Il Ritorno

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CAPITOLO DUE

Kevin guardava fuori da una delle finestre della navicella mentre lo spazio scorreva veloce, senza poter distinguere nulla, allungato e piegato per permettere al velivolo di passarvi attraverso con il potere dei suoi scudi. Lui, Ro e Chloe erano seduti insieme in una stanza che era aperta e ariosa, e quasi vuota. Con sua sorpresa, anche il generale s’Lara era lì.

Kevin tornò con la memoria al momento in cui il generale s’Lara gli aveva messo una mano sulla spalla dopo il processo.

“Abbiamo preso la nostra decisione. Pare che… pare che avrete tutti il permesso di stare tra noi. Verrete portati al nostro mondo di avamposto, e insieme cercheremo un modo per fermare l’Alveare. Spero solo che troveremo un modo per farlo.”

Kevin non poteva credere quanto fossero andati vicini alla morte. Si risvegliò dai suoi pensieri e si guardò attorno.

“Non avete bisogno di… non so,” disse, “di controllare la navicella?”

“Come se la mia navicella mi permettesse di dirle cosa fare,” rispose lei. “Noi lavoriamo con le nostre Intelligenze Artificiali. Non le soggioghiamo. Quello è un pensiero da Alveare.”

“Kevin e Ro non sono l’Alveare,” disse Chloe con tono accalorato, forse un po’ troppo.

“Non ho mai detto questo,” rispose il generale s’Lara. Però sembrava che li stesse osservando con attenzione.

Kevin pensava di poter capire. “Sta cercando di capire di più dell’Alveare, vero?”

Il generale esitò, ascoltando in quel modo che diceva che si trovava ancora in comunicazione con la sua Intelligenza Artificiale.

“Sì,” ammise. “Tu e il Puro… scusate, Ro, ne siete stati parte. Avete avuto accesso alla sua struttura ed essenza. Potete aiutarci a comprenderlo meglio. Potreste veramente essere in grado di aiutarci a batterli.”

“Non sono sicuro che si possano battere,” disse Ro. “Mi spiace, mi sento… senza speranze.”

“Ma sei riuscito a liberarti,” disse il generale s’Lara.

“Con l’aiuto di Chloe,” rispose Ro.

Kevin annuì. Senza Chloe, nessuno di loro sarebbe stato in grado di scappare.

“Voglio comunque sapere tutto quello che sarete in grado di dirci,” disse il generale. “Com’è essere parte dell’Alveare?”

Kevin non era certo di avere le parole per spiegarlo. Lo stesso voleva provare. “È come… c’è questa rete di connessioni, e ciascuna di esse è una cosa viva. È come essere parte di qualcosa di più grande, con la sensazione che niente conti se non l’intero.”

“È bellissimo,” aggiunse Ro. “Ma non abbiamo alcun modo per sentire quella bellezza. Non sentiamo nulla. Nessuna coscienza, nessuna felicità. L’Alveare è tutto.”

“Bene, questo significa che la negoziazione è esclusa,” disse il generale s’Lara. “Però ci potrebbe comunque essere qualcosa. Molto presto saremo arrivati.”

“Dove?” chiese Kevin. Non aveva idea di dove fossero diretti, e non aveva neppure considerato che stessero andando da qualche parte.

Lei fece un cenno e una delle pareti mutò, fornendo l’immagine di un pianeta. Sembrava piccolo sullo schermo, ma era un punto di colore luminoso in una veduta dello spazio altrimenti in bianco e nero. Era per lo più verde, in un modo che appariva strano se messo a confronto con il blu della Terra.

“Questo è Xarath,” disse il generale come spiegazione. “La maggior parte della sua acqua è sottoterra, ma la vita delle piante sboccia in superficie. Abbiamo una piccola base lì. Non abbiamo mai pensato che diventasse una casa per tutti noi, ma dovremo adattarci. Dicono che sia bellissimo.”

“Quanto ci vorrà per raggiungerlo?” chiese Kevin. Non aveva una reale comprensione di quanto velocemente si stesse muovendo la navicella. Era veloce come i velivoli dell’Alveare? Di più?

