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Mezzo secolo di patriotismo

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Le notizie di Vienna, producendo in Milano sulle varie autorità e sui gruppi cittadini eguale commozione, avevano mosso impressioni e risoluzioni assai diverse.

L'autorità governativa civile era piombata addirittura nello scoraggiamento. Il Vicerè, subodorando gli eventi, aveva lasciato la città fino dal giorno prima. Il Governatore Spaur, il conte di Ficquelmont lo avevano preceduto a Vienna per altri provvedimenti. Restava solo in Milano a sostenere una sterminata responsabilità il Vice-presidente del Governo, conte O'Donnell, burocratico di buoni istinti, ma affatto inadeguato a tempi e cose difficili. Aveva fatto subito pubblicare un telegramma da Vienna, annunciante che s'era abolita la censura e che pel giorno 3 luglio sarebbero state convocate le rappresentanze lombardo-venete. Sperava che questo avrebbe calmata la popolazione, e l'accese. Parvero promesse ridicole, e lo erano. Annunciavano però una debolezza politica del governo straniero e il momento opportuno per approfittarne.

Sulle autorità militari l'impressione fu alquanto diversa. Persuaso che Milano fosse inetta a sforzi militari e che il terrore sparso nelle giornate di gennajo avesse fiaccata efficacemente ogni reazione cittadina, il maresciallo Radetzky s'adagiò nella fiducia che le concessioni di Vienna avrebbero, almeno per qualche tempo, dato un altro indirizzo alla pubblica agitazione. In questo senso parlò a' suoi ufficiali e li prevenne che non dessero importanza a prossime adunanze di popolo perchè sarebbero state dimostrazioni di gioja e di fiducia nelle autorità. Non avevano veramente di queste illusioni ne il Torresani nè i suoi commissarj di Polizia; ma posti fra lo scoraggiamento dell'autorità civile e le ingenue speranze dell'autorità militare, si sentivano recisi i nervi ad ogni iniziativa di lotta.

Per questa triplice inazione, la cittadinanza fu, nei giorni 17 e 18, interamente padrona del campo. E in tutto il giorno 17, e nella notte dal 17 al 18, fu per la città, in tutte le riunioni private, un gran discorrere di quello che s'avesse a fare il giorno dopo, un grande incrociarsi di proposte, di piani, di accordi, di messaggi, di combinazioni.

V'erano tre opinioni, tre metodi principali in contrasto.

Carlo Cattaneo si manteneva risolutamente fedele all'attitudine presa. Non credeva opportuno e non giudicava fertile di successo un movimento armato. Estraneo a tutte le dimostrazioni63 che s'erano fatte, e favorevole, tra queste, soltanto a quelle di carattere più conservativo, come ai reclami delle Congregazioni e delle Camere di Commercio, voleva che si facessero passi più larghi su quella via, ma non fuori di quella64. Non credeva che esistessero armi, disposizioni, attitudini militari. In una riunione che si tenne, la sera del 17, in casa sua, alla presenza del Brioschi, del Gadda, di Enrico Cernuschi, di altri, manifestò schiettamente questa opinione sua; sconsigliò pronunciamenti popolari di carattere rivoluzionario; disse doversi approfittare dei casi di Vienna per “stringere il governo alla vita„ per “tenere i nemici nel duro e spinoso campo della legalità„ per “estorcere immantinenti all'attonito governo quanto più si potesse di armamenti e di libertà„65. Con questi intendimenti preparava il primo numero del giornale che avrebbe pubblicato il giorno dopo, e certo l'avrebbe scritto da par suo.

A siffatto metodo, che in circostanze ordinarie sarebbe parso il più savio e il più sicuro, non s'acconciavano gli uomini del partito d'azione, i giovani che da tanti mesi arrischiavano la loro vita per adunare elementi d'insurrezione e di lotta. Temevano questi, – e a ragione, – che dopo tanti eccitamenti dati alle classi popolari, inalberare il vessillo della prudenza proprio nel momento in cui tutto pareva favorire quello dell'audacia, avrebbe ingenerato sfiducie o diffidenze difficili poi a dissipare più tardi. E d'altronde, il moto di Vienna poteva essere represso; una nuova reazione succedere nell'indirizzo del governo, e precipitare quelle misure di disarmo che si erano fino allora così fortunatamente evitate. A queste idee s'inspiravano i crocchi più attivi e più numerosi della città, e in una riunione tenutasi, pure in quella sera, nella trattoria del Rebecchino, alla presenza di Angelo Tagliaferri, del dott. Pietro Lazzati e di altri, Cesare Correnti aveva promesso pel giorno dopo novità grosse ed ardite.

