Geschichte und Region/Storia e regione 29/2 (2020)

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Editoriale

Le regioni hanno dei propri “tempi storici”, dei “tempi regionali”, secondo la definizione di Jürgen Osterhammel, uno dei maggiori studiosi di storia globale? Sottostanno di conseguenza a proprie velocità di sviluppo, a propri rivolgimenti e cesure, a proprie epoche e periodi o devono essere analizzate secondo le scansioni cronologiche delle nazioni, degli stati o addirittura del mondo? E soprattutto: come deve rapportarsi con questo tema la storia regionale? A queste domande sono stati dedicati nel 2018 i Colloqui bolzanini di storia regionale a partire dal motto Tempo+regione. L’obiettivo di questa manifestazione era quello di sollecitare giovani storiche e storici che si occupano di storia regionale a discutere insieme sulla periodizzazione e sugli aspetti specifici legati al “tempo” in un contesto storico regionale. In tal modo ricercatrici e ricercatori appartenenti per lo più a una nuova generazione hanno potuto affrontare a Bolzano aspetti relativi alla temporalità storico-regionale e alle periodizzazioni. Da un punto di vista tematico il convegno ha offerto un ampio spettro di ambiti di ricerca, che hanno riguardato questioni storico-economiche, storiografiche, storico-giuridiche e storico-sociali in una periodizzazione regionale e in una dimensione cronologica estesa dall’antichità sino al passato più recente. In tal modo è stato possibile collocare diverse questioni di storia regionale nella cornice comune del tema della periodizzazione, che costituisce anche il fulcro di questo numero di Geschichte und Region / Storia e regione.

In realtà la periodizzazione è una di quelle questioni che talvolta occupano troppo poco le storiche e gli storici. La classica suddivisione eurocentrica della storia in antichità, medioevo e storia moderna/contemporanea spesso non viene analizzata criticamente in modo sufficiente. Sicuramente la periodizzazione serve a fissare dei processi storici, che possono essere rappresentati con un presunto inizio e una presunta fine. La storia intesa come “science des hommes dans le temps”, secondo la definizione di Marc Bloch, esige una suddivisione per essere interpretata. Ogni lavoro che si occupa di processi storici deve quindi inevitabilmente ricorrere a una periodizzazione: il tema analizzato viene limitato e suddiviso da un punto di vista temporale; sono elaborate delle connessioni temporali; la sequenza del tempo viene gerarchizzata, dilatata o ristretta secondo le diverse esigenze necessarie; essa viene disposta attorno ad alcune cesure. Di conseguenza Jürgen Osterhammel ritiene che: “Le strutture del tempo, che gli storici escogitano come propri sussidi, non sono mai tratte del tutto dalla ricostruibile percezione temporale dei soggetti storici”.1 Questa periodizzazione può far riferimento a datazioni (decenni, secoli o secoli “lunghi” e “brevi”), a periodi di dominazione (l’età carolingia, l’età dei Tudor in Inghilterra), a specifici anni o cesure (per esempio 1492, 1468, 1789, 1815, 1914 per la storia europea), a sviluppi economici (la rivoluzione industriale) o a una molteplicità di altri fattori. Ogni tipo di periodizzazione ha però in comune il fatto che agisce suddividendo e delimitando. In essa si tratta sempre di tralasciare o di includere distinti avvenimenti e sviluppi. Ciò significa anche che la periodizzazione richiama specifici eventi o specifiche catene di eventi, volge lo sguardo su determinati fattori – siano essi politici, economici, religiosi o altri processi – e in tal modo dà una struttura al “tempo”. Queste suddivisioni tuttavia così come ci aiutano nella restituzione dei processi storici e permettono un confronto con temi diversi in una “lingua comune”, possono anche indurre a non mettere in questione consolidate interpretazioni della temporalità. Interpretando liberamente una citazione di Samuel Butler – “God cannot alter the past, though historians can” – anche con la definizione della temporalità o di una periodizzazione viene “fatta” storia. Le storiche e gli storici modificano la storia con le loro analisi e le danno nuove interpretazioni e un nuovo significato.