“Ancora qualche minuto. Abbiamo piegato lo spazio per avvicinarci, ma la maggior parte del ritardo è dovuto al tentativo di seminare le forze dell’Alveare che ci stanno inseguendo. Avremo bisogno di arrivare tra i primi sulla superficie. Venite con me, dovremmo andare a uno dei dispositivi di atterraggio.”

Per la seconda volta, il generale fece loro strada attraverso gli spazi interni della navicella. La gente si girava a fissarli mentre passavano, e mentre qualcuno sembrava essere in attesa di ordini da parte del generale, altri stavano decisamente guardando Kevin, Chloe e Ro. Non sembravano tutti amichevoli.

“Pare che non tutti siano d’accordo con il processo,” disse Chloe. A Kevin sembrava che fosse pronta a scagliarsi contro chiunque li guardasse troppo a lungo, o nel modo sbagliato. Vide che stringeva la mano del braccio modificato, come pronta a tirare un pugno.

“La gente ha la possibilità di non essere d’accordo,” disse il generale s’Lara. “Non siamo l’Alveare, dove tutti devono obbedire. Possono pensare quello che vogliono, ma abbiamo preso una decisione nel modo più onesto possibile, e dubito che qualcuno possa agire contro di essa.”

Kevin non aveva l’impressione che ne fosse del tutto convinta, ma del resto come poteva? Aveva ragione. A meno che non controllassero lì tutte le menti come faceva l’Alveare, non ci sarebbe mai stata perfetta armonia. Kevin preferiva che ci fossero persone che lo guardavano in modo strano che dover vivere senza i propri pensieri e le proprie scelte.

Lui e gli altri seguirono il generale fino a un hangar dove si trovavano un certo numero di navicelle più piccole, simili a frecce che aspettavano di essere sputate dalla bocca gigante della navicella. Il generale s’Lara li condusse verso una che era in parte annerita dal fuoco.

“Ecco. La mia navicella personale. Vi faccio vedere il pianeta. Andiamo”

L’interno della navicella era più strano dell’interno. Era come se fosse stato rattoppato e ricostruito così tante volte che non restava quasi niente di originale.

“Ci ho lavorato io stessa,” disse il generale s’Lara, e poi distolse ancora una volta lo sguardo, ascoltando. “Sì, va bene. Ci abbiamo lavorato noi. Sedetevi, che voliamo giù.”

C’erano sedie che sembravano più poltroncine che il genere di panche o posti a sedere che Kevin si sarebbe aspettato da un velivolo militare. Gli sembrava strano avere una tale comodità nella navicella di un generale.

“Com’è essere collegati a un’intelligenza artificiale?” chiese.

“È come essere due metà di un intero,” rispose il generale. “Possono darti più informazioni, reagire più velocemente e capire le cose che da sola non potrei mai comprendere, ma noi ci mettiamo l’emozione e l’intuito. Funziona.”

Kevin provava a immaginarlo, ma non ci riusciva. La cosa più simile che riusciva a pensare era la connessione all’Alveare, ma quella non era stata per niente simile a ciò che il generale s’Lara aveva descritto. Gli dava più l’idea di una perfetta amicizia, come quella che avevano lui e Luna sulla Terra, ciascuno che colmava le debolezze dell’altro, ciascuno che stava attento all’altro senza porre domande.

In quel momento sentiva talmente la mancanza di Luna da provarne dolore.

“Tenetevi forte,” disse il generale s’Lara, ma in verità il movimento della navicella era lineare e fluido e il velivolo uscì dal mezzo più grande scivolando verso la superficie.

Mentre scendevano verso il mondo sottostante, Kevin vide il verde della vegetazione davanti a loro, così grandioso che sembrava avvolgere ogni cosa. Per i primi secondi gli parve una gigantesca marea verde, ma poi iniziò a distinguere le diverse sfumature e trame all’interno. C’erano zone che sembravano essere distese d’erba, e molte altre che assomigliavano a interminabili foreste. C’erano macchie di verde più scuro, simili ad abeti e altri che assomigliavano a palme tropicali.

Quando furono ancora più bassi, Kevin iniziò ad avere la concezione delle proporzioni. Molti degli alberi sembravano di dimensioni normali, ma ce n’erano altri che erano alti come cattedrali, con fogliame che si allargava a coprire larghi spazi di terreno, cosicché il suolo di sotto sembrava quasi come una cosa di secondaria importanza.

