Lebenskunst nach Leopardi

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se tu penserai un poco, non può essere che tu non conosca da te medesimo che l’uccidersi di propria mano senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l’atto più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l’ordine delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita, che l’essere ci serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell’universo, di attendere alla conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch’è il contrario appunto dell’uccidersi. E senza altri argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo atto dell’uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito. (DPP 555sq.)

In fondo alla posizione di Plotino vi è una specifica idea di natura, che emerge nelle obiezioni che egli pone a Porfirio nel seguito della discussione. La natura cui si richiama Plotino – ed è un aspetto essenziale della complessità del significato della natura in Leopardi – è quella forza originaria per cui ogni essere attende alla propria conservazione in tutti i modi possibili. In questo ordine di idee, la natura va intesa come sinonimo di vita, senso che emerge chiaramente in questo brano dello Zibaldone:

La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S’ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro se stessa. S’ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s’ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa […]. Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. (Zib. 3813sq.).

Ogni vivente si sforza di conservare la vita, vuole la vita e la continua, per questo in ogni momento della sua esistenza cerca per sé il piacere e fugge il dolore16. La natura non può essere morte, il vivente non può voler morire, vita e morte sono in contraddizione. L’ordine delle cose sarebbe sovvertito, cioè sarebbe contraddittorio, se le cose si distruggessero da se stesse, se i viventi veramente volessero non vivere, se l’essere fosse destinato al non-essere. Plotino ha così buon gioco nel sostenere l’assurdità del suicidio, gesto contrario alla natura e anzi il più contrario di tutti.

Ma agli occhi di Porfirio, il presupposto di Plotino, cioè la sostanziale identificazione della natura e del principio di non contraddizione, per cui la natura risulta essere in armonia con se stessa e libera da contraddizioni, non regge17. Come si legge in un passo decisivo dello Zibaldone, il principio di non contraddizione perde di significato nel momento in cui si tiene conto delle «contraddizioni palpabili» che esistono nella natura:

Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale […] che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio. Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. (Zib. 4099)

Non solo il vivente non può essere felice né non essere infelice, e di conseguenza, per costituzione, non può realizzare se stesso, il suo bene, la sua perfezione, ma arriva al punto di rifiutare la vita, di non voler continuare a vivere, di preferire non essere piuttosto che essere. Le contraddizioni risiedono nell’essere stesso della natura; e che esistere implichi necessariamente il male, supporre che per il vivente l’infelicità non sia un male ma un bene, che non essere sia meglio che essere, è mostruoso:

l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza […] cioè nell’essere, ed essere p[er] necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria. Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male p[er] sua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò solo è male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica al suo subietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere un bene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa? (Zib. 4099sq.)

L’infelicità dei viventi è necessaria: vivere significa inevitabilmente volere e non poter essere ciò che si vuole, e in questa incapacità sentita e vissuta come continua insufficienza consiste l’infelicità; il suicidio è un dato di fatto: noi vediamo che tra i viventi vi è chi giunge a togliersi la vita spontaneamente. La natura ha in sé la contraddizione: cade il principio di non contraddizione, stanno insieme il vivere e l’infelicità, l’essere e il non-essere. La natura rivela le sue «mostruosità»: rimane per noi incomprensibile come sia possibile che sia bene il male (l’infelicità), che sia meglio non vivere (il non-essere).

Alle spalle del confronto dialettico tra i due protagonisti del Dialogo vi è questa profonda diversità di vedute. Porfirio conclude il suo discorso nel segno della radicalità della ragione18:

in fine, noi possiamo conoscere che (eccetto il timor delle cose di un altro mondo) quello che ritiene gli uomini che non abbandonino la vita spontaneamente; e quel che gl’induce ad amarla, e a preferirla alla morte; non è altro che un semplice e un manifestissimo errore, per dir così, di computo e di misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare, e nel paragonar tra loro, gli utili o i danni. Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla volontà, o sia col fatto solo. (DPP 565)

Plotino, invece, rilancia ancora la natura:

lascia ch’io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coll’ingegno proprio, colla curiosità inaccessibile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. (DPP 565sq.)