Nonostante diversi tentativi di liberare il tempo e la temporalità dalle limitazioni tradizionali, come accade per esempio nella storia globale o nella connected history, le rappresentazioni storico-nazionali restano in gran parte sino a oggi paradigmatiche per le scienze storiche. In esse viene data rilevanza a una sequenza di eventi costruita a partire da un preciso spazio. Dobbiamo ricondurre al loro lungo predominio nelle scienze storiche il fatto che molte periodizzazioni dal punto di vista geografico corrispondano ai territori nazionali. In fondo può essere seguito Jacques Le Goff quando afferma che “Dividing history into periods is never […] a neutral or innocent act. The changeable reputation of the Middle Ages over the past two hundred years proves my point. Not only is the image of a historical period liable to vary over time; it always represents a judgement of value with regard to sequences of events that are grouped together in one way rather than another”.2

Per questo è sempre più forte la domanda di una trattazione storicoregionale non solo dello spazio, ma anche del tempo. Con una periodizzazione specificamente regionale viene stabilita una connessione tra lo spazio (la regione) e il “suo” tempo. Così la storia regionale può liberarsi dalle tradizionali narrazioni storiconazionali e può essere rappresentata con esse, accanto a esse o indipendentemente da esse, così come può essere collocata in un contesto sovranazionale e globale. La problematica della trasmissione di periodizzazioni occidentali ed eurocentriche al resto del mondo può parallelamente essere affrontata specularmente anche come la problematica della trasmissione di periodizzazioni storico-nazionali sugli ambiti regionali. Queste trasmissioni portano automaticamente alla restrizione e alla negazione di periodizzazioni specifiche.

Ma anche le prospettive regionali hanno le loro insidie, perché spesso riproducono su scala ridotta i medesimi meccanismi che stanno alla base delle identità nazionali. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che tra i lasciti dell’Ottocento non abbiamo solo i nazionalismi, ma anche i molti “micronazionalismi” locali che di frequente hanno spinto gli storici, in modo più o meno consapevole, a proiettare in modo anacronistico nel più lontano passato le identità regionali del presente, a pensarle in senso genealogico come delle “comunità di discendenza” definite da un punto di vista biologico, culturale, linguistico e territoriale.

Queste identità fanno pienamente parte di quel “paesaggio avvelenato”, per usare un’efficace espressione di Patrick J. Geary, che la storiografia ottocentesca ha lasciato alle generazioni successive.3 Da questo paesaggio si sono tenute e si tengono ben lontane le ricerche più innovative, che negli ultimi decenni hanno dato una nuova centralità alla dimensione regionale, rifuggendo al contempo da una storia locale chiusa su se stessa. Esse hanno seguito per lo più due strade diverse. La prima è quella microstorica, di grande impatto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, grazie anche a libri di successo, benché molto diversi fra loro, come Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg o Montaillou di Emmanuel Le Roy-Ladurie.4 Si trattava di una via che poco o nulla aveva a che fare con le tradizioni di storia locale precedenti: i “microstorici”, infatti, non si interessavano tanto alla storia di un territorio, quanto a quella di un singolo individuo o di una comunità. L’occhio era puntato principalmente sulla cultura di persone comuni a lungo ai margini della ricerca storica e, in particolare, sulla “cultura popolare”. Non a caso il sottotitolo de Il formaggio e i vermi di Ginzburg è Il cosmo di un mugnaio nel ‘500. E proprio i “microcosmi” più che gli ambiti regionali in senso proprio sono stati al centro di una stagione di ricerca quasi ventennale, che si è rivitalizzata in tempi più recenti grazie a un felice e forse inatteso innesto della dimensione microstorica nella storia globale. Questo percorso è ben esemplificato da due libri di Natalie Zemon Davis, una delle principali protagoniste delle ricerche microstoriche, e non solo. Nel 1983 con Il ritorno di Martin Guerre indagò le forme dell’identità personale contadina attraverso la storia di un impostore nei Pirenei del Cinquecento; vent’anni dopo, con La doppia vita di Leone l’Africano, attraverso le vicende romanzesche di Hasan al-Wazzan, conosciuto in