Una terza schiera si proponeva d'agire con misti temperamenti. Si raccoglieva intorno al Municipio e specialmente al Podestà, conte Gabrio Casati, che per le sue molte aderenze cittadine, per le sue relazioni col governo piemontese, per la condotta vigorosa tenuta nelle giornate del settembre e del gennajo pareva l'uomo adatto a capitanare programma di cose nuove.66 Far capo al Podestà, funzionario di nomina governativa, a nessuno doveva parere programma rivoluzionario. Nel tempo stesso, la scomparsa o lo sgomento delle altre autorità civili, autorizzava lo stesso Podestà ad assumere iniziative e poteri nell'interesse della pubblica sicurezza. Il Municipio si sarebbe tramutato man mano da autorità cittadina in autorità politica, senza provocare immediate ostilità militari e guadagnando alcuni giorni di tempo, per disporre l'insurrezione e sollecitare gli ajuti dell'esercito piemontese.

Come di solito accade, le risoluzioni prese non rispondevano a nessuna rigidità di programma; lasciavano al tempo, ai casi, all'energia delle persone gli svolgimenti dell'avvenire.

All'alba del 18, ciò che era stato possibile di concertare fu concertato. Nel pomeriggio, la popolazione si sarebbe agglomerata per le vie; avrebbe accompagnato, senz'armi, una deputazione municipale che si sarebbe recata dal Broletto al palazzo di governo per chiedere riforme d'urgenza; poi si sarebbe pubblicato un proclama, si sarebbero aperti gli arruolamenti per una guardia civica; poi si sarebbe veduto.

Alle due pomeridiane il programma era già sorpassato. La folla che accompagnava Gabrio Casati al palazzo di governo aveva tutta quella concitazione, quel fremito che non permette indugi, che non tollera transazioni. La rivoluzione era già nell'ambiente. Il Podestà era vestito di nero, con una coccarda tricolore all'occhiello, fra quattro pompieri non armati; lo precedeva una bandiera dai colori nazionali; forse ventimila persone lo seguivano. I balconi, le finestre, i tetti delle case si riempivano di uomini, di signore, già deliranti di entusiasmo, che agitavano fazzoletti, buttavano coccarde, gridavano: “viva l'Italia.„ I monelli s'arrampicavano sulle colonne, sui cornicioni. “Abbasso gli uomini„ si gridava dalla folla; e gli uomini scendevano, ingrossavano il corteo, e le donne applaudivano, e la commozione patriottica prorompeva.

Il primo sangue fu versato innanzi alla porta dello stesso palazzo. Allo apparire sul ponte di S. Damiano, di quella folla imponente, due sentinelle avevano commessa l'imprudenza di scaricare il fucile. Un tal Zafferoni, studente, uscito di seminario, cavò una pistola di tasca e ne uccise una; l'altra fu trapassata d'un colpo di bajonetta. Poi la moltitudine invase il palazzo; il conte Giulio Porro Lambertenghi ebbe la presenza di spirito di chiudere a chiave l'appartamento dove stava, colla sua famiglia, la contessa Spaur ed impedì probabilmente qualche deplorevole eccesso67. Enrico Cernuschi stanò il Vice-presidente O'Donnell, che cercava nascondersi, e lo condusse in una stanza dove Gabrio Casati, Anselmo Guerrieri, Marco Greppi, Antonio Beretta, Carlo Taverna, il Correnti, il Clerici, l'Oldofredi stavano deliberando.

 

Fu lì che il povero rappresentante del governo austriaco firmò, tramortito, i tre famosi decreti laconici, che istituivano la guardia civica, destituivano la Direzione di Polizia, e incaricavano il Municipio di provvedere alla pubblica sicurezza. E di lì, ottenuti questi decreti, si restituiva la Deputazione municipale al Broletto, conducendo seco prigioniero il conte O'Donnell; allorchè, giunta a mezzo la via del Monte Napoleone, una scarica partita da un drappello di soldati appostato al sommo della contrada, uccise un popolano, Pietro Rainoldi; la folla si sbandò gridando armi e correndo a cercarne; il Casati ed i suoi si chiudevano nella casa Vidiserti, divenuta per dodici ore il quartier generale dell'insurrezione.