Nell’ultimo momento del Dialogo, all’esortazione finale in favore della vita da parte di Plotino corrisponde il silenzio di Porfirio. La natura chiama ancora alla vita (Plotino), anche se la ragione ha tirato le somme e ha concluso per il rifiuto della vita (Porfirio). Il Dialogo si chiude con l’ultima parola di Plotino o, si può anche dire, si interrompe quando Porfirio trae le logiche conseguenze del suo ragionamento. L’accorato appello di Plotino è una disperata richiesta di amore e di vita che viene dalla natura, l’atteggiamento di chiusura e silenzio di Porfirio rappresenta il punto di non ritorno della logica infallibile della ragione. È una dialettica inconclusa: Plotino parla ancora con la forza del sentimento, Porfirio si vede costretto a tacere, perché nell’ottica della ragione pura nessuna replica sarebbe ancora possibile. Con le sue ultime parole Plotino implora ancora una volta l’amico a desistere, Porfirio soffre in silenzio la rinuncia di chi sa che la verità comunicata non può essere compresa fino in fondo. Le due anime leopardiane – la spinta per la vita e la coscienza della legittimità del suicidio – vivono qui il momento di massima tensione e al tempo stesso rivelano la loro incolmabile distanza.

Si può leggere la conclusione del Dialogo – e a questo punto bisogna sospendere il giudizio su quale sia la conclusione leopardiana – limitandosi ad ascoltare l’appassionata perorazione di Plotino, tanto debole sul piano del logos quanto forte su quello del pathos, e a prendere atto del silenzio di Porfirio, nella consapevolezza dell’aporetica coesistenza della speranza irriducibile della vita e della persuasione necessaria della morte. Plotino è la voce del sentimento,19 di una ragione misurata usata per la vita e non contro la vita,20 Porfirio esprime il silenzio di una ragione assoluta che non accetta compromessi con le retoriche della vita. La scelta è tra l’essere uomo secondo natura o mostro secondo ragione (cf. DPP 567), ma è una scelta impossibile, perché l’uomo che con la natura riaccende le illusioni e le speranze necessariamente convive con il mostro che con la ragione le spegne.

 

La preghiera finale di Plotino lascia trasparire uno spiraglio di luce al cospetto del silenzio insondabile di Porfirio:

Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. (DPP 569sq.)

Plotino apre alla possibilità di un campo di strategie anti-pessimistiche con cui la verità persuasa al suicidio può riscattarsi nell’illusione che ci tiene attaccati alla vita: il richiamo all’amicizia come condizione necessaria per la costituzione della comunità degli uomini; la disponibilità a soffrire insieme, a confortarsi reciprocamente, a tenersi compagnia e a darsi soccorso per affrontare le sfide che la vita presenta; la disposizione ad attendere la morte con serenità e giudizio e con la speranza del conforto dei propri cari e del ricordo dei posteri come incentivi ad agire, a difendersi, a continuare a lottare.

Porfirio è vero sapiente perché ha imparato a morire, ma è vero sapiente anche chi si sforza di recitare la parte avuta in sorte, di resistere alle insidie e ai colpi della Fortuna, per quanto impari siano le forze in gioco. Rifiutare la vita con ponderata e saggia decisione, ma anche affrontarla con distacco nella lucida consapevolezza del suo scarso valore, per quanto possano sembrare posizioni agli antipodi, pure richiedono lo stesso coraggio. Scriverà Leopardi nello Zibaldone: «il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire» (Zib. 4391). Il peso dell’angoscia di chi è persuaso a morire (Porfirio) e la leggerezza di chi vive la vita pur non tenendola in gran conto (Plotino) insistono nello stesso dramma.

Bibliografia

Leopardi, Giacomo: Prose scelte di Giacomo Leopardi per le persone colte e per le scuole. A cura di Manfredi Porena. Milano: Hoepli 1921.

—: Canti. Introduzione, commenti e note di Fernando Bandini. Milano: Garzanti 1975.

—: Poesie e prose. A cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni con un saggio di Cesare Galimberti. 2 vol. Milano: Mondadori 1987–1988.

—: Zibaldone. Edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani. 3 vol. Milano: Mondadori 1997.

—: Operette morali. A cura di Laura Melosi. Milano: Rizzoli 2008.

Michelstaedter, Carlo: Poesie. A cura di Sergio Campailla. Milano: Adelphi 1987.

Campailla, Sergio: La vocazione di Tristano. Storia interiore delle Operette morali. Bologna: Pàtron 1977.

Capitano, Luigi: Leopardi. L’alba del nichilismo. Napoli / Salerno: Orthotes Editrice 2016.

Severino, Emanuele: Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi. Milano: Rizzoli 1990.

—: Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi. Milano: Rizzoli 1997.

Tocco, Felice: «Il dialogo leopardiano di Plotino e di Porfirio», in: Studi italiani di filologia classica VIII (1900), 497–501.

