E Non Vissero Felici E Contenti

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5

Eddie aveva pranzato da solo. Una scatoletta di tonno, una mozzarella e un paio di pomodori. Leggero e sano, non per scelta ma per incapacità dinanzi ai fornelli. Poi collassò qualche ora nel divano, accoccolato a Ted. Quel cane era tanto, troppo pigro. Ogni momento era buono per schiacciare un pisolino.

La sveglia del telefono, puntata per le 5 e trenta, suonò una canzone conosciuta. Lui aprì gli occhi, riposato. Poi si alzò e corse in doccia. Per le 7 meno un quarto doveva essere in ufficio, con la cena cinese ritirata già tra le mani. Si insaponò, velocemente, poi si risciacquò e uscì alla ricerca di un asciugamano. Si preparò come si trattasse di un’uscita, e poi si sentì in colpa per questo. Aveva messo un paio di pantaloni beige, una polo scura e una giacca sportiva marrone scuro. Si era fatto il gel, alzando i capelli chiari, e aveva messo il suo profumo migliore. In perfetto orario sedette nell’auto, diretto al take away cinese. Poi, procurato il cibo, si diresse all’ufficio. L’atrio era buio, probabilmente Giorgia non era ancora arrivata. Entrò con sicurezza in quei luoghi tanto conosciuti, poi avanzò verso la porta nella quale erano affissi tre nomi. Uno di questi era il suo. Si sbagliava. Giorgia era già lì: davanti a lei, mille pratiche e due bottiglie di birra.

«Ehi, scusa ti ho preceduto.» esordì, timidamente, lei.

«Oh, no. Ma figurati. Hai fatto bene.» rispose lui poco convinto. Quella storia che fossero entrambi lì, soli e ben vestiti gli sembrava sempre più sbagliata. La guardò. I capelli scuri e lunghi fino al limitare della schiena le davano una parvenza infantile, che veniva smorzata subito dalle linee sinuose del suo corpo. Notò, non con stupore, che anche lei si era acconciata in modo più preciso e sensuale del solito. Un vestito verde scuro con lo scollo pronunciato le fasciava il seno e le cingeva i fianchi; le scarpe scintillavano, e al collo portava un gioiello brillante capace di attirare l’attenzione. Quando i loro occhi si incontrarono – scuro e chiaro, uniti da un momento infinito, magico, inafferrabile – un brivido corse nella schiena di entrambi. Ma lui sapeva già che sarebbe successo, e si era preparato.

Si sedette dall’altra parte della scrivania e pose davanti a sé i fogli di cui disponeva, invitandola con un gesto della mano a fare lo stesso.

Lei, delusa e un po’ afflitta, obbedì a quel suo ordine.

«Allora, qual è il problema lo sappiamo. Dobbiamo solo stilare una lista di cose da sistemare. Grafici, statistiche. All’arrivo del cliente tutto dovrà essere in ordine.» esordì Eddie con voce ferma e pacata – dentro di sé il fuoco ardeva, ma riuscì a mantenersi composto.

«Io penso che dovremmo iniziare con questa scheda. La compiliamo?» lo interrogò, insicura, lei.

«Sì, facciamo questo.»

Lavorarono di gran lena per tre quarti d’ora. Poi un brontolio interruppe i loro conti minuziosi. Allora si sedettero a terra e aprirono le varie scatolette di carta contenenti cibo.

«Cosa sarà, questo?»

«Ah non chiedermelo! Mangia e basta. Se non sai non puoi preoccuparti.»

«Questa è la tua filosofia?» rise lei, divertita.

«Certo, lo è.» stette al gioco.

«Perché sei così triste, sempre?»

«Cosa intendi, Giorgia?»

Non credeva di essere sempre triste. Sì, talvolta era capace di perdersi nei suoi pensieri, soprattutto quando la sua mente decideva di vagare qua e là tra presente e passato. Dopo pochi minuti di vuoto, di nebbia, di ricordi, tuttavia, lui si riprendeva. Era simpatico, un burlone.

«Non fraintendermi. Tu giochi sempre, e con tutti. Sorridi sempre. Ma io lo vedo. Anche quando ridi di gusto il tuo sguardo è comunque cupo, come se ogni volta che fossi felice qualcosa ti ricordasse che non puoi esserlo, non a lungo almeno.»