Mentre queste cose accadevano. Cesare Correnti aveva scritto il primo proclama che domandava una Reggenza provvisoria del Regno, la libertà della stampa e la riunione dei consigli comunali per la nomina dei delegati all'Assemblea nazionale. Il difficile era di trovare in quei momenti un tipografo abbastanza coraggioso da stampare siffatto proclama. Due amici di Correnti s'incaricano della cosa; vanno dal tipografo Guglielmini e gli mostrano il manoscritto. Il tipografo resiste, reagisce, ricorda le disposizioni del giudizio statario, dichiara che non cederebbe fuorchè alla violenza. Subito fatto. I due amici estraggono tranquillamente un pajo di pistole e le appuntano al petto del tipografo, che allora passa il manoscritto in stamperia. Ohi ha conosciuto di persona questi due sicarj, questi uomini facinorosi così pronti alla violenza ed al sangue, dovrà stupirsi sapendo che portavano il nome di due fra i più colti e più miti uomini di lettere del tempo nostro: Giulio Carcano ed Angelo Fava. Haec mutatio dexteræ excelsi, avrebbe potuto dire anche in questa occasione il cardinal Federigo68.

Ritornava da questa spedizione Angelo Fava quando trovò nel vicolo di Bagutta Carlo Cattaneo che s'avviava verso la contrada del Monte.

Il fiero dottrinario s'era bisticciato il mattino con alcuni amici suoi che volevano trarlo nel movimento. Chiedeva quanti combattenti avessero, quanti fucili, quali capi. E quelli rispondevano, colla fede dell'entusiasmo, che tutta la città sarebbe sorta, che v'era il Comitato, che v'erano fucili e più se ne attendevano dal Piemonte. E quegli replicava scettico: “andate prima a vedere se sono arrivati„69. Non s'erano potuti intendere ed egli era andato dallo stampatore a consegnare il manoscritto del suo giornale. Angelo Fava lo ferma e gli chiede de' suoi propositi per la giornata. “Quando i fanciulli scendono in piazza,„ risponde Cattaneo “gli uomini vanno a casa.„ Angelo Fava corse a casa egli pure; da buon cattolico, fece udire una messa ai suoi allievi, Dandolo e Morosini; poi li baciò, li vide armarsi, scendere sulla via; prese un fucile e scese con essi.

Il primo combattimento ebbe luogo al ponte di S. Damiano. Dopo quella tumultuosa invasione del palazzo e dopo il suo sgombro, un drappello di soldati, furiosi per l'uccisione delle due sentinelle, s'era raccozzato e dal bastione di Monforte minacciava penetrare nell'interno della città. In fretta e in furia s'innalzò la prima barricata a ridosso del ponte. Tavoli, sedie, travi, mattoni, il selciato delle vie, tutto servì a costruire quella prima difesa, a cui tante centinaja dovevano seguitarne. Una buona donna cala da un terzo piano un suo mobiluccio e raccomanda che glielo si guasti il meno possibile. Passava sul ponte un carro, pieno di bariletti, quali vuoti, quali ancor pieni. In un attimo, il carro è rovesciato e i bariletti si accatastano l'uno sull'altro, a duplice uso, di terrapieno e di feritoja. Strilla il bottajo, che vede sciupata in un baleno la merce a cui forse aveva consacrati gli ultimi suoi risparmj. E quei reclami non sembrano, neanche in quella pressura di casi, privi di ragione. Qualcuno fa appello, come s'usava in quei giorni, alle borse guernite. Son lì presso, e sentono questo appello, due patrizj che aiutavano a fare la barricata. Giacomo Visconti Ajmi si fruga nelle tasche, non ha che sessanta lire e le dà; il conte Litta-Modignani straccia una pagina dal suo portafoglio, vi scrive un bono per L. 6000 e lo porge al suo vicino, Antonio Lazzati, perchè se ne serva per quel caso e per casi analoghi. Era il sistema finanziario delle cinque giornate che s'inaugurava.