“È un posto bellissimo,” disse il generale s’Lara. “Così tanta vita qui, ma mai pensato come mondo per noi. È troppo selvaggio, e troppe specie diverse ne disturberanno l’equilibrio.”

Portò la navicella in basso, e Kevin iniziò a vedere degli edifici annidati tra gli alberi, così ben nascosti che per alcuni secondi fu difficile scorgerli tra la vegetazione. Pendevano come grossi frutti, o stavano in equilibrio sui rami, così meravigliosamente costruiti da poter sembrare una componente naturale della foresta.

“Quante persone avete qui?” chiese Kevin.

“Qualche migliaio. Non abbastanza per una vera civilizzazione,” rispose il generale. “Anche con tutta la gente che abbiamo portato con noi… siamo un’ombra di ciò che eravamo.”

Dei veicoli sfrecciavano tra gli alberi, muovendosi rapidamente, sollevati dal terreno. Altri si spostavano più lentamente a livello del suolo, mascherati da mutevoli campi di colore che cambiavano a seconda della luce.

“Avete armi qui?” chiese Kevin. Voleva sperare che avessero qualcosa che potesse essere in grado di distruggere l’Alveare.

“Qualcosa,” disse il generale s’Lara. “Ci piace essere capaci di difendere i luoghi dove abbiamo delle basi, ma la difesa principale che abbiamo è la segretezza. Questo avrebbe sempre dovuto essere un posto nascosto.”

“Ma ora stiamo venendo qui,” sottolineò Chloe.

“Siamo disperati,” disse il generale s’Lara. “Siamo a corto di persone, a corto di posti, a corto di qualsiasi cosa, eccetto questo. Ci nasconderemo qui fintanto che potremo.”

“E se l’Alveare ci trova?” chiese Kevin.

Il generale s’Lara scosse la testa. “Li abbiamo seminati quando abbiamo iniziato a piegare lo spazio. Neanche loro possono rintracciarci a quelle velocità. A meno che tu sappia qualcosa che noi non sappiamo?”

 

Non c’era alcuna nota di sospetto nella domanda del generale, ma Kevin si sentì come se la donna non si fidasse pienamente di lui. Guardò verso Ro, che scosse la testa.

“L’Alveare ha rubato molte tecnologie prima, ma non sono in grado di rintracciare gli Ilari. È per questo che hanno avuto bisogno di te per trovare i loro segnali. Senza di te…”

“Senza di me non sarebbero mai stati capaci di distruggere il mondo in cui si sono imbattuti,” disse Kevin.

Il generale s’Lara scosse la testa. “Ci saranno anche altri che ti biasimeranno per questo, ma io no. Eri controllato, e ora siamo salvi.”

Volarono più avanti, in mezzo agli alberi, con le navicelle che trovavano spazio tra i tronchi per poi andare ad atterrare su grandi piattaforme che sporgevano dal lato di edifici costruiti in mezzo al verde. Così da vicino, Kevin vide che avevano davanti un’intera città.

La navicella toccò terra e loro scesero. All’interno della navicella di atterraggio, circondati dalle strette pareti, non c’era stato un vero senso dello spazio, ma ora Kevin poteva vedere la vera altezza di tutto quanto. Era così alto che l’aria sembrava rarefatta e gli faceva venire mal di testa, rendendolo frastornato e facendolo barcollare, leggermente instabile. Aveva il cervello sconvolto da quell’altezza.

“Andiamo,” disse il generale s’Lara. “Avevo annunciato il nostro arrivo mentre ci avvicinavamo, e la gente vuole conoscervi. Sono eccitati all’idea di persone che potrebbero liberarci dall’Alveare, e pensano che tu, Kevin, sia speciale.”

“Ora mi sento esclusa,” disse Chloe, ma non sembrava che lo intendesse sul serio.

Kevin le mise una mano sulla spalla. “Io penso che tu sia speciale.”

“Lo sei,” la rassicurò il generale s’Lara. “Se permetterete ai nostri scienziati di studiarvi tutti, avremo la potenzialità di imparare moltissimo.”