Aveva ragione: nessuno se ne era mai accorto, ma le sue erano risate vuote, ingombre di macigni troppo pesanti da spostare. Il suo era solo divertimento apparente.

«Sì, hai visto giusto, Giorgia.»

Era inutile mentire, lei aveva guardato dentro i suoi occhi e aveva messo a nudo tutta la sofferenza.

«Se fossi mio non permetterei che tu soffra così tanto…» bisbigliò lei. Nel calmo ambiente vuoto le sue parole rimbombarono come fossero urlate.

«Ma non sono tuo.»

«E allora di chi sei? Di quella moglie che non ti ama e che non ami? Credi che non mi sia accorta che non porti la fede? Un giorno ti ho sentito parlare con Stefano. Eravate nell’ala relax, e io ero fuori. Sono stata ad ascoltare. Da quanto non ti tocca, Eddie? Da quanto non ti dice che ti ama, che vive di te, che sei l’unico uomo che amerà mai? Da quando non ti prepara il pranzo? Non ti ama. Tu sei perfetto e lei non capisce la fortuna che ha. Non capisce che sei un uomo d’oro. Quell’ingrata non sa che si perde. E io… io ti vorrei. Così tanto e in modo così totale. Tu non capisci! Sai cosa? Tu sei uno stronzo e lei è una stupida!» disse con rabbia.

Lui era livido di rabbia.

Le si avvicinò.

«Che cosa hai detto?» sussurrò, a mezzo centimetro dal suo viso.

«Tu sei uno stronzo e lei una stupida! Hai bisogno che ti vengano sturate le orecchie, o cosa?» lo sbeffeggiò lei.

Lui le tirò uno schiaffo. Sonoro e secco, sferzò l’aria come una frustata. Poi la guardò, pentito. Lei era offesa, umiliata. Era pronta ad andarsene. Fu allora che la baciò, con foga e rabbia. La baciò in modo rude. Non fu dolce, né mieloso. Fu un bacio aggressivo, che diede vita a una lotta silenziosa che li portò sul tappeto della stanza. Le mani di lui trafficarono nel vestito di lei fino a trovare il laccetto che lo teneva su. Lo sganciò. Lei gli sbottonò la camicia e gli baciò il petto. Mentre le mani si rincorrevano, si cercavano e si trovavano lui si bloccò, mentre il suo cuore si gelava.

Sandi urlava, disperata. Eddie non aveva nemmeno più lacrime da piangere. La piccola bara bianca era dinanzi a loro. Nella camera mortuaria dell’ospedale c’era assai freddo, ma nessuno tra loro cercò una giacca. La loro bambina – il loro piccolo angelo che ora diventava custode – non c’era più. Aveva solo sei mesi. L’avevano seppellita con un vestitino bianco con fiori ricamati. L’avevano coccolata e baciata, prima che il funzionario delle pompe funebri li avvisasse del triste momento: avrebbero dovuto chiudere il feretro entro cinque minuti. E ora erano lì; amici e parenti, con parole più o meno di conforto e tante frasi fatte, provavano a lenire quell’atroce sofferenza. Ma nulla avrebbe potuto liberarli da quel groppo nel cuore. Sandi, per la prima volta nella sua vita, era apparsa fragile, debole, pronta a rompersi. Per la prima volta nel suo viso non c’era ostentazione, né malizia, né sicurezza; c’era solo strazio. Lui le strinse la mano, ma lei non rispose alla stretta. Stava canticchiando la ninna nanna di Ginevra. Era un supplizio sentire quella cantilena. La strinse a sé mentre una consapevolezza faceva capolino nella sua testa: niente e nessuno avrebbe potuto riunirli, dopo quell’amara rottura.

«Io… Io… Io non posso farlo.» biascicò lui, rimettendosi in piedi. Il viso di lei era paonazzo, confuso. Si alzò, legò il vestito e si sistemò alla bell’e meglio. Poi lo guardò negli occhi e iniziò a piangere. L’espressione dissoluta di poco prima aveva ceduto il passo a un’angosciante senso di perdita.

«Perché piangi?»

«Piango perché sono io il problema. Sono sempre io.»

«In che senso?» la sollecitò lui, timoroso.