Da questo punto la storia perde la sua traccia e cominciano gli episodj. Ciascuna contrada ha il suo, ciascun quartiere la sua epopea, ciascuna casa il suo prode. Inutile cercar di riassumere in quadri sinottici o in rubriche cronologiche centoventi ore di febbre d'una città; impossibile delineare i sussulti, le depressioni, i delirj, i periodi, le allucinazioni. Se ogni sintesi è ardua, quando i fatti escono da volontà prefinite e disciplinate, eccede addirittura l'umano intelletto, quando si tratta di iniziative individuali, sparse, indipendenti, uniche nello scopo, ma affatto slegate nei mezzi e nel tempo. Le cinque giornate milanesi furono come l'assedio di Troja; Ajace che combatte da un lato; Diomede che resiste altrove; Ettore che è vinto in una terza località; Minerva sola vede tutto dall'alto dell'Olimpo, e scende dove la traggono le sue simpatie. Dove appariva un nemico, cominciava un combattimento; ogni edificio dove si chiudeva un drappello determinava un assedio. E l'ansia di quelle lotte parziali, di quei certami quasi individuali riempiva il tempo, l'attività d'ogni quartiere, d'ogni contrada, e non permetteva di allargare a movimenti d'insieme un'offensiva che ciascuno concentrava con energie personali intorno a sè. Pochi abbandonavano, per informazioni, per intelligenze col quartier generale, la barricata che avevano difeso, la caserma che avevano conquistato, l'amico che s'erano visti cadere allato. Ciascuno pensava, combattendo e vincendo, che tutti gli altri, vicini e lontani, avrebbero saputo combattere e vincere. Quando v'era un'ora di tregua, si rafforzava una barricata sfasciata dal cannone o se ne alzava un'altra venti metri più in là. E al nemico che si allontanava d'altrettanto, trasportando morti e feriti, rispondeva una nuova scarica dei combattenti, un nuovo urlo di gioja dai tetti delle case, dove uomini, donne, fanciulli, noncuranti delle granate che fendevano l'aria, tenevano pronti vasi, tegole, mattoni, projettili, per lanciare sui nemici, a piedi o a cavallo, che tentassero riprese offensive. E allora quei venti metri di terreno rappresentavano una grande conquista, equivalevano ad una grande vittoria. E si spiccavano messaggieri per annunciare al Comitato questo trionfo; e il Comitato, che riceveva nel tempo stesso venti di questi annunci, li riassumeva in un proclama che presagiva dappertutto successi definitivi; e questi proclami, affissi sulle muraglie o sulle barricate, destavano nuovi entusiasmi, determinavano impeti più vigorosi e un'altra conquista di avamposti nemici.

Tutte le case erano aperte ai combattenti; di notte come di giorno. Quando s'aveva fame o sete, s'infilava il primo uscio e si trovava un domestico che vi offriva del pane, una fanciulla che vi porgeva da bere. Le distinzioni, le antipatie della vita erano sparite dinanzi al gran pensiero, al gran desiderio di tutti; il popolano aveva dimenticato le invidie, il ricco non aveva più esclusivismi nè ripugnanze. Vitaliano Borromeo faceva la guardia alle barricate con una bajonetta ed una pistola; Giorgio Trivulzio era ferito da una fucilata al ponte di S. Celso; la signora Beretta, visto cadere ferito un giovane popolano in mezzo allo spesseggiare della mitraglia, stava per lanciarsi essa a raccoglierlo, se quattro altri popolani non l'avessero prevenuta. Non un furto disonorava quella fraterna e illimitata larghezza di ospitalità. Le grandi case dei Belgiojoso, dei Trivulzio, dei D'Adda, dei Beretta, dei Borromeo erano divenute istituti di pubblica necessita; vi si fondevano palle da fucile, vi si conducevano feriti da fasciare, prigionieri da custodire, provvigioni e munizioni da distribuire; e le gentili padrone di casa, fattesi per l'occasione infermiere, carceriere e magazziniere, sorreggevano dei loro entusiasmi le cose difficili, correggevano le cose dure colla loro bontà.

Per questo s'è potuto vivere e vincere in quei giorni; perchè gli elementi simpatici dominavano colla loro influenza le incognite del pericolo e del terrore; perchè la gentilezza patrizia e la virtù popolare, affratellate in un santo pensiero di resistenza, creavano un ambiente di patria così alto, così sereno, che gli uomini vi combattevano colla gioja sul viso, vi morivano colla speranza sul labbro.

La battaglia cittadina s'è continuata per cinque giorni sotto questi auspicj, in mezzo a queste effervescenze; dominate a loro volta da un altro fenomeno costante, universale, di effetto strano, ma irresistibile; il romore delle campane a martello, che per cinque giorni e per cinque notti, da tutte le torri della vasta città, interpretò, per così dire, l'anima guerriera della popolazione; romore ora stridente, ora cupo, pieno di vibrazioni e di minaccie; che di notte irritava i nemici, di giorno incoraggiava i cittadini; una specie di tam tam selvaggio che nè bombe, nè mitraglie valevano a far tacere; la fanfara delle barricate, – che portava lontano, fra le campagne e i villaggi, un grido di soccorso ed un appello all'esempio, – che piombava sugli Austriaci come un suono pregno d'ignoti spaventi, colla sua implacabile e fantastica continuità.