Chloe parve preoccupata. “Ne ho abbastanza di essere studiata, fino alla fine della mia vita.”

“Non vi costringeremo,” disse il generale s’Lara, e c’era una nota di comprensione nel suo tono. “Sarà una tua scelta. Ora andiamo. Vi mostro la base.”

All’interno era in tutto e per tutto impressionante come Kevin l’aveva considerata da fuori. I corridoi avevano le stesse scene impossibili che decoravano l’interno delle navicelle, ogni parete trasformata in una tela che pareva poter essere manipolata dalle Intelligenze Artificiali degli Ilari, dato che Kevin vide un alieno dalla pelle blu che armeggiava con il muro trasformandolo in una sorta di opera astratta mentre passavano. L’individuo si girò a guardarli e fece un inchino al generale.

“Oh, piantala Cler, sai che dovrei essere io quella che si inchina a te,” disse il generale.

Continuarono a camminare, e il generale iniziò a spiegare gli edifici in cui passavano man mano che procedevano.

“In teoria la gente prende le stanze di cui hanno bisogno per fare qualsiasi cosa stiano tentando, e ridanno loro forma per adattarle, ma tendono ad esserci anche delle aree comuni,” disse. “Ci sono spazi abitabili da ogni parte qui, in capsule che si diramano dal corridoio principale. Questi spazi sembrano vuoti. Potete avere questi.”

Era davvero tutto così casuale? Avevano bisogno di uno spazio e quindi ne prendevano uno? Il generale fece loro strada fino a un grande soggiorno open-space con divani e letti disposti attorno. L’intero spazio era vuoto e silenzioso, ma non sembrava sterile come Kevin aveva percepito per esempio l’Istituto, e gli mancava la precisa opulenza delle torri dorate dell’Alveare. Era invece comodo e accogliente, dando l’impressione di poter tranquillamente diventare la casa di qualcuno.

“Quindi entriamo così e prendiamo una stanza?” chiese Kevin, mentre si appoggiava a un divano sentendo una breve ondata di stanchezza.

“Come altro faresti?” chiese il generale, sinceramente confusa che ci potessero essere altri modi per fare le cose. Indicò un’apertura vuota sulla parete. “Qui è dove prendiamo il cibo. Sarà un po’ più lento per voi, dato che non avete le Intelligenze Artificiali, ma posso sempre occuparmi io di chiedervi quello che volete. Permettete.”

Si fermò un momento davanti all’apertura e… apparve un vassoio colmo di cibo. C’erano dei fili blu fumanti contornati da quelle che sembravano bacche rosse.

“La mia Intelligenza Artificiale dice che il laxatha dovrebbe andare bene per voi, ed è uno dei miei preferiti,” disse. “Ecco, assaggiate.”

Glielo porse e si sedette accanto a loro in un modo che sembrava strano per un generale. Chloe fu la prima a provare il piatto, e la sorpresa espressione di piacere sul suo volto fece capire tutto.

“Questo cibo è… dire buono non basta. È fantastico. Devi assaggiare, Kevin.”

Kevin prese un morso con fare esitante, restando stupefatto da quanto fosse buono il miscuglio di sapori. C’era solo una domanda nella sua mente, che andava ad aggiungere una nota un po’ strana al pasto mentre lo consumavano.

“Generale s’Lara,” disse, “perché ci sta servendo del cibo?”

“Perché siete nostri ospiti,” rispose lei.

“Ed è molto gentile da parte sua, ma avrebbe potuto mandare qualcun altro a farlo. Lei non ha riunioni o cose da dover fare?” Kevin aveva conosciuto alcune persone importanti, e non se le poteva immaginare a fare una cosa del genere. “Perché lei?”

Il generale s’Lara annuì. “Devo ammettere che ci sono un sacco di incontri che dovrei avere, ma la mia Intelligenza Artificiale si sta occupando di alcuni di essi. E poi stare qui con voi potrebbe essere uno dei compiti più importanti a cui dedicarmi in questo momento.”

Kevin per un momento non capì, ma poi si impensierì un momento. “Per tutto quello che potremmo sapere?”