«Ogni volta che trovo un uomo, un uomo come te succede che io rovino sempre tutto! Che tu sia dannato, insieme a tutti gli altri miei demoni!» urlò con veemenza la giovane i cui occhi erano diventati due pozzi neri infernali.

«No, non hai capito affatto…» disse lui, con dolcezza, prendendo il suo volto tra le mani. «Io la amo, e questo mi basta. La amo follemente, senza razionalità né giudizio. La amo perché è la madre della mia bambina.»

«Hai una figlia?»

Era sconcertata, disorientata. Nessuno le aveva mai detto che lui aveva una figlia.

«La avevo.» mormorò con un filo di voce lui. «Ma è sepolta sotto un metro e mezzo di terra.» aggiunse, mentre nei suoi occhi si ravvisava un guizzo di pazzia.

«Mi dispiace.» bisbigliò lei, cauta. Ecco perché quell’aria perennemente angustiata.

«Me ne vado.»

«A domani.»

«A domani, sì.»

La lasciò lì, seduta in una scomoda poltrona, a pensare a quanto era stata stolta, ottusa. Si sentì sporca, immorale. Aveva sedotto per mesi un uomo che non voleva essere infastidito. E ora capiva perché. In quel momento le apparve chiaro come quella donna che lei guardava di nascosto andare a lavoro – quella stessa donna che non si curava del suo sguardo, altezzosa e presuntuosa – lo avesse in pugno. Per sempre.

6

Olivia mise a letto i bambini molto tardi, quella sera. Avevano passato l’intera serata a giocare con i giochi portati dalla zia Sandi. Olivia aveva sempre insistito che la chiamassero zia, anche se non ne capivano a fondo il motivo.

Sandi non era certo il tipo di persona che i bambini amano – di quelle che «Dai, facciamo un trenino!» o «Aiutatemi a fare le collane con le perline che indosseremo tutti stasera!». Era disinteressata a ogni aspetto dell’universo che non la riguardasse personalmente; era fredda, impersonale. Dava loro pacche nella schiena con il calore di un serpente della giungla. Ma la loro mamma la amava, quella donna stramba, o almeno la amava a suo modo – di quegli amori un po’ sofferti, ancor più preziosi perché strani, esclusivi.

Una volta mamma Olivia aveva detto ai bambini che lei li aiutava tanto e in vari modi. Poi aveva aperto il portafogli e loro avevano intravisto – non senza l’acquolina in bocca: avere soldi voleva dire leccornie, giochi – delle banconote da cento. La mamma guadagnava poco – «Il necessario!» soleva ripetere il suo spilorcio datore di lavoro – e tirare avanti non era semplice. Quel giorno era nata in loro una nuova stima per quella zia che non si interessava di chiedere loro come andassero le cose a scuola o come volessero il latte alle cinque del pomeriggio. Se ne infischiavano, semplicemente, di quelle strane regole. Tutta la loro vita era governata da leggi che di ortodosso avevano ben poco. Quel giorno, soprattutto, erano stati felici di vederla. Il papà era andato via – «Per sempre, mi auguro.» aveva affermato la mamma – e loro non erano né tristi né felici – l’amarezza per averlo visto andare via sbattendo la porta cozzava con la paura provata alla sola vista di quegli occhi assetati di sangue. Tuttavia una ulteriore compagnia non dava loro noia, anzi provocava sollievo.

 

Nella sala da pranzo Sandi e Olivia, all’una di notte, chiacchieravano ancora animatamente.

«Ti ricordi quando ti sei sposata?» chiese Olivia.

«Oh, sì. La sbornia presa il giorno dopo non la scorderò mai.»

Era il giorno che aveva scoperto che peggio dei liquori mischiati c’è solo la morte.

«E io lì, che ti mantenevo la testa. Eddie disperato, mentre tu gli spiegavi, pazientemente come solo una persona ubriaca sa fare, che non era lui il problema, ma tu. E in quel frangente ti accorgesti di avere le scarpe sporche di vomito e tutta quella tua sicurezza iniziale svanì.»

«Non mi ci fare pensare.»

Aveva già bevuto qualche bicchiere di troppo, e la testa iniziava a girarle vorticosamente.