Alessandro Manzoni ha scolpito in una delle sue grandi pagine il linguaggio della campana notturna, che atterrisce i bravi e libera Menico. Moltiplicate quell'effetto per cinque giorni e per cinque notti, unitelo al rombo dei cannoni e al crepitare della moschetteria, ed avrete una pallida impressione di quel molteplice scampanío.

Dal labbro dei nemici si potrà, anche meglio che da qualunque descrizione, ritrarre il meraviglioso spettacolo di quelle giornate. “Milano è sconvolta dalle fondamenta„ scriveva il maresciallo Radetzki al conte di Ficquelmont “la natura di questo popolo mi sembra per incanto trasformata.„ E due ufficiali austriaci, fatti prigionieri a San Celso e chiusi in una anticamera, udendo di un forte assalto che i loro compagni davano in quel punto ad una delle barricate maggiori, espressero il desiderio di poter seguire da una finestra le fasi del combattimento. Al vedere quelle barricate imponenti, che si alzavano ai secondi piani delle più alte case, quel formicolio di combattenti e di difensori, quel coraggio con cui si affrontava la morte, quei balconi e quei tetti pieni di offensori e di offese, all'udire quelle grida umane, quei rintocchi del bronzo, quegli spari d'archibugio che s'incrociavano, partendo dalle finestre, dalle vie, dai tetti, dagli spiragli delle cantine, i due prigionieri si ritrassero attoniti nell'interno della stanza, dicendo: “Misericordia! e il maresciallo crede di poter riprendere questa città!„

 

Si capisce come, in una situazione siffatta, i partiti e i gruppi sorti di poi abbiano potuto sbizzarrirsi a reclamare, ognuno per sè, le glorio maggiori. Gli orizzonti erano molti e divisi, e ciascuno si onorava giustamente del proprio, credendolo più vasto o più importante degli altri. Probabilmente tutti i partiti furono veri nei fatti esposti a merito proprio; soltanto può darsi che nessuno sia stato esatto nell'esporre quelli a merito altrui. Ed anche può accordarsi a tutti la mitigante della buona fede; giacche, non essendovi stata mai una situazione dominante, molti possono credere d'essere stati i soli od i primi a far ciò che altri pure, tratti dagli stessi casi e dalle stesse necessità, avevano già fatto in altri luoghi, senza che gli uni potessero sapere degli altri.

Lo storico solo può rendere a tutti ragione severa ed imparziale; può dire che il popolo è stato sublime di coraggio e di devozione; che le classi medie e patrizie hanno gareggiato di energia direttiva, non risparmiando nè vita, nè ricchezze, nè responsabilità. Lo storico può dire che, come esigeva Nelson alla vigilia della battaglia di Trafalgar, tutti hanno fatto in quei giorni il loro dovere; può e deve dire di più, – che chi volesse scemare ad alcuno fra gli attori di quella rivoluzione qualche briciolo del loro patriottismo non riuscirebbe ad altro che a far dubitare del proprio.

Queste le impressioni, questi i caratteri generali della rivoluzione milanese.

Chè se si volesse tentare di riassumere in qualche modo con metodi sintetici quella moltiplicità di episodj, bisognerebbe forse raggrupparli intorno a tre questioni fondamentali; la questione strategica, la questione politica, la questione diplomatica.

L'ultima può esaurirsi senza molte complicazioni. Non ebbe e non poteva avere altro intento che l'ajuto del Re e dell'esercito piemontese.

Al primo rompere delle fucilate, il giorno 18, l'idea di spedire immediatamente a Torino persona di fiducia per annunciare il moto di Milano e chiedere l'intervento, era balenato agli uomini di senno, qualunque fosse la loro opinione politica. Enrico Cernuschi, fin dalla prima riunione in casa Vidiserti, ne aveva fatto formale proposta70. Ma già lo aveva prevenuto Luigi Torelli, che s'era recato dal conte Francesco Arese, sollecitandolo ad incaricarsi di questa necessaria missione.

L'Arese, messo alle strette dagli amici, rinuncia a malincuore alla lotta in cui sperava essere attore. Si reca da una cognata71 e le consegna una forte somma in denaro, con ordine di distribuirne a quanti si presenteranno a richiederne per bisogni patriottici. Poi, si ficca in un carrozzino e corre alla più vicina barriera. Riesce a passarla, alcuni minuti prima che le porte si chiudano; ma al Ticino trova maggiori ostacoli, li supera e giunge a Torino la sera del 19.