“Non vi racconterò bugie,” disse il generale s’Lara. “Penso che voi tre possiate avere la chiave per questa faccenda. Siamo stati in grado di sconfiggere membri singoli dell’Alveare, possiamo farlo facilmente quando siamo in parità numerica, ma non siamo mai in egual numero. Loro continuano sempre ad arrivare, e peggio ancora non se ne curano. Ci lanciano addosso le loro creature senza preoccuparsi che muoiano o meno. Come si fa a sconfiggere qualcosa a cui non interessa di morire?”

Kevin non era sicuro di poter rispondere. Aveva usato lo stesso sistema contro gli Ilari quando avevano combattuto. Aveva lanciato loro addosso delle navicelle, considerando il loro desiderio di vivere come una debolezza da sfruttare.

“È la maggior forza dell’Alveare,” disse Ro.

“Il fatto che tu li conosca e sia stato capace di liberartene, potrebbe farci capire come effettivamente sconfiggerli. Potremmo essere realmente in grado di vincere questa guerra.”

“Ma non sappiamo nulla,” disse Kevin.

“Potresti non sapere ciò di cui sei a conoscenza,” disse il generale. “Per cominciare, cosa sai di questa tua abilità?”

Kevin scosse la testa. “Quasi niente. Sento dei segnali e posso tradurli. Vedo cose che devono essere tradotte e il mio cervello lo fa in automatico.”

“E questa cosa lo sta uccidendo,” si intromise Chloe con tono cupo. Le sue parole bastarono a rattristare Kevin riguardo alla prospettiva del conto alla rovescia che era ripartito nel suo corpo.

“Cosa intendi dicendo che ti sta uccidendo?” chiese il generale s’Lara.

Kevin fece per rispondere e nel frattempo si alzò in piedi. Il dolore lo colpì quasi all’istante e lui si rese conto che le cose che stava provando quando erano atterrati non erano stati solo i sintomi di ciò che l’aveva inseguito da quando era uscito dall’Alveare.

Si era abituato a ignorarli e l’aveva fatto anche quando il suo corpo aveva tentato di avvisarlo che c’era qualcosa che non andava. Ora sembrava che tutto lo colpisse all’improvviso. Lo stordimento lo travolse, facendolo ruotare su se stesso e portandolo a crollare sul pavimento, inizialmente stendendo le mani in avanti per cercare di sostenersi, ma cedendo poi a una fitta che sembrò contorcergli ogni angolo del corpo.

Insieme arrivò il dolore che gli fece esplodere la testa in una supernova di agonia. Era come se qualcosa gli si spezzasse dentro, e Kevin avrebbe gridato se avesse avuto ancora il controllo sulla propria bocca. Aveva già sentito quella perdita di controllo sul proprio corpo quando altri segnali l’avevano attraversato, ma questo era diverso. Questo non conteneva la promessa di un messaggio o di una risposta: l’unica promessa sembrava quella del buio che c’era al di là, che lo minacciava di sorgere e travolgere tutto.

Kevin poteva vedere Chloe, Ro e il generale s’Lara accanto a sé, le loro labbra che si muovevano mentre parlavano. Sembrava che Chloe stesse gridando qualcosa verso di lui, ma Kevin non sentiva nulla. Era come se si trovasse dall’altra parte di una tenda, dalla quale si allontanava secondo dopo secondo.

Stava morendo, e non c’era nulla che potesse fare per evitarlo.

CAPITOLO TRE

Luna si svegliò sbattendo le palpebre alla luce, e anche quello fu una sorpresa. Quando si era addormentata, si era aspettata di scivolare nel buio e non svegliarsi più, completamente consumata dai nanobot alieni che si stavano lentamente impossessando del suo corpo. Invece poteva ancora ricordare chi era, dove si trovava e tutti gli orrori che avevano colpito il mondo.

Fu solo quando il suo corpo si alzò senza che lei ci pensasse che si rese conto che qualcosa non andava.

“No!” gridò, ma l’urlo le uscì dalle labbra solo come uno sbuffo che si rifiutava di dare risposta ai suoi comandi. Ad ogni modo non erano suoi, per niente. Qualcun altro stava tirando i fili che la controllavano.

