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Mezzo secolo di patriotismo

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In un paese che avesse serbato, insieme col desiderio vago dell'indipendenza, un concetto serio e giusto delle situazioni politiche, il programma di Melzi avrebbe dovuto trovare un incoraggiamento larghissimo nel paese ed una votazione unanime fra i suoi rappresentanti. Ma non fu così. Svegliatosi per le questioni di materiale interesse, l'intelletto del paese s'era attutito circa le questioni di Stato. Il dispotismo napoleonico aveva irrigidito ogni elasticità di pensiero pubblico. Gli uomini politici erano spariti; non erano rimasti che degli amministratori e dei legulej.

L'opposizione scattò subito, dopo finita la lettura del messaggio di Melzi; e ne fu l'oratore più autorevole e più accanito il conte Diego Guicciardi.

Quest'uomo, già s'è detto, aveva riputazione di essere nel Senato il capo del partito austriaco; n'era effettivamente al di fuori uno dei capi. Però non bisogna credere che allora questa denominazione avesse il significato odioso e antinazionale che ebbe più tardi. È una delle abitudini che rendono più confusa la storia e più difficile l'indagine critica quella di attribuire parole di un'epoca a fatti di un'altra. Si creano delle storpiature morali, non dissimili da quelle di cui si renderebbe colpevole un artista che dipingesse Cleopatra col guardinfante o Carlo Magno colla parrucca di Luigi XIV.

A settant'anni di distanza, poche pagine possono essere utilmente impiegate a delineare la fisonomia di un uomo che fu tra i più operosi e i più influenti del tempo suo.

Ambizioso quanto attivo e sagace, fertile nelle difficoltà politiche di espedienti e di transazioni, ricco d'ingegno più che di cultura, di una esperienza d'affari da pochissimi superata in quei giorni, il Guicciardi s'era mescolato di buon'ora ai pubblici negozi, e sotto tutti i regimi aveva tenuto un posto importante.

Nato a Ponte, in Valtellina, era stato fino dai primi anni spettatore della sordidissima dominazione che i Grigioni esercitavano sul suo paese. Ne divenne tra i più caldi a volerne scuotere il giogo, e concepì il pensiero di allacciare con solidi nodi alle provincie italiane della sottoposta valle del Po, una provincia rimasta fino allora pressochè digiuna di tradizioni italiane, sebbene teatro di lunghe ed acerbe lotte, combattute, pel dominio d'Italia, da Svizzeri, da Francesi, da Spagnuoli, da Tedeschi. Quel pensiero lo seguì per tutta la vita e poteva certo bastare, in tempi così agitati, ad occupare tutte le facoltà di una mente attivissima.

Le rivolture cisalpine del 1796 fornirono ai patrioti valtellinesi la cercata occasione di sottrarsi al vassallaggio d'oltr'Alpi; e fu principalmente per le influenze del Guicciardi che il generale Bonaparte aderì allora ad emancipare la Valtellina, Chiavenna e Bormio, dichiarando quei territori irrevocabilmente uniti alla Repubblica Cisalpina.

D'allora potè datare il Guicciardi l'ingresso nella vita politica più larga e più attiva. Piacque dapprima a Bonaparte, gran nemico degli ideologhi, che ne fece un ministro dell'interno, per controbilanciare il vuoto frasario demagogico degli amministratori cisalpini. Ai Comizi di Lione, il Guicciardi fa, dopo il Melzi, nominato direttamente dal Primo Console come Segretario di Stato della nuova Repubblica Italiana; onore diviso unicamente con quell'altro eminente magistrato che fu il Gran Giudice, Spanocchi.

Nè fra così alte vicende obliava il Guicciardi gl'interessi della sua provincia nativa, a cui seppe mantenere, contro ogni sforzo di emule diplomazie, l'irrevocabilità dell'annessione italiana. Questo affetto di montanaro ostinato spiccava anzi nel Guicciardi così evidente, che partecipandogli l'alto grado a lui conferito, Bonaparte credeva necessario di scrivergli: “vous n'appartenez plus à aucun département. N'ayez jamais en vue que l'interêt et la politique de la République entière19.