I colori della casa variopinta di Olivia giravano, e giravano. E lei guardava il soffitto, stupita come un bambino davanti a un marchingegno mai visto. Olivia rise, di cuore e in modo fragoroso. Come Dio avesse fatto diventare amiche due persone così agli antipodi non si sarebbe scoperto mai. Una fredda, l’altra solare. Una seria, l’altra spiritosa. Una infelice – sempre e comunque, perché il mondo non girava intorno a sé –, l’altra perennemente grata a tutto. Olivia sapeva ringraziare Dio – o il destino, l’universo, la natura… insomma, qualunque cosa decida per noi – anche per il sole la mattina, o per i cornetti alla crema accompagnati dal cappuccino. Fermamente convinta che la filosofia esatta fosse quella del bicchiere mezzo pieno, fedelissima seguace dei saldi e innamorata dei dolciumi, Olivia era capace di amare incondizionatamente, senza se e senza ma. Sandi era tutt’altro. Non capiva le persone come Olivia – quelle che ridono senza un motivo, o che si danno agli altri in modo assoluto. Lei dava di sé piccoli pezzi, si concedeva a porzioni ridotte – quasi come se davvero il suo animo venisse dilaniato dall’eccessivo contatto con gli altri. Olivia era una delle poche persone che avrebbero potuto godere della sua vera essenza, delle sue preziose risa.

«Senti, Sandi… ma Eddie?»

«Non so dove sia.»

«E lo dici così? Senza interesse? È pur sempre tuo marito…»

«È mio marito, sì. Ma solo sulle carte.»

«Come siete finiti a questo? A farvi del male in questo modo, intendo. Abitate nella stessa casa, dormite nello stesso letto e vi guardate ogni santo giorno da quindici anni. Ma non vedete nulla; siete due spettri.»

«Olivia, le vicissitudini della vita spesso ti portano ad allontanarti e nulla – nulla! – si può fare per rendere le cose indolori o…»

«Piantala di fare discorsone con me, Sandi. Il tuo carisma ti aiuta ovunque ma non qui, in questa casa. Non con me. Ti conosco, sai?»

«E allora che diavolo vuoi sapere?»

Sandi si alzò, e camminava nervosamente per la stanza. Era quasi ubriaca.

«Si è rotto, tra di noi, Olivia! Si è rotto quando Ginevra si è alzata in volo, tra le nuvole. Si è rotto perché sono rimasta incinta una sola volta, e dopo sono stata più sterile di una sala operatoria. Non sono stata capace di dargli un altro figlio! Come pensi che mi senta? A cosa serve una donna il cui ventre si è esaurito? Lui voleva un altro figlio, un’altra ragione per vivere, per tirare avanti…»

«Oh, tesoro. Io pensavo non ci aveste nemmeno provato, dopo la morte di Ginny.»

«Oh, sì! Per mesi! Anche se non ci guardavamo nemmeno più. Lo facevamo lo stesso, e puntualmente ogni mese le nostre speranze venivano smentite. E lui ha voluto smettere di provarci. “Mi fai schifo!” mi disse, un giorno. “Smettiamola di farci del male, basta.” aggiunse. E io rimasi così. Ero così dannatamente triste, afflitta. Non capivo quale fosse il problema. Poi mi sono arresa. E lui è cambiato; era dispiaciuto, dolce. Mi chiedeva, amabilmente, ogni mattina che colazione volessi o se avessi bisogno di qualcosa. Il suo sguardo tradiva compassione, pietà. Come se qualcuno potesse, sul serio, avere compassione per me! Porco!»

«Lo respingesti?»

«Ovvio, lo feci.» affermò con gli occhi stretti in due fessure e un’espressione soddisfatta sul viso. «Lo feci iniziando a odiarlo. Provai io compassione per lui. Perché la sua vista non mi provocava niente: né amore né dolore; né tristezza né gioia. Era un fantasma, per me.»

«Mi dispiace. Non sapevo.»

«No, lo so.»

Si sedette nuovamente. Lo scatto d’ira era passato. Ora rimaneva solo il vuoto di un’esplosiva esacerbazione fine a se stessa.

«Porca vacca, mi sento così male…» mormorò, più a sé che agli altri.

«Lo so, cavolo se lo so.»

«Ora dormirò.»

«Va bene, perfetto. Io starò nella stanza accanto. Proverò a riposare. Domattina ti sveglio alle 5 e trenta, così potrai correre a casa tua, cambiarti ed essere a lavoro alle 9.»