Occidente come Leone l’Africano, ha studiato le molteplici identità che si intrecciano nel mondo mediterraneo.5

Concentrate soprattutto sui “cosmi”, individuali e collettivi, le ricerche microstoriche raramente sono riuscite a entrare in dialogo con la storia regionale intesa in senso più tradizionale, fortemente legata al contesto territoriale. Hanno contribuito tuttavia in modo notevole ad avviare un proficuo dibattito sulla dimensione regionale o territoriale della ricerca storica, un dibattito del quale Geschichte und Region / Storia e regione è stata e continua a essere un’importante protagonista. Non a caso il titolo del suo primo numero è, non senza ironia, Die Grenzen der Provinz / I limiti della provincia. Quando nel 1992 uscì quel numero era ormai evidente che i “confini”, i “limiti” della storia locale o della Landesgeschichte tradizionale erano troppo angusti e soffocanti per una ricerca storica innovativa, che avesse voluto uscire dalle grandi narrazioni dominanti e da una contrapposizione spesso sterile tra storia locale e storia generale. D’altra parte diversi erano ormai gli esempi di ricerche che usavano la dimensione locale come laboratorio per affrontare temi di portata più generale, non limitati a un’erudizione localistica. In questa direzione – la seconda delle vie sopra accennate – si inseriva il progetto culturale di Storia e regione, un progetto che lega tra loro i temi monografici molto diversi l’uno dall’altro affrontati ormai da quasi un trentennio. In questa direzione si inserisce anche il numero odierno, benché ormai il panorama storiografico generale sia per molti versi cambiato da quello dei primi anni Novanta del secolo scorso. Molte sono state infatti negli ultimi decenni le ricerche che si sono avvicinate alla dimensione locale per approfondire quadri specifici di tematiche sociali, politiche ed economiche. Le più innovative lo hanno fatto con un approccio comparativo che non usa le categorie di “normale” e di “eccezionale”, non vede il caso regionale come una conferma o un’eccezione della “regola” nazionale o universale, ma studia le singole società locali per poterle comparare tra loro, per poter rilevare le somiglianze, le differenze, le divergenze, i diversi tempi dei fenomeni storici. Un modello, da questo punto di vista, è costituito dalle ricerche di Chris Wickham, importanti dal punto di vista metodologico non solo per i medievisti. Si pensi in particolare alla sua monografia dedicata alle società nell’alto medioevo: in essa egli ha coniugato magistralmente storia globale e storia regionale, comparando singoli case studies dedicati a società locali in una cornice euromediterranea.6 È in questo contesto storiografico ampiamente rinnovato che vanno collocati anche i saggi riportati nella parte monografica di questo numero di Geschichte und Region / Storia e regione.

 

Esso si apre con un saggio di Manuel Fauliri che analizza il beneficium come strumento di relazione nell’Italia altomedievale. Al centro della ricerca di Fauliri vi è dunque un tema classico della medievistica – il beneficium, a lungo ritenuto l’antecedente del feudo – che egli affronta in modo innovativo, da una prospettiva storico-antropologica che riprende e rielabora spunti della teoria del dono di Marcel Mauss e, soprattutto, del paradossale “dare mantenendo” (keeping-while-giving) studiato per le società dell’Oceania dall’antropologa statunitense Annette Weiner. Ma, dal nostro punto di vista, il saggio di Fauliri è importante soprattutto per come egli inserisce questo tema nel binomio tempo/spazio. Un tempo che, rispetto al fenomeno studiato, non può essere rinchiuso all’interno delle date canoniche dell’inizio e della fine della dominazione carolingia in Italia (774–888). Uno spazio che rifiuta un’analisi anacronistica a partire dalle regioni così come sono oggi intese, ma che si costruisce a partire dai singoli casi studiati e dai “piccoli mondi” sociali, economici, politici a essi collegati.