Melzi non amava Guicciardi, e non lo nascondeva. Sicchè, fattisi difficili i loro rapporti personali. Napoleone collocò Guicciardi alla Consulta di Stato. Ma costituitosi poco dopo il Regno d'Italia, lo volle ritornato a capo di un dicastero, e gli affidò la direzione generale della Polizia. Bisogna dire, ad onore del Guicciardi, che in tali funzioni egli non seppe interamente prestarsi alle sfrenate volontà del sovrano. Uomo pratico, voleva la moderazione; uomo onesto, voleva la legge. Onde scadde dalla fiducia dell'Imperatore, che gli tolse la Direzione della Polizia e gli inflisse, con metodo imitato spesso dappoi, la dignità di senatore del Regno.

Voltandosi all'Austria, contro il sistema francese, Diego Guicciardi non poteva dunque dirsi nè un ingrato, nè uno spensierato. Aveva servito con zelo il governo da cui era stato beneficato. Caduto quello, ricuperava il sentimento della sua indipendenza politica, e credette scorgere nell'Austria, vale a dire nel più forte dei governi allora segnalati sull'orizzonte, la sola potenza capace di guarentire i due scopi politici che gli erano cari: il mantenimento della Valtellina nel regime lombardo ed una libertà onesta pel Regno. L'avvenire ha dimostrato che s'ingannava almeno per metà. Ad ogni modo, la sua evoluzione politica suscitò allora e mantenne intorno al suo nome fino agli ultimi tempi un ambiente di sfiducia, a cui s'ispirarono con troppa ingiustizia alcuni scrittori contemporanei. Dopo l'avversione del Melzi, incontrò quella del Marescalchi; e irosamente ostile gli fu sopra tutti Ugo Foscolo, che lo chiamava con suo sarcasmo: l'uomo valtellinese, e che avrebbe dovuto, più d'ogni altro, essere indulgente verso le debolezze dell'epoca.

In realtà, il Guicciardi, che tante antipatie s'era nella vita pubblica ingrossate contro, aveva fra le pareti domestiche riputazione di animo buono e probo, cui sempre giustificarono legami di affetto famigliare vivi e durevoli. Ma il Guicciardi era figlio del suo tempo ed aveva subìto, non corretto, l'ambiente in cui era vissuto. La mobilità degli eventi, avendo educato tutta la generazione sua ad un certo scetticismo utilitario, – che ora torna di moda, – non gli permise di mostrare, nella sua vita pubblica, ciò che si è convenuti di chiamare carattere; ma sarebbe ingiusto affermare, col Foscolo, che in quella non si fosse proposto se non utili individuali. No, il Guicciardi aveva il sentimento del paese, il concetto della vita politica. Non gli sacrificava con larga generosità le sue convenienze personali e famigliari, ma non può dirsi che abbia cercato queste a ritroso della sua coscienza di uomo pubblico.

Gli è che il Guicciardi non poteva propriamente dirsi un uomo moderno. Per l'educazione, per le tradizioni, per le necessità degli eventi contro cui ebbe a lottare, egli apparteneva a quella scuola di statisti italiani, che dal Macchiavelli, dal Morone, da Vittorio Amedeo avevano imparato l'evoluzione dei metodi come unico avviamento ai successi del bene. La saldezza delle convinzioni politiche, divenuta, sotto l'influenza dell'odierno liberalismo, quasi guarentigia e sinonimo della onestà degli uomini pubblici, non poteva sembrare qualità egregia di governo in tempi, in cui contro la prepotenza dei dominatori unico schermo era l'astuzia, ed unica preoccupazione quella di assicurare quanto più si potesse delle vite e delle sostanze dei sudditi contro l'imperversare delle mutabili tirannie. Onde accadeva sovente che uomini di rette intenzioni e di vita illibata serbassero, nei loro rapporti politici, andamenti così incerti e così brusche mobilità, da eccitare la riprovazione di chi non abbia l'indulgenza, naturale allo storico, per le incoerenze di cui ogni epoca è necessariamente feconda.

Il programma austriaco del Guicciardi poteva dunque essere, e fu, un errore; ma non era un traviamento.

