime può divenirlo col mezzo dell’associazione: conciosiaché per di lei effetto gli obbietti in guisa si agglomerino, che quasi un solo se ne formi. Lo splendore infatti d’un oggetto sublime su quello, che gli è associato, riverbera, e di sua luce lo irradia. Divien perciò sublime un obbietto, che in noi l’idea risveglj di un altro, il qual lo è realmente.48

A ben guardare il passo lascia intravedere un’idea di comparazione non riconducibile alle operazioni razionali della mente descritte da Condillac, spesso richiamate nei commenti a L’infinito in maniera forse un po’ troppo meccanica rispetto a quelle che sono le indicazioni stesse dello Zibaldone. Se infatti si può dire in linea di massima che comparare sia un «verbo tecnico della filosofia sensistica»49, bisognerebbe poi aggiungere, sulla scorta di Leopardi stesso, che lo scopo dichiarato della poesia non è il démêler, ovvero il seperare dei diversi momenti della percezione per giungere a un’idea chiara e distinta dell’insieme, quanto piuttosto l’unire di ciò che è distante attraverso il ricorso all’analogia. E da questo punto di vista, quale che sia il peso da attribuire a Martignoni nella preistoria de L’infinito, non si può negare che l’associazione del sublime descritta nelle sue pagine, fondata sulle risorse evocative dell’immaginazione, si presta a illuminare non solo quello che avviene nel sistema poetico dell’idillio, ma anche, più in generale, i modi nei quali poteva essere declinato il rapporto fra la realtà finita del quotidiano e le risorse potenzialmente infinite della natura, al fine di sottrarre la poesia al giogo di quel realismo «triviale» che secondo Leopardi costituiva il limite stesso della visione romantica della letteratura.

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