Un aspetto storico-economico è trattato invece nell’articolo di Lienhard Thaler che presenta un’ampia analisi del valore del denaro tra il 1290 e il 1500. Lo studio su un lungo periodo gli ha offerto la possibilità di approfondire i diversi sviluppi di una regione, il Tirolo, e di collocarli in un contesto più vasto. Inoltre gli ha permesso di comprendere a proposito del valore del denaro quali rapporti economici fossero dominanti e quali conclusioni si possano trarre da essi. In tal modo l’articolo colloca in un contesto europeo lo sviluppo dei prezzi in Tirolo e offre le basi per ulteriori studi futuri sulla storia medievale della moneta, dei prezzi e dei salari.

Nell’articolo di Stefano Mangullo, invece, viene analizzato da una prospettiva innovativa un aspetto centrale della storia italiana successiva al 1945. Esso affronta infatti il “meridionalismo” nell’Italia del Sud subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’autore analizza questioni sociali, economiche e politiche che mostrano come dopo la guerra si sia diffuso in Italia meridionale un nuovo, ampio movimento che rispondeva alle richieste di industrializzazione e di sviluppo generale di un territorio ritenuto arretrato. Sullo sfondo dell’interazione tra attori politici di diversa origine, delle istituzioni che si occuparono di queste tematiche e del quadro giuridico del tempo, viene tracciato un quadro complesso di richieste e rivendicazioni, che si propone di spiegare l’originale temporalità dello sviluppo del “Mezzogiorno”.

Molto diversi tra loro per temi analizzati, ambiti cronologici e approcci storiografici, i tre saggi che compongono la parte monografica di questo numero affrontano dunque tre questioni storiografiche: le origini del feudalesimo; il potere d’acquisto della moneta tra basso medioevo e prima età moderna; il meridionalismo. Lo fanno studiando uno o più casi regionali e i tempi della storia a essi collegati.

Giuseppe Albertoni e Karlo Ruzicic-Kessler

1 Jürgen OSTERHAMMEL, Die Verwandlung der Welt. Eine Geschichte des 19. Jahrhunderts, München 2010, S. 116.

2 Jacques LE GOFF, Must We Divide History Into Periods?, New York 2015, p. 17.

3 Cfr. Patrick J. GEARY, The Myth of Nations. The Medieval Origins of Europe, Princeton 2002.

4 Carlo GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino 1976 (nuova edizione Milano 2019); Emmanuel LE ROY LADURIE, Montaillou, village occitan de 1294 à 1324, Paris 1977 [ital.: Storia di un paese: Montaillou. Storia di un villaggio occitanico durante l’inquisizione, 1294–1324, Milano 1977].

5 Natalie ZEMON DAVIS, The Return of Martin Guerre, Cambridge, MA 1983 [ital.: Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, Torino 1984]; EADEM, Trickster Travels: a Sixteenth-Century Muslim between Worlds, New York 2006 [ital.: La doppia vita di Leone l’Africano, Roma/Bari 2008].

6 Cfr. Chris WICKHAM, Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean, 400–800, Oxford 2005 [ital.: Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo, secoli V–VIII, Roma 2009].

Il beneficium tra trappole fatali e particolarismi regionali
Una proposta metodologica per una nuova periodizzazione di uno strumento di relazione nel regno italico (secc. VIII–X)
Manuel Fauliri
Periodizzare: una trappola fatale?

Negli ultimi decenni, all’interno di vivaci dibattiti storiografici, si è discusso a lungo in merito ai processi di transizione tra periodi diversi della storia medievale e sulle relative trasformazioni riscontrabili a seconda delle aree geografiche indagate. Negli anni Novanta del secolo scorso ad esempio, a seguito del progetto di ricerca internazionale intitolato The Transformation of the Roman World, è stata messa in atto una profonda opera di revisione e di messa in discussione nei confronti di tradizioni storiografiche da tempo consolidate. Nuove proposte interpretative, infatti, hanno permesso di evidenziare gli elementi di fluidità e di continuità tra antichità ed età medievale in contrasto con la lettura tradizionale che vedeva piuttosto una netta cesura coincidente con la caduta dell’Impero romano d’Occidente.1 Negli stessi anni, d’altro canto, anche un tema come il feudalesimo è stato oggetto di intense discussioni che hanno visto emergere posizioni molto diverse arrivando in alcuni casi a proporre il superamento di tale concetto.2