Dell'Austria non s'aveva allora fra gli uomini di governo quel concetto che dopo il 1815 divenne popolare in Italia. Il Guicciardi non l'aveva conosciuta che come potenza estera, e gli uomini di parte sua in Milano ne ricordavano il mite regime teresiano e leopoldino come un ideale di autonomia, in confronto delle prepotenze repubblicane e imperiali piovuteci dalla Francia. Quegli uomini mancarono piuttosto, e mancarono affatto, dell'esperienza politica, che s'acquista unicamente colla meditazione e colla lettura. Furono vittima di quella illusione, che seduce sempre le menti volgari, di credere che un partito o un governo, abbandonato ad un dato punto della vita, sia rimasto immobile e si possa riprendere e ripresentare colle stesse forme e cogli stessi caratteri, allo stesso punto in cui s'è lasciato.

Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo

che non vede, non sente, non istudia le modificazioni che intorno a lui e in sè stesso cagiona la forza delle cose o lo spirito dei tempi, non sa immaginare che si sia mutato o in bene o in male quel partito, quel governo, quel sistema che da un pezzo ha perduto di vista. S'ostina a respingerlo o a ribramarlo, sulla base delle passate nozioni, inconscio dello squilibrio che vi può essere fra la sua ricordanza ed il vero; e quando poi la fortuna dei casi lo ripone in contatto con quella forma, desiderata o abborrita, dei tempi andati, s'accorge con sorpresa che quella forma è mutata, che ha subìta, affrettata, compiuta quella stessa evoluzione benefica o disastrosa da cui egli credeva che fosse rimasta lontana od immune.

Questo complesso di circostanze e di idee, unito probabilmente ad un senso di gelosia e ad un ricambio di antipatia pel duca di Lodi, unito ad una certa sfiducia dell'uomo d'affari per quella vaghezza di teorie e quella imprecisione di scopi che distinguevano il partito degli Italici puri, pose risolutamente il Guicciardi campione della resistenza contro il programma savio e patriottico esposto al Senato nella seduta del 17 aprile.

 

Rifar qui la storia di quella discussione parlamentare non sarebbe forse inutile, ma sarebbe certamente assai lungo; nel complesso, la sua intonazione fu meschina e rivelava la pochezza dei valori intellettuali rimasti in quella assemblea. È, del resto, uno dei fenomeni più volte ripetutisi nella storia, che, alla vigilia delle grandi crisi, l'eloquenza parlamentare si trovi quasi sempre inferiore all'urgenza delle situazioni o schiacciata da quelle. Invece di affrontare la discussione delle cose, si affronta quella delle apparenze; invece di trarre i fatti dalla necessità delle parole, si cerca di oscurare i primi sotto il viluppo delle seconde.

Il Guicciardi, secondato dai suoi, combattè innanzi tutto con mozioni d'ordine; mostrò dubitare che il Guardasigilli avesse facoltà di convocare straordinariamente il Senato; gli contestò il titolo di rappresentante dello Stato, mentre, a suo credere, lo era soltanto del governo; propose, vecchio espediente d'ogni nuova contesa, la nomina di una Commissione per istudiare l'argomento. Propostosi un Comitato segreto, per discutere subito l'affare e prendere una deliberazione, il Guicciardi si oppose di nuovo, sostenendo che un Regolamento organico del 1809 non consentiva al Senato il metodo dei comitati segreti.

Per uscirne, fu deciso che una Commissione, secondo il suggerimento di Guicciardi, si nominasse seduta stante e che il Senato fosse riconvocato la sera stessa alle otto per udirne la relazione. Guicciardi fu eletto naturalmente a far parte della Commissione, e fu incaricato, col Verri e col Dandolo, di recarsi dal duca di Lodi per udirne schiarimenti e notizie.