Prima però ch'egli potesse adempiere la sua missione, il Re, avuto sentore del movimento, aveva mandato a chiamare Carlo D'Adda, che, ricevendo notizie per altra via, le aveva comunicate a Carlo Alberto insieme colle più vive preghiere per un immediato intervento. Il Re non gli aveva nascosto la risoluzione di venire alla guerra, ma gli soggiungeva scherzando “sicchè dovrò andare a Milano a proclamare la Repubblica.„ “Certo è, Sire„ rispondeva il D'Adda “che la Repubblica sarà proclamata se Vostra Maestà non parte.„ Erano, su per giù, le stesse parole che due giorni dopo il Cattaneo stampava nel suo proclama: “la parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola repubblica.„ Da che si vede come, in situazioni diverse, uomini diversissimi giudicassero pure con eguali criterj.

Subito dopo questo discorso, il conte Enrico Martini era stato inviato a Milano con una missione confidenziale, ed era già partito quando il conte Arese si presentò il 19, a tarda ora, e fu ricevuto dal Re.

A quell'egregio patriota ripetè Carlo Alberto con maggior precisione quello che già aveva detto al D'Adda e al Martini; anzi lo invitò a venire la mattina seguente nella piazza Castello per vedervi sfilare, avviata alle frontiere, la brigata delle Guardie72.

Dopo aver veduto anche il ministro degli affari esteri e dopo avere assistito a quella consolante sfilata, l'Arese ripartiva immediatamente per Novara, sperando poter rientrare in Milano. Ma trovati ostacoli assai maggiori, e sapendo che il Martini aveva istruzioni più precise delle sue, insofferente d'ozio, si mischiò ad una colonna di volontarj improvvisati, varcò con essi il Ticino poco lungi da Oleggio e si diresse verso la città bloccata, non più diplomatico, ma bersagliere.

Intanto Enrico Martini s'era aggirato per molte ore intorno alla cinta esterna dei bastioni, senza trovar modo d'entrarvi. Finalmente, la mattina del 21, combinatosi col signor Angelo Cattaneo, commesso delle gabelle, che doveva portare del sale alle caserme in città, si travestì da garzone del magazzino, si caricò d'un sacchetto di sale, e potè non senza ostacoli e rischi, penetrare fino al quartier generale, presentando le sue commendatizie.

Il Re desiderava due cose: che una mossa d'insorgenti o di disertori trascinasse il nemico a qualche violazione del territorio sardo: che gli venisse spedito un indirizzo, firmato da quanti più si potesse cittadini notabili per censo, per intelletto, per ufficj coperti, per influenze personali. Enrico Martini aggiungeva di suo, che si costituisse subito un Governo Provvisorio, col mandato di offrire a Carlo Alberto il dominio della Lombardia.

Quest'ultima proposta parve a tutti ancora intempestiva e non fu da nessuno accettata. Lo furono le due prime; e mentre alcuni fra i combattenti s'incaricavano di combinare una finta presso alla frontiera, Achille Mauri stese l'indirizzo, che fu portato subito da parecchi in giro per le case e fra le barricate, raccogliendo in poche ore parecchie centinaja di firme. V'era tra queste il nome di Alessandro Manzoni, che al conte Martini diceva: “prevenga Sua Maestà che se la mia firma è un po' tremolante, non è perchè io abbia paura, ma perchè sono vecchio.„ Parole che ricordano le altre celebri dell'antico maire di Parigi, Bailly, quando, trascinato alla ghigliottina in gennajo, diceva: “je ne tremble pas de peur, mais de froid.„

Queste trattative erano necessarie per attutire un po' i romori della diplomazia europea; che a Torino pareva ostile ad ogni intervento piemontese; tanto che lo stesso ministro della nuova Repubblica Francese consigliava prudenza, e il ministro d'Inghilterra, signor Ralph Abercromby aveva in quei giorni dipinto al suo governo sotto cattivo aspetto la missione del conte Arese. Ad ogni modo, l'indirizzo non fu portato a Carlo Alberto che il giorno 23, poichè nè il 21 nè il 22 era stato possibile al conte Martini di sorpassare i bastioni. E il 23 mattina, come si sa, Milano era libera.