‹Dal nulla alla vita›

Leopardis Lebensbegriff

‹Dal nulla alla vita›

La concezione leopardiana della vita

Martina Kollroß

Leopardis Lebensbegriff gründet auf seiner teoria del piacere, in der er die Bedingungen der menschlichen Existenz entwickelt. Die rein körperliche Empfindung der Nichtigkeit aller Dinge führt ihn zur Erkenntnis einer Entsprechung von bios und desiderio. Die harmonische Beziehung zwischen Natur und Leben wird durch das negative Element der menschlichen Suche nach unendlichem Genuss, eine materielle Unmöglichkeit, gebrochen. Nicht endende Genüsse kann der Mensch allein in der eigenen Vorstellungskraft finden, in der ästhetischen Überwindung der Grenzen der Welt. Dem poetisch Unbestimmten gelingt es daher in der Funktion einer ‹möglichen Unendlichkeit›, die Kluft zwischen Mensch und Natur zu überbrücken. Ihrem Wesen nach entzieht sich die Unbestimmtheit jeglicher Theoretisierung und wird allein in der poetischen Praxis wirksam. Aus diesem Grund kann Leopardis Theorie des Unbestimmten nicht nur kein Wissen über das Leben hervorbringen, sondern führt im Gegenteil zu einem affirmativen Lebenskonzept, das jene Spaltung zwischen reiner Existenz und qualifiziertem Leben verhindert, auf der das moderne Paradigma der Biopolitik fußt. In dieser Hinsicht bietet Leopardis Begriff des Lebens jenseits des pessimistischen Klischees Impulse für aktuelle Forschungsfragen, die wie Esposito auf einem affirmativen Lebensbegriff aufbauen.

Il concetto di vita in Leopardi si basa sulla sua teoria del piacere nella quale scopre le condizioni dell’esistenza umana. Partendo dal «sentimento della nullità di tutte le cose», sentimento strettamente corporale, Leopardi arriva all’unione fra bios e desiderio. Dal momento che la vita umana è per lui caratterizzata dalla ricerca di infiniti piaceri – materialmente impossibile da raggiungere – viene introdotto un elemento negativo nel rapporto armonico fra natura e vita. Infatti quegli infiniti piaceri possono essere trovati dall’uomo soltanto nella propria immaginazione, attraverso la quale è possibile superare, almeno esteticamente, i confini del mondo. Pertanto l’indefinito poetico, in quanto ‹infinito possibile›, riesce a colmare la lacerazione tra uomo e natura. Tuttavia, per sua peculiarità, l’indefinitezza si sottrae a ogni teorizzazione e si mette in opera soltanto nella prassi poetica. Perciò la leopardiana teoria dell’indefinito non si protende a produrre un sapere specifico sulla vita ma, al contrario, mette a disposizione un concetto affermativo di vita in quanto impedisce la scissione tra pura esistenza e vita qualificata su cui si fonda il paradigma moderno della biopolitica. In quest’ottica, come nel caso di Esposito, il concetto di vita in Leopardi, al di là del cliché pessimista, offre spunti per delle attuali linee di ricerca che si basano su un concetto di vita affermativo.

Schlagwörter: Leben, Lebensbegriff, Unbestimmtheit, Biopolitik

Parole chiave: vita, concetto di vita, indefinito, biopolitica

[…] Amaro e noia

la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

(XXVIII. A se stesso1)

Bitterkeit, Überdruss, Nichts: Mit diesen kruden Worten bezeichnet Leopardi im 1833 verfassten A se stesso ein Leben, das in seiner Negativität vollständig unterzugehen scheint.2 Doch die Radikalität der Auflösungsbewegung hält die Möglichkeit einer positiven Umkehr bereit. Es ist diese ‹lebendige Widersprüchlichkeit›3, die Leopardis pensiero kennzeichnet, worauf De Sanctis schon 1858 in seinem Dialogo su Schopenhauer e Leopardi hingewiesen hat.4 Die Referenz des Lebens hat in der Leopardi-Rezeption bislang dennoch keine privilegierte Rolle gespielt.5 Dabei ist es gerade sein Lebensbegriff, anhand dessen Esposito und Thüring Leopardi in die Nähe des biopolitischen Paradigmas gerückt und ihn zu unserem Zeitgenossen gemacht haben.6