«Ok.» biascicò, poco convinta, l’amica.

*

Nella sua stanza poco distante dal salotto Olivia pensò a tutta quella faccenda. Forse Sandi era nata buona – del resto si intravedeva nei suoi occhi, di tanto in tanto e soprattutto nei giorni di profonda stanchezza, un lampo di gentilezza, una parvenza di empatia – per diventare poi quella donna senza cuore nel tempo, a causa delle delusioni e di complicate e caotiche odissee. Si girò nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Pensò alla vita che aveva in grembo, a quel bambino che cresceva dentro di sé. Pensò al miracolo di avere dei bambini – con i loro giochi, i loro gridolini, la loro voglia di fare e i loro visini buffi sporchi di gelato. Poi pensò all’amarezza di Sandi – quella stessa amarezza che le aveva letto nel volto quando, pazza dalla furia, raccontava il calvario che l’aveva portata ad odiare il marito.

«Sì, nemmeno io l’avrei perdonato. D’altro canto l’ha ferita in un modo profondo e irrimediabile.»

Si ricordò la Sandi che conobbe tanti anni prima. Aveva 22 anni ed era fresca di studi. Era arguta, intelligente. Una laurea in Storia Antica e tanta voglia di sfondare. Aveva motivazione da vendere. Era una prima donna, Sandi; l’aveva persino invidiata e odiata per i suoi successi, per un lasso di tempo abbastanza lungo da garantirle l’inferno. Bella da morire e sagace all’inverosimile, riusciva, con le sue chiacchiere dense di sottili allusioni, ad ammaliare tutti. Poi era arrivato Edmund. L’aveva catturata con l’ironia e il brio. Lei, con lui, era riuscita a raggiungere un po’ di leggerezza e aveva perso, solo parzialmente, quell’espressione di superbia che le si dipingeva sovente in volto; lui aveva capito che nella vita si deve essere svegli e svelti. Era stato uno scambio equo, insomma. Avevano imparato l’uno dall’altra. Il mondo era ai loro piedi; poi era arrivata la bambina, e la sua prematura dipartita li aveva divisi e buttati nel baratro di una vita scarsamente appassionata e scandita solo dal rancore che, di tanto in tanto, tornava a farsi vivo. Lei allora si era fatta assumere in una grossa azienda, e fine dei giochi. Che sapesse, non aveva nemmeno più provato a scrivere – ma su questo non avrebbe di certo messo la mano nel fuoco.

«Certo,» mormorò malignamente nel buio «che se avesse saputo che lavoro avrebbe fatto da grande non avrebbe certo avuto quel nasino insù per tutto quel tempo!»

Poi, accortasi di quella sua infelice uscita, disse un’Ave Maria.

«Perdonami, oh Signore. Perché non solo ho peccato, ma peccherò ancora, lo so!»

Fu in quel momento che, presa dalla stanchezza, chiuse gli occhi e cadde in un sonno ristoratore privo di sogni.

7

Eddie si alzò. Non si era spaventato dall’assenza di Sandi. Aveva trovato un biglietto sul banco della cucina, la notte prima.

“Edmund, io vado da Olivia. Non so quando rientrerò. Magari mi fermo stanotte. Ciao.”

Il suo sguardo si era posato su quel freddo “Edmund”. Nessuno lo chiamava Edmund. Allora, scosso da un fremito, si abbandonò ai ricordi.

«Che diavolo vuoi da me, Eddie?»

«Cosa stai dicendo, Sandi? Voglio solo parlarti! Sei mia moglie, diamine!»

Era stato poco dopo che lui aveva iniziato a provare pena per lei: le aveva reso la vita un inferno, con questa storia di non riuscire ad avere altri figli. Voleva farsi perdonare. Ma, come al solito, si era innervosito, e l’avevano terminata a litigare.

«Non voglio che tu mi tocchi, nemmeno con un dito! Non ti facevo schifo?»

«Non essere sciocca. Ero arrabbiato, e amareggiato. Ma lo sai, ti amo. Ti desidero. Sono folle per te!»

«Muori! Sai una cosa? Eddie per me non esiste più. Per me, d’ora in avanti, sarai solo Edmund. Solo tuo padre ti chiamava Edmund, giusto? Quel tuo padre che ti ha rinnegato come fossi figlio del Diavolo in persona!»