In tale cornice storiografica si inserisce anche il tema del beneficium, che tuttavia negli ultimi decenni è stato in parte accantonato dalla ricerca specie per quanto riguarda l’epoca altomedievale. Si tratta di uno strumento impiegato nella creazione di relazioni che tradizionalmente è stato letto come cardine del rapporto vassallatico-beneficiario, impiegato dunque prevalentemente in un contesto militare, e che sarebbe stato introdotto in Italia dai Franchi dopo la conquista del regno longobardo nell’estate del 774.3 Anche per lo studio del beneficium si pone quindi un problema di periodizzazione, che d’altra parte si presenta in ogni indagine storica. In effetti, come ha ricordato Walter Pohl, “scrivere la storia richiede una riduzione della complessità del passato, che sarebbe altrimenti impossibile da raccontare”4, ma lo studioso austriaco ha osservato al tempo stesso che una riduzione eccessiva del passato rischierebbe di essere fuorviante ostacolando di fatto la ricostruzione della complessità storica. Ecco dunque che la periodizzazione è stata percepita da Julia Smith come una “trappola fatale per gli storici”5, sebbene tale operazione sia di fatto “indispensabile, quasi un respiro naturale del ragionamento storico”6, come ebbe modo di osservare Andrea Giardina in un saggio teso a riflettere sulla diffusione del concetto di tardoantico. Charles S. Maier ha notato, in particolare, come la periodizzazione sia volta a rispondere a una domanda implicita nel suo agire, vale a dire “cosa è importante?”, ma importante in un senso particolare “come nesso decisivo di una catena sequenziale o narrativa di ‘prima e dopo’”7, arrivando alla conclusione che la periodizzazione “è un concetto che non ha a che fare con gli avvenimenti, che possono essere separati in qualsiasi punto della loro successione cronologica, bensì con il loro significato.”8

Appare dunque evidente nelle indagini storiche la necessità di ancorarsi a dei punti fermi, costituiti dalle date e dalle localizzazioni specifiche di determinati eventi, che vanno tuttavia collocati in una più ampia cornice storica sebbene comunque, come sottolineato da Glen Bowersock, “stabilire dove situarli è un atto di interpretazione”.9 Al problema della periodizzazione si aggiunge quindi anche la questione della differenziazione a livello regionale, altro elemento di cui tenere conto nelle indagini storiche. Nell’analisi dei fenomeni storici entrambe le questioni sono in effetti imprescindibili e con esse lo storico si trova necessariamente a confrontarsi, per non rischiare di appiattire l’indagine su preconcetti temporali o su narrazioni basate su una dimensione nazionale che non tengano conto delle varietà locali. Anche nello studio di una forma di concessione come il beneficium si avverte, infatti, la necessità di esplorare un panorama geografico ampio che consenta comparazioni tra gli usi di tale strumento in vari contesti locali e di individuare riferimenti cronologici che, come si avrà modo di vedere, non siano obbligatoriamente vincolati alle partizioni temporali tradizionali.

In questo articolo intendo dunque analizzare il tema del beneficium nel regno italico di tradizione longobarda tenendo conto delle nuove prospettive storiografiche, non numerose ma significative, che negli ultimi anni sono emerse soprattutto in ambito tedesco e anglosassone. Si tratta di ricerche preliminari che andrebbero ulteriormente sviluppate ma che ho cercato di avviare non tanto per rispondere in maniera netta all’annosa questione relativa alla continuità o discontinuità che la conquista carolingia comportò per il regno italico, ma per provare a comprendere in che modo lo strumento del beneficium, nei primi decenni di occupazione franca e poi nella fase successiva, abbia permesso la formazione di nuove reti di rapporti e in che misura si sia rivelato uno strumento utile per creare una nuova coesione sociale. L’articolo è dunque suddiviso in due parti: la prima dedicata alle questioni storiografiche relative al tema, con particolare attenzione ai più recenti approcci che potrebbero offrire nuovi strumenti per indagare il beneficium anche nel contesto italico; nella seconda invece cercherò di affrontare, alla luce delle questioni discusse nella prima parte, alcuni casi particolarmente significativi per osservare gli usi e le principali caratteristiche dello strumento beneficiario.