Le prime notizie di questa liberazione erano ancora giunte, dai paesi tra Milano e il Ticino, a Carlo D'Adda. E il Re lo aveva ancora mandato a chiamare per saperle; poichè erano tempi in cui i semplici cittadini conoscevano le cose prima dei governi. Giungono intanto gli speciali inviati del Governo provvisorio lombardo; Enrico Martini col suo indirizzo, e il conte Annoni con una lettera di Gabrio Casati pel conte di Castagneto, in calce alla quale Pompeo Litta, storico e veterano delle campagne napoleoniche, aveva aggiunto questo poscritto pel Re: “J'attends mon astre, è una medaglia che mi fu spedita e da me pubblicata. Le occasioni sono straordinarie e perciò rare. È la Provvidenza, è Iddio che le manda. Possiamo rifiutarci?„

Carlo Alberto lesse questo poscritto con molta emozione e incaricò Castagneto di esprimere all'illustre patriota i suoi sentimenti.

Frattanto una grande agitazione invadeva Torino. In quel giorno stesso, era comparso sul Risorgimento, il periodico del patriziato liberale piemontese, quell'energico articolo di Camillo Cavour che incominciava: “L'ora suprema della dinastia sabauda è suonata.„ Già i volontarj s'organizzavano e partivano in colonne da varie parti del Regno. Il ministero, frenato sempre dalla diplomazia, esitava ancora a lanciare la dichiarazione di guerra. E la moltitudine, desiderosa di risoluzioni governative, s'assiepava intorno al palazzo reale, domandando notizie.

Era notte fatta, e la folla cresceva. Allora Carlo Alberto, questo re dalle forme rigide e compassate, esce sul balcone, avendo da un lato il Martini, dall'altro il D'Adda, con due valletti che portano, a sinistra e a dritta, le torcie. E lì, dal balcone, di notte, con questo apparato, a quella folla clamorosa, che all'inconsueta apparizione si chiude in un silenzio religioso, il Re annuncia con brevi parole la liberazione di Milano, e prendendo l'estremità di una fascia tricolore che il D'Adda portava ai fianchi, l'agitò con gesto sicuro intorno al suo capo, come simbolo di una bandiera sventolata. Equivaleva, in quell'ora e da quell'uomo, a una dichiarazione di guerra. L'urlo d'entusiasmo che si levò da quella folla in delirio è più facile immaginarlo che descriverlo.

Poi, non essendo questa folla ancor soddisfatta, Carlo D'Adda scende alla porta; vi trova una carrozza a due cavalli che stava attendendo uno degli ospiti del palazzo; sale sul predellino del cocchiere, e in piedi, sventolando un fazzoletto, patriottico novelliere, snocciola lì per lì le notizie più diffuse e gli ultimi particolari della liberazione di Milano. E allora la folla è soddisfatta e si scioglie.

Fu nella stessa sera che il Re convocò il Consiglio dei Ministri, per notificare la deliberazione, già da lui presa, della guerra immediata e per redigere il proclama da indirizzarsi alle popolazioni lombarde.

A quel Consiglio furono invitati i due inviati milanesi, Martini e D'Adda; e bene intonava la situazione il vedere fra quelle Eccellenze, tutte gravi, tutte in uniforme, due giovani in abito da viaggio o da camera, che portavano la coccarda tricolore al posto degli ordini cavallereschi e dei medaglioni.

Il conte Sclopis leggeva ad alta voce lo schema del famoso manifesto; e il Re, volgendosi ai due milanesi, a preferenza che agli altri ministri, diceva loro: “va bene così?„ Interpellati direttamente, quelli credettero dover esporre la loro opinione. Nel manifesto si faceva accenno alla protezione di Dio, ma non si parlava punto di Pio IX. Carlo D'Adda si levò a suggerire che non mancasse in quel solenne documento il nome dell'uomo, allora così acclamato, sotto la cui invocazione tanti sacerdoti e tanti popolani s'erano battuti. L'osservazione parve giusta e l'inciso relativo a Pio IX fu inserito nel manifesto73.

Della questione politica, durante le cinque giornate, si può sbrigarsi anche in minori parole.

Il Municipio, posto dagli avvenimenti di fronte a una situazione così piena d'ignoto e grossa di responsabilità, ebbe fin da principio un concetto fondamentale generico: uscire il meno possibile dalla legge; posarsi fra la città e il governo militare come autorità tutrice e intermedia, che non ostentasse risoluzioni implacabili, ma che rigettasse su altri la colpa d'uno stato di guerra, contro cui era ben necessario che la popolazione si premunisse.