«Che intendi dire?» rispose lui, mentre il sangue gli si gelava nelle vene. Provò ad avvicinarsi per abbracciarla, ma lei si scostò. Allora, in presa a un raptus, la tenne forte e la baciò. Voleva stringerla, sbatterla nel divano e scoparsela. Era questo che meritava per avergli detto quelle orribili parole. Ma la lasciò andare, consapevole che quella situazione l’aveva favorita lui stesso.

Le si girò, lo guardò con astio e si sistemò la spallina che lui aveva fatto scendere. Poi gli sputò in pieno viso.

«Edmund, puoi anche crepare per quel che mi riguarda.»

«Non sarà questa la tua fortuna.» chiosò lui. «Bisogna che tu mi uccida, sporca stronzetta.»

«Oh, non mi tentare. Non mi tentare.»

Era quasi pronto. Indossò le scarpe, la cravatta e si mise a tracolla la borsa del PC e dei documenti.

Quando arrivò in ufficio avvampò al ricordo della sera precedente. Scosse la testa, come per voler allontanare da sé quella verità tanto scomoda quanto pericolosa. Non avrebbe più dato peso alle parole di Giorgia. Non avrebbe riso alle sue battute e non avrebbe vantato una sua qualunque illuminante asserzione. Non le si sarebbe seduto accanto, durante il pranzo. L’avrebbe evitata, insomma, come si fa con peste e malaria. Del resto non voleva alimentare in lei quella stessa illusione che si era creata da sola – l’illusione che lui avrebbe potuto essere salvato: nessuno ne sarebbe stato capace, tantomeno lei.

Ma quando arrivò nei pressi del suo ufficio la vide chinata sulla sua scrivania. Per terra una scatola di cartone aperta conteneva pochi averi e altri ne doveva ancora accogliere.

«Giorgia?»

Lei si voltò. Era bella quanto la sera precedente, o forse anche di più – il fatto che lui non potesse liberarsi dei fantasmi del passato per averla la rendeva, ai suoi occhi, ancor più appetibile. Lo sguardo triste da cane abbandonato e la postura non eretta e forte ma china, debole furono come una pugnalata nel cuore, per Eddie.

«Perché metti le tue cose in una scatola?»

«Me ne vado, Eddie. E no, non pensare di farmi cambiare idea. Una settimana fa ho avuto una proposta di impiego. Ho chiesto qualche giorno per pensarci. Per questo ieri notte ho provato ad andare al sodo. Volevo capire se tu fossi nella mia stessa lunghezza d’onda. Ovviamente sai come è andata.»

«E dove andrai? In cosa consiste questo impiego?»

Per quanto gli dispiacesse, una parte di lui era sollevata: forse alla fine avrebbe finito per cederle, per donarsi a lei. Non lo voleva. Lei era giovane, bella, intelligente; lui avrebbe ucciso tutte le sue belle qualità, relegandola a una vita basata sull’arte di accontentarsi. Accontentarsi di un uomo privo di cuore, non capace di amare.

«Alla Spoline&Co.»

«Wow! Congratulazioni, Giorgia! È un gran studio… un traguardo notevole!»

«Già. Ora vai, hai del lavoro da fare.» aggiunse lei, girando il volto.

 

Piangeva singhiozzando; solo non vedere la sua faccia avrebbe, piano piano, lenito quel suo senso di delusione.

Lui accolse quella sua richiesta implicita e si allontanò a gran passi. Poco dopo la vide abbracciare qualche collega e andar via. Non si avvicinò nemmeno; quella storia, troncata sul nascere, doveva smettere di esistere anche nei loro pensieri.

«Eddie! Giorgia va via! Non l’hai nemmeno salutata! Non hai sentito? Ha un impiego alla Spoline&co. Cazzo che culo, santo cielo. È una vita che voglio passare lì,» disse Sergio sedendosi accanto a lui e lanciando una pallina da tennis contro il muro ripetutamente «ma zero che mi considerano. Secondo me usano il mio curriculum, che diligentemente faccio avere loro almeno una volta l’anno, come carta igienica. Poi arriva Giorgia che, per carità, è sveglia e quello che vuoi, ma è giovane e viene presa. Per me è perché ha un bel culo.» constatò con una punta di sessismo non indifferente.