1. Die Entdeckung des Nichts und die teoria del piacere

In historischer Perspektive fällt das Zutagetreten eines modernen Lebensbegriffs Leopardis in das sogenannte Schicksalsjahr 1819, als die bereits in der Auseinandersetzung mit den Romantikern kritisch diskutierte Referenz des Lebens eine existentielle Dimension bekommt (cf. 968–996).1 Anders als jene, die hoffen, durch die Verschmelzung von Naturwissenschaft und Poetik ein höheres Wissen über das Leben zu erlangen,2 wird Leopardis existentielle Grenzerfahrung mit dem «solido nulla» (Zib. 85, 90)3 zu einer produktiven Schreibpraxis, was wir zum einem an seinen poetischen Werken, zum anderen aber auch an seinem Zibaldone dei pensieri ablesen können. In diesem philosophischen Tage- und Notizbuch skizziert er im Juli 1820 seine teoria del piacere, so überschreibt er diese ‹meditazioni sulla felicità›, in denen sein Lebensbegriff wurzelt. Antonio Prete schlägt vor, statt von einer Theorie vielmehr von einer ‹Schreibbewegung› («movimento di scrittura») zu sprechen, um den Gegensatz zu einem statischen Theoriegebäude zu unterstreichen.4 Es ist diese Schreibbewegung, in der der Lebensbegriff seine eigene Dynamik erkundet und seine Produktivität erfahren kann.5 Als zentral erweist sich dabei folgende Stelle aus dem Zibaldone, in der Leopardi seine Grenzerfahrung reflektiert:

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e piú materiale che spirituale. L’anima umana (e cosí tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. (Zib. 165)

[Die Empfindung der Nichtigkeit aller Dinge, das Unvermögen aller Freuden, unsere Seele zu erfüllen, und unser Hang zu einer uns unverständlichen Unendlichkeit haben vielleicht einen überaus simplen Grund und einen, der vielmehr materiell als spirituell ist. Die menschliche Seele (und mit ihr alle anderen Lebewesen) begehrt immer und zielt einzig, wenn auch auf tausend Arten, wesentlich auf das Wohlgefallen, das heißt auf das Glück, das bei näherer Betrachtung eins mit dem Vergnügen ist. Dieses Begehren bzw. diese Tendenz hat keine Grenzen, da es von oder mit der Existenz hervorgerufen wird, und daher nicht in diesem oder jenem Vergnügen, das nicht unendlich sein kann, aufgeht, sondern nur mit dem Leben selbst endet.]6

Die anima umana wird vom Begehren in Gang gehalten, wobei sich dieses Begehren nicht auf einen bestimmten Genuss, sondern auf den Genuss an sich bzw. das Glück an sich richtet. Dieses grenzenlose Begehren ist Teil der Bedingung der Existenz, bios und desiderio bilden eine untrennbare Einheit, die einzig und allein mit dem Leben selbst endet bzw. mit diesem zusammenfällt. Vom desiderio geht also eine Bewegung aus, die einen bestimmten, materiellen Genuss begehrt, eigentlich jedoch nach etwas Unermesslichem strebt. Da der Genuss sowohl materiell als auch endlich ist und das Begehren somit letztlich unerfüllt bleiben muss, schließt sich der Kreis nie vollständig. Was das Leben angeht, sind dabei zwei Punkte entscheidend: Es wird durch das nie befriedigte Streben in Bewegung gehalten, und die Bewegung stellt gleichsam seinen inneren Zweck dar.

Zuvor spricht Leopardi allerdings vom sentimento, von der Empfindung der nullità. Luporini erinnert uns daran, dass das Spezifische des Nihilismus Leopardis darin liegt, dass er weniger auf eine dominante Denkströmung antwortet, als vielmehr auf persönlicher Erfahrung gründet.7 An diesem Punkt wird genau das deutlich: Das Nichts ist eine sinnliche Erfahrung, ein Körperwissen, das sich in dem Moment einstellt, als ihn der temporäre Abfall seines Sehvermögens in Folge einer schweren Augenerkrankung von einem bedeutenden Teil der Außenwelt abschneidet. Die Oberfläche der Welt mit ihren Illusionen verschwindet, und darunter kommt nichts anderes zum Vorschein als die grausame Wahrheit der (menschlichen) Existenz: die Tatsache, dass der Tod, der in der absoluten Empfindungslosigkeit liegt, dem Leben in jedem Moment auflauert. Die Empfindung des Nichts generiert den negativen Pol des Lebensbegriffs. In dieser Empfindung liegt jedoch auch der Schlüssel für die folgende vitalistische Kehre.