Questo colloquio e le gravi e dignitose parole del vecchio uomo di Stato parvero scuotere la Commissione; la quale, scelto a relatore il Dandolo, accettò e propose al Senato l'invio della Deputazione, dirigendola però a tutte le Potenze Alleate e sostituendo alla domanda esplicita del trono pel Vicerè un elogio cauto ed insignificante delle sue virtù. Questo inciso aveva, nella sua forma ipocrita, una significazione anche maggiore di indifferenza per la persona del Principe; e in tal modo lo commentò Carlo Verri, lasciando intendere che dubitava fossero i voti della nazione favorevoli a lui. L'imminenza del voto decisivo scosse i senatori del partito vicereale, e il Vaccari, il Paradisi, il Prina sostennero energicamente la forma del messaggio Melzi, facendo notare a ragione che, escludendo la domanda del principe a Re, lo scopo del decreto e della Deputazione si risolveva in una inutilità. Al che Guicciardi rispose, che essendo, per gli Statuti Costituzionali del Regno, erede diretto della corona d'Italia il figlio legittimo dell'imperatore Napoleone, i senatori, che erano tali in forza di quegli Statuti, non potevano chiedere un altro Re. Il ragionamento era rigido, ma non era leale; giacchè a nessun uomo di senno poteva sembrare possibile che la coalizione lasciasse un trono al successore immediato dell'uomo contro cui s'era rovesciata; e si ricadeva nel sofisma e nel bizantinismo, rifiutando di riconoscere la situazione di fatto per aggrovigliarsi nelle situazioni di forma.

Ben lo fecero notare Prina e Luosi, proponendo una nuova dizione che riservasse almeno il diritto eventuale del principe Eugenio. Guicciardi non cedette su nessun punto; ed essendosi venuti ai voti, piuttosto per istanchezza che per esaurimento della discussione, come accade nelle sedute parlamentari notturne, quasi tumultuariamente il Senato approvò a grande maggioranza il progetto della Commissione, nominando il Guicciardi e Luigi Castiglioni a deputati presso le potenze alleate. E i due deputati, accettato, sebbene a malincuore, l'incarico, e forniti dal duca di Lodi delle commendatizie necessarie presso i governi europei, partirono infatti da Milano il giorno susseguente e si trovarono in Mantova la sera del 19.

La seduta del 17 aprile ebbe un contraccolpo immediato sull'attitudine dei partiti in Milano.

I cospiratori del partito austriaco, visto che nel Senato il governo era ridotto ad una piccola minoranza, decisero di approfittare della circostanza per sollecitare quella rivolta di piazza, che doveva, nel pensier loro, rendere inevitabile l'intervento dell'esercito austriaco e quindi la definitiva occupazione, a tutela dell'ordine pubblico.

Gli Italici poi, indispettiti perchè nel Senato stesso neanche una voce si fosse levata a sostenere il loro programma, rivolsero i loro sforzi contro il Senato stesso, considerandolo, nella loro cecità, come l'unico ostacolo al trionfo della parte loro. Fra due partiti, chiaritisi ostili ad un terzo, una coalizione per distruggere è presto fatta. Gli Austriaci accordarono il loro appoggio e le loro firme ad una protesta che gli Italici presentavano, contro la deliberazione del Senato, per domandare l'immediata convocazione dei Collegi Elettorali, come unica legittima rappresentanza del Regno. Gli Italici dovettero tollerare, con trista e tacita complicità, l'agitazione popolare che il Ghislieri, il Gambarana e il Traversi organizzavano con torbidi elementi chiamati dal Pavese e dal Novarese.

La protesta in favore della convocazione dei Collegi Elettorali era imponente per la stessa moderazione con cui era redatta, pel numero e per la qualità delle firme ond'era accompagnata. Il primo nome sottoscritto era quello del generale Domenico Pino, e dietro a lui venivano tutti i nomi più noti dell'aristocrazia e dell'alto commercio, i Porro, i Trivulzi, i Confalonieri, i Fagnani, i Borromei, i Visconti, i Greppi, i D'Adda, i Cicogna, i Rasini, i Mellerio, i Sormani, i Trotti, i Brambilla, gli Arese, i Ciani, i Busca, i Silva, i Bossi, i Giovio, i Serbelloni, i Crivelli, i Castiglioni, gli Scotti, i Castelbarco, i De-Capitani, i Balabbio, i Besana, i Barbò; v'era il presidente del Consiglio comunale, conte Gian Luca Della Somaglia; vi erano il podestà di Milano, conte Durini, e tutti i Savj municipali; v'erano le illustrazioni intellettuali, Carlo Porta, il Monteggia, il Cagnola, Carlo Rosmini, e un giovane già alto nella riputazione cittadina, Alessandro Manzoni.

Questo documento parve atto così grave e così pieno d'incognite minaccie a Carlo Verri, uomo di animo retto e fermo, non indegno dei suoi illustri fratelli, che si recò senza indugio a casa del duca di Lodi, supplicandolo a prendere, come depositario del supremo potere, misure di previdenza. Fu inutile; il duca di Lodi, prostrato da un accesso di gotta, ingannato dai rapporti di una polizia che s'era fatta complice dei turbolenti, forse persuaso in cuor suo che ogni cosa precipitava e non v'erano più probabilità di salute, non volle far nulla. Era fatale che la catastrofe succedesse20.

La mattina del 20 aprile era il giorno ordinario delle riunioni del Senato; e, malgrado l'eccitazione popolare, che già si annunziava, il presidente Veneri non ebbe il coraggio di sospendere la convocazione. Pioveva; e i senatori s'avviavano nelle loro carrozze verso il palazzo dove solevano radunarsi.

E allora, in quel palazzo dove oggi accorrono gli studiosi del tempo antico a frugare le polverose cartelle degli Archivj di Stato, in quel cortile dove un imperatore di bronzo aspetta, colla stessa imperturbabilità di cui fu simbolo in vita, che si risolva il quesito di giustizia storica e di libertà politica agitato intorno al suo nome, accadde la seguente scena. Quando le carrozze dei senatori si fermavano dinanzi al vestibolo, un uomo d'alta statura, domestico di una casa signorile, montava sopra uno sgabello, si accostava allo sportello e gettava alla folla il nome del senatore, dando egli stesso il segnale dei fischi o degli applausi, secondochè il personaggio appartenesse o no al partito vice-reale. La folla era variopinta: v'erano giovani delle primarie famiglie, con ombrelle di seta, v'erano lacchè, popolani, faccie truci come di sicarii assoldati, e perfino, asserisce il Coraccini, delle dame di Corte. Quando giunse la carrozza del conte Verri, fu accolta da applausi, voltisi poi in fischi nel salire lo scalone; e il senatore vide distintamente il conte Federico Confalonieri dare il segnale degli applausi. La folla cresceva ad ogni momento, e assumeva, come avviene, aspetto più minaccioso e propositi più torbidi dal maggior numero. Mentre il Senato, appena riunitosi, cominciava la lettura della protesta e delle firme, un capitano Marini fece annunciare che la Guardia Civica chiedeva di voler presidiare essa il Senato, invece dei soldati di linea. Era il primo procedimento metodico della rivoluzione. I senatori, già sgomentati di questi preliminari, non seppero neanche dare risposta. E il capitano Begnino Bossi, del partito italico, rimandando senza contrasto il picchetto di linea e i dragoni ch'erano di servizio, fece occupare dalla Guardia Civica il cortile e le scale. Voleva dire, e volle dire infatti, che la turba fosse padrona d'invadere le scale e i cortili con assai maggiore libertà di prima. Il romore della sommossa cominciò allora a penetrare nella sala senatoria, e il pallore degli uscieri avvertì del crescente pericolo. Il conte Carlo Verri, affidato alla notorietà del suo nome e della sua famiglia, si offrì di uscire e di arringare la turba. Lo fece infatti e più volte, man mano che si udiva ingrossare il tumulto. Ma ad ogni arringa sua, vedeva più inquieta e più cupa l'attitudine della folla, respinta più in alto la guardia, sempre più occupati dai tumultuanti gli accessi e le scale del palazzo. La terza volta che si presentò sul pianerottolo dello scalone, vide che ogni freno era spezzato; che l'invasione delle sale era imminente. Gli ufficiali della Guardia Civica gli si strinsero intorno, dicendosi pronti ad esporre la loro vita per salvarlo; egli, impotente a farsi udire frammezzo agli urli, agitò un fazzoletto bianco e visto poco lungi il conte Confalonieri, lo chiamò ad alta voce per nome, invitandolo ad esporre i lamenti e i desiderii dell'assembramento. Furono poche parole, ma chiare: che si convochino immediatamente i Collegi Elettorali e che si richiami la Deputazione del Senato. Poi, gli urli proruppero come prima e più di prima, e assunsero quel tono foriero delle imminenti violenze: abbasso il Vicerè! abbasso il Senato! che si sciolga la seduta!

Il Confalonieri si pose a lato del Verri, quasi per fargli scudo della sua momentanea popolarità, e lo accompagnò fino all'uscio della sala, rimanendo sul limitare. Nell'interno poi della sala, tutto il Consiglio era scompigliato; i senatori, sbigottiti, non idonei per tempra ad affrontare somiglianti tempeste, non chiedevano altro senonchè si cedesse. Il Verri confermò loro che, senza un'immediata adesione ai desiderii della folla, non si poteva guarentire la salvezza del Senato. Non v'era bisogno di più forti scongiuri. Un senatore stese il decreto, di forma semplicissima: il Senato richiama la Deputazione, riunisce i Collegi Elettorali, e la seduta è sciolta. Il presidente Veneri appose la firma; siccome la folla già batteva all'uscio ed occorreva pubblicare il decreto, tutti i senatori e gl'impiegati si posero a scriverne copie, che poi venivano gettate e diffuse tra il popolo tumultuante.

Questa risoluzione salvò probabilmente i senatori da un possibile eccidio; i capi della cospirazione riuscirono a calmare per un istante le turbe, tanto che i senatori potessero, sgusciando ad uno ad uno, sfilare lungo i corritoi, tra gli urli e i fischi di quella plebe sfrenata. Poi cominciò il saccheggio. Il ritratto di Napoleone, dipinto da Appiani, fu bucato dalla punta di un ombrello e gettato sul lastrico della via. Poi, tavoli, sedie, usci, specchi, stufe, persiane, le carte d'archivio e i libri della biblioteca, tutto fu rovesciato, divelto, rotto in frantumi, buttato dalla finestra.

 

La prima parte della Rivoluzione era compiuta; il Senato era esautorato, sgominato, poteva dirsi abolito. Gli ostacoli che parevano gravi al partito italico s'erano superati. Ma restava l'altra metà del programma; quella che stava più a cuore del partito austriaco puro; e anche questa, poche ore dopo, era inesorabilmente e atrocemente compiuta.

Bisogna ora che ci trasportiamo col pensiero in altra parte della città; sopra un'altra area, pure oggi immemore della tremenda tragedia, i cui edifici sono consacrati a quanto v'ha di sereno e di nobile nel consorzio umano, la religione, l'arte, l'amministrazione cittadina, l'ospitalità.

La piazza di S. Fedele non aveva allora nè quell'aspetto regolare nè quella sufficiente ampiezza che oggi le si riconosce. L'edificio in cui trovasi l'albergo della Bella Venezia si protendeva allora assai più innanzi, con un massiccio quadrato, diviso dal prolungamento della via del Marino dalla casa Imbonati, divenuta ora teatro Manzoni.

La facciata poi si prolungava tanto verso il palazzo Marino da lasciare adito ad una viuzza strettissima ad angolo retto colla via del Marino; tanto stretta quella viuzza che, come nota il compianto Cusani, obbligò il celebre architetto di Tomaso Marino a costruire questa fronte del suo palazzo senza euritmia; cosa che ognuno può verificare od avrà verificato, notando che la porta centrale ha otto finestre a diritta e soltanto sei a sinistra, per potere collocare quella porta d'ingresso in faccia alla contrada dell'Agnello e sottrarla all'oscura strettoia, per cui nessun rotabile avrebbe potuto passare.

Era quello il palazzo che la dizione pubblica chiamava la casa del Prina; e dove quella immaginazione popolare malata, che è propria di tutti i tempi e resiste a tutte le logiche della civiltà, vedeva ammucchiati sterminati tesori. Il ministro delle finanze abitava infatti in quella casa, che non era sua, ma che il Demanio aveva comperata dall'Ospitale Maggiore. E lì, fin del mattino, era un via vai di gente, che, avendo sentore dei preparati tumulti, instava perchè il ministro cercasse fuori di casa un asilo.

Uno sconosciuto gli s'era presentato, porgendogli un biglietto anonimo, in cui lo si consigliava a lasciar tosto Milano; due segretari del ministro, Pavesi e Pioltini, lo esortavano a nascondersi, temendo per sè stessi e per lui; il parroco di San Fedele si offriva di celarlo in modo sicuro nel sotterraneo della chiesa; suo cugino, l'abate Prina, professore a Pavia, stava presso di lui un quarto d'ora prima che la folla irrompesse, e lo supplicava a fuggire secolui, avendo pronta a poca distanza una vettura preparata a tal uopo.

Fosse imprevidenza, irresolutezza o coraggio, il Prina non badò a nessuno di questi avvisi e non si mosse di casa21. La fatalità lo traeva. Trentaquattro anni dopo, un altro ministro, egli pure avvertito dei sicarii che lo attendevano, non volle mutare la sua via e corse incontro alla morte: Pellegrino Rossi. Ed aveva egli pure alcune spiccate analogie col ministro delle finanze del Regno d'Italia; entrambi uomini rigidi, aspri, inflessibili, tenacissimi; entrambi alteri dispregiatori di popolarità; entrambi ultimi sostenitori di un potere che cadeva con essi.

Quando la turba ebbe finito di trionfare delle suppellettili del Senato, una certa irresolutezza si manifestava nell'attitudine sua; voleva evidentemente una vittima; e già s'era mossa, per cercarla, verso il palazzo del duca di Lodi, quando una voce autorevole, forse spinta – chi lo sa? – da un desiderio onesto di stornare per un pericolo incerto e remoto un pericolo certo e prossimo, gettò nella turba il nome di Prina. Dio solo sa a quest'ora se quella sia stata la voce del conte Federico Confalonieri. Certe accuse, non basta che siano ripetute dai contemporanei, perchè debbano supporsi vere. L'epoca nostra ce lo insegna troppo. Guai se il giudizio dei posteri su alcuno dei più illustri contemporanei nostri fosse basato sulle audaci improntitudini di alcuni giornali!

Comunque sia, quella voce bastò a fermare la turba, che si precipitò invece, come un torrente devastatore, verso la nuova direzione e il nuovo nome additato ai suoi cupi disegni.

Giunse sulla piazza di S. Fedele, quando il cugino di Prina, visti inutili i suoi tentativi, aveva spinto il ministro in una delle ultime cameruccie dell'ultimo piano, gettandogli un abito da prete; ridiscendendole scale, scontrò la ciurmaglia che già le saliva.

Ognuno ha innanzi alla memoria quelle pagine sublimi del romanzo immortale, in cui Alessandro Manzoni descrive la sommossa del 1628 e l'assalto dato alla casa del Vicario di provvisione, che era, fra parentesi, Lodovico Melzi, un antenato del duca di Lodi. È fama che l'ispirazione di quelle pagine si dovesse all'impressione lasciata nell'autore dall'eccidio del 20 aprile che succedeva a pochi passi dalla sua contrada. Certo è che gli episodii si rassomigliano tutti; l'inferocir della plebe, la viltà degli eccitamenti, l'intervento delle scale e dei martelli demolitori, l'assenza di forza pubblica, la pietà generosa e impotente di alcuni cittadini. Soltanto, al povero Prina mancò l'aiuto di Ferrer.

Un Colombo, trovatello, falegname addetto al teatro della Scala, si vantò finchè visse d'avere scoperto il ministro in quella stanzuccia dove stava infilandosi le calze e l'abito da prete, nella speranza che il travestimento potesse salvarlo. Mentre gli uomini pratici della turba rompevano gli scrigni e mettevano in tasca i titoli di credito, il rozzo operaio, più violento, ma forse meno spregevole, pensava alla vendetta personale, che probabilmente gli avranno fatto credere giusta.