Si guardò attorno nel complesso in cui avevano combattuto contro tutti i trasformati e gli alieni, e Luna ebbe la sensazione di non essere lei sola a guardarsi in giro in quel momento. C’erano altre cose che stavano guardando attraverso i suoi occhi, prendendo decisioni per suo conto e dando comandi senza pensare a cosa ciò potesse procurarle.

Luna cercò di opporsi con più forza possibile a quei comandi, ma non fece nessuna differenza, come non aveva fatto nessuna differenza l’ultima volta che si era trovata ad essere controllata. Si alzò invece come una prigioniera nella sua stessa carne, mentre il suo corpo iniziava a camminare verso gli altri, costretta da pareti che erano costituite dai suoi stessi muscoli. Afferrò un lungo pezzo di metallo che era affilato come un machete o un coltello. Se così facendo si tagliò le mani, non se ne accorse.

Luna non capiva. Prima i trasformati aveva afferrato gente alla cieca cercando di convertirli, intontiti dalla mancanza di un diretto controllo. Questo però… le sembrava che qualcuno la stesse usando per qualcosa di molto più concentrato, qualcosa di molto più pericoloso.

Avanzò a grandi passi, e fu solo così facendo che si rese conto di dove era diretta. Ignazio, Lupetto, Barnaby e Leon erano davanti a lei: tutti coloro di cui aveva bisogno la resistenza. Gli alieni avevano intenzione di usarla come coltello da piantare nel cuore della loro organizzazione, con lo scopo di uccidere le sole persone che veramente sapevano come poter fermare ciò che gli alieni avevano fatto. Se gli alieni fossero riusciti a ucciderli, allora chi altro avrebbe saputo come far funzionare la cura?

Luna tentò di gridare un avvertimento, ma non ebbe alcun effetto. Non uscì nessun suono, e anche se il cambiamento dei suoi occhi ora era sicuramente ovvio per chiunque la guardasse, nessuno stava guardando. Erano tutti troppo occupati a riprendersi dopo la battaglia, sistemando le ferite e tentando di trovare del cibo per la gente che per settimane non aveva provato fame o sete.

Poi Bobby, il cane da pastore, corse verso di lei ringhiando e la morse.

Luna non sentì niente, perché a quello stadio della trasformazione non poteva provare nessuna sensazione. Abbassò lo sguardo sul cane e tirò indietro una gamba, pronta a tirargli un calcio. Sapeva che l’avrebbe fatto, nonostante tutto il suo sforzo per trattenersi. Bobby arretrò, ringhiando e digrignando i denti come un lupo aizzato contro un gregge. Luna avanzò verso di lui sollevando ora il grosso pezzo di metallo.

“Bobby, cosa stai facendo?” chiese Lupetto avvicinandosi.

Luna si girò verso di lui, facendo roteare l’arma che teneva in mano e riuscendo a fargli un taglio sulla pelle anche se lui indietreggiò con un salto. Ricordava quel genere di velocità e quel genere di forza, ma non aveva mai avuto la possibilità di usarle per colpire qualcuno prima d’ora. Non si era resa conto di quanto fosse potenzialmente pericolosa.

 

“Luna, che succede?” chiese Lupetto, schivando un altro colpo. Luna lo vide mentre la fissava. “Oh no. No!”

Luna si lanciò contro di lui e gli altri con tutta la sua nuova velocità, esalando il vapore anche se sapeva che non avrebbe fatto nulla alle persone a cui era già stato iniettato l’antidoto. Un uomo le si parò davanti e lei lo colpì con il suo pezzo di metallo, spingendo nel contempo un’altra persona che era davanti a lei.

“Si è trasformata!” gridò Lupetto nel caos.

Poi fece l’impensabile e portò la mano alla pistola.

Luna si stava già lanciando addosso a lui e lo spinse indietro, facendogli cadere la pistola dalla mano, così veloce da non riuscire quasi a credere alla rapidità con cui si stava muovendo.

“Prendetela!” urlò Ignazio nella confusione.

Luna tirò un colpo verso di lui, sentendo che la necessità di obbedire all’Alveare aveva la meglio su ogni suo tentativo di opporre resistenza. Dentro di sé stava gridando, ma non ne veniva fuori che un debole sibilo. Una dozzina di altre persone le furono addosso in quel momento. Luna ne spinse via una, lanciandola con più forza