«Sergio, lei è brava, molto brava. Avranno visto il potenziale.»

«Sei dalla sua parte e non dalla mia?» chiese non senza indignazione.

«Non c’è da essere da una parte o da un’altra, cavolo. È solo questione di capire che il potenziale c’era.»

«Perché non scherzi? Non ti esponi?»

«Che intendi dire?» lo rintuzzò lui, scocciato.

«Quando è arrivata abbiamo passato ore – ma che dico, ore? Giorni! – a ridere del fatto che finalmente, dopo Bessy, avessimo trovato un bel culo da veder passeggiare qua e là in ufficio. Sembra così ma questo lavoro è noioso, ti stressa. Grazie a lei bastava un’occhiata e tornava tutto a posto!»

«E che vuoi che ti dica? Siamo adulti, Sergio.»

«Avete fatto sesso!» capì il ragazzo.

Ora si spiegava tutto; i progetti dopo il lavoro, i messaggi, gli sguardi. Non era amicizia.

«Sei fuori strada, Se’»

«E allora dimmi! Spiegati!»

Si mise in attesa, posando la pallina e i piedi nella scrivania.

«Ci ha provato. Spesso. Ieri sera il culmine. Era bellissima, sexy e tutto il resto. Ci siamo strappati quasi i vestiti di dosso, eravamo furie e poi…»

«Poi?» impaziente, l’amico, lo incitò a continuare.

«Niente. Sai come sono. Le ho detto che…»

«Fammi indovinare. Le hai detto che alla fine ami tua moglie – malgrado sia una brutta stronza senza cuore capace di tagliare la gola a chiunque – e forse hai raccontato anche di tua figlia. Hai messo su quello sguardo e l’occasione è sparita. Ma sì, sai quale sguardo. Quell’espressione che ti esce quando sai che potresti essere felice ma decidi di non farlo, perché la vita è stata ingiusta e tu devi pagare per qualcosa che non è avvenuto per colpa tua.»

«Stai minimizzando la situazione.»

«Stronzate!» irruppe Sergio. «Le occasioni per essere felice non ti sono certo mancare, ingrato che non sei altro. Perché devi pagare? Perché tua figlia è morta?»

«No! Devo pagare perché la cattiveria di Sandi l’ho voluta io!»

«Ma per favore! Quella donna era una vipera anche quando l’hai conosciuta. Era l’arpia più maligna e bella di tutto l’universo. Ma tu eri felice e lei sembrava giovare della tua vicinanza. Per questo non l’ho ammazzata con le mie stesse mani, malgrado avessi già capito che ti avrebbe portato alla rovina.»

«Sergio, non esagerare!»

«Non esagerare? Tu non hai mai saputo come è morta tua figlia. Lei era lì e tu no. La bambina stava benone e poi…»

«Smettila!» si tappò le orecchie l’uomo.

«Non sto dicendo che è stata lei, non fraintendermi. Non so cosa sia successo, e nemmeno tu… ma nella tua testa ha sempre albergato il dubbio. Ecco perché l’avresti perdonata solo se ti avesse reso nuovamente padre!»

«E ho sbagliato! Molto! Ne pagherò le conseguenze!»

«Sei uno stolto, se pensi che Sandra Alti un giorno ti riprenderà tra le sue braccia… e tra le sue gambe.»

«Sergio…»

«No, non voglio sentirti. Svegliati, porca puttana.»

«Mi dispiace così tanto. Sarò pronto, lo giuro. La dimenticherò. Ma non oggi e non con Giorgia.»

«Ok, va bene. Scusa. Scusa davvero, non sono fatti miei e…»

«No, hai torto. Sono anche fatti tuoi. D’altronde sei tu che mi hai sollevato quando volevo solo morire. Solo mi serve un po’ di tempo.»

«Prendi il tempo che vuoi, amico. Io sarò qui.»

Prese la sua pallina da tennis e si diresse verso la sua scrivania.

«Se’?»

«Dimmi.»

«Non è morta per colpa di Sandi. Non è stata negligenza. Lo so che sembra cattiva, ma amava Ginevra. La amava quanto la amavo io.»

«D’accordo, d’accordo.» disse, senza convinzione.

«A dopo.»

«Già.»

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