L'infelice ministro è ruzzolato giù per le scale, gettato da manigoldi fuori di una finestra verso la contrada del Marino, e raccolto da altri manigoldi sulla punta delle ombrelle e dei bastoni. Un manipolo di pietosi – ce n'è sempre, in questi casi, per l'onore dell'umanità – lo accerchia, finge d'essere il più accanito contro di lui e lo attira nell'interno della casa Imbonati. Renzo doveva essere tra questi. Ma i sicari prezzolati avvertono il tentativo e non lo lasciano compiere. Prina è strappato di nuovo dal suo rifugio, condotto a spinte, a busse, a colpi d'ombrello lungo la viuzza già accennata, tra la sua casa e il palazzo Marino; lo si trascina verso l'angolo di S. Fedele e lì la turba imbocca, schiamazzante e feroce, la via di S. Giovanni alle Case Rotte. Invano tentano alcuni generosi di placare quelle iene; il frate, poi cardinale Orioli, ajo del marchese Lorenzo Litta-Modignani, il celebre cantante Filippo Galli dal suo balcone, Ugo Foscolo dalla piazzetta della Scala spendono invano la loro pietà, la loro voce, la loro eloquenza; soltanto quel drappello di generosi che non aveva rinunciato alla sua speranza – bisogna nominare fra questi, a titolo d'onore, un cameriere di G. Domenico Romagnosi, Angelo Castelli – riuscì per la seconda volta a spingere la vittima trascinata entro una porticina che metteva nel cortile di un mercante di vino, Perelli, quasi di fronte alla casa, dove ora si trova la libreria Pirola.

Nascosto lì, dietro un mucchio d'assi del falegname Bonfanti, il misero Prina, già livido di ferite, vide passare per l'ultima volta innanzi a' suoi occhi la speranza dell'esistenza. Avrebbe potuto salvarlo il caffettiere Borrani, aprendo un usciolo che dal cortile metteva nella sua bottega e ad altre case; ma il caffettiere ebbe paura del saccheggio e si rifiutò. Avrebbe potuto salvarlo il generale Pino, coll'impiego di pochi soldati che avessero fatta una punta energica in mezzo agli assassini, che sono sempre vili. Ma il generale Pino si divertiva sulla piazza ad arringarli, gli assassini, in luogo di disperderli; e gli assassini udivano l'arringa, ridevano sul viso all'arringatore e proseguivano il loro truce divisamento.

Dopo un'ora di questa inutile aspettativa, avendo la turba già rotta la porta e invaso il cortile e ammucchiato delle fascine per incendiare la casa, il Prina rinunciò nobilmente all'esistenza, uscì dal suo nascondiglio e si diede nelle mani dell'orda inferocita.

Qui ebbe luogo una scena d'orrore che soverchia ogni più atroce concepimento di fantasie sbrigliate. La storia è talvolta più crudele dell'immaginazione. L'infelice uomo fu da un colpo di martello sul viso rovesciato a terra, fu legato pei piedi sopra un asse e trascinato in quella foggia lungo le vie, col capo che rimbalzava sullo sconnesso selciato della città. La pioggia dirotta e il cader della notte dovevano aggiungere orrore a quella scena sinistra, certamente rischiarata dalla luce sanguigna delle torcie di resina, più che dai pallidi fanali cittadini dell'epoca. Giunta la folla, briaca d'urli e di sangue, dinanzi all'ufficio del Demanio, sulla piazzetta del Cordusio, rizzarono contro il muro quel semivivo lacerato, lo denudarono, e cercavano sfondare la bottega di un vicino droghiere, per trarne acqua ragia ed abbruciare il cadavere coll'edificio. Erano i precursori del petrolio politico. Quando Dio volle, un picchetto di Guardia Civica comparve sulla piazzetta e sgominò gli assassini. Fu slegato e adagiato nel cortile del Broletto quell'informe avanzo d'uomo; era morto; ma i chirurghi che lo visitarono non seppero rinvenire, fra tante e così orribili contusioni, una ferita mortale; s'era spento di spasimo e di angoscia.

19Corresp. T. VII, pag. 478.
20Per una inesattezza, che è, bisogna dirlo, affatto eccezionale nel diligente Cusani, questi asserisce nella sua storia che “sopraggiunti Veneri e Guicciardi, confermarono il racconto, insistendo sull'imminente pericolo del Prina.„ Ora questo può essere pel Veneri, ma pel Guicciardi certamente non è, giacchè il Guicciardi era partito col senatore Castiglioni, fin dal 18 per Mantova, dove giunsero il 19, e fu lì, e alla stessa presenza del principe Eugenio, ch'essi udirono i fatti occorsi a Milano, riferiti al principe dai fuggitivi ministri, Vaccari e Méjean.
21I saria nen Piemonteis, dicono che rispondesse, con alpina fierezza, a chi gli suggeriva la fuga, come unico modo di conservare la vita.