Per ciò, ad una prima brutale intimazione del maresciallo Radetzki, che la sera stessa del 18 marzo, alle 6 e mezzo pom. ordinava al Municipio di pubblicare immediatamente un proclama di biasimo e di disarmo, sotto pena di bombardamento e con una spavalda allusione a centomila uomini e a duecento cannoni, Gabrio Casati rispondeva con molta e savia tranquillità: “Quanto il Municipio ha operato precedentemente, lo ha fatto d'accordo col Capo attuale del Governo civile. La Congregazione deve quindi riservarsi fino a domani per deliberare; ed intanto interessa l'E. V. a sospendere ordini, atti a null'altro che a partorire danni incalcolabili per tutti.„

63Aveva detto al marchese Villani, attivo dimostratore egli pure: “una compagnia di dragoni vi spazzerà tutti.„
64“Egli consigliava che il Lombardo-Veneto accettasse le riforme, escludendo la presenza di soldati stranieri.„ Alberto Mario, Biografia di Cattaneo nel Risorgimento Italiano, vol. I, dispensa V.
65Dell'Insurrezione di Milano, pag. 11, 17 e 21.
66È stato di moda per un certo tempo e per certi scrittori parlare del conte Gabrio Casati come d'un uomo affatto impari, per ingegno, alla situazione politica che il 1848 gli ha fatta. Eppure, se guardiamo alla media degli intelletti e delle esperienze che durante quell'epoca burrascosa si avvicendarono nelle regioni di governo, il Casati ci pare ergersi dal livello piuttosto che sottostarvi. A noi, p. es., hanno fatto molta impressione alcune lettere politiche da lui scritte in quegli anni e negli anni successivi, e che furono pubblicate nel volume delle Corrispondenze di Antonio Panizzi. Quelle lettere rivelano, a non dubitarne, mente, cuore, sagacia, conoscenza di uomini. Sbaglieremo, ma crediamo che con questi quattro elementi un uomo di Stato è bell'e fatto.
67La sventurata signora fu poi tratta in salvo, subito dopo, per cura di Camillo Casati e del conte Oldofredi.
68Una nota apposta dall'egregio Massarani al suo bello ed onesto libro su Carlo Tenca (pag. 424.) sembra accennare ad un episodio consimile, quando non fosse l'identico; con questa differenza, che, invece del Carcano e del Fava, sarebbe stato lo stesso Tenca a portare, dietro preghiera del Correnti, il proclama da stampare al tipografo Guglielmini. Siccome la nota è tolta dagli stessi manoscritti del Tenca, noi teniamo la cosa come indisputabile. D'altro canto, chi ha riferito a noi questa particolarità e questi nomi è per ogni verso autorevole, oltrechè è il solo vivo fra tanti morti. Egli, se vorrà o potrà, ha modo di schiarire l'episodio. Fino a questi schiarimenti, a noi non urta affatto il credere che si tratti di due proclami diversi od anche di due copie dello stesso proclama, portate dal Correnti a più amici, per meglio garantirne la stampa. La situazione, l'urgenza, la stessa indole del Correnti renderebbero perfettamente credibile siffatta combinazione.
69C. Cattaneo, Dell'Insurrezione di Milano, pag. 22.
70Carlo Casati, Nuove rivelazioni sui fatti di Milano, ecc. ecc. Hoepli, 1885.
71La nobile Elisabetta vedova Majnoni, figlia del generale Fontanelli, antico ministro della guerra sotto il primo Regno d'Italia.
72Antonio Casati, Milano ed i principi di Savoja. Torino 1859.
73In un volume bene scritto e bene pensato, Casa di Savoja e la Rivoluzione italiana, storia popolare degli ultimi trent'anni, il compianto prof. Giuseppe Riccardi ha pubblicato quel famoso proclama, omettendo l'inciso di cui abbiamo dato la storia. Infatti il suo capoverso dice così: “Seconderemo i vostri giusti desideri, fidando nell'aiuto di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di far da sè.„ Invece il Cantù (Cronistoria, vol. II, parte II) e il Besana (Storia della rivoluzione di Milano nel 1848) danno intiero quel capoverso, che forse il Riccardi ha tolto da qualche prima bozza del proclama, rimasta fra le carte d'archivio. E i nostri lettori vedranno agevolmente come in questo capoverso completato, l'inciso relativo a Pio IX, suggerito dal D'Adda, riveli, nella stessa evoluzione del periodo, i caratteri di un'aggiunta introdotta: “Seconderemo i vostri giusti desideri, fidando nell'aiuto di quel Dio che è visibilmente con noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di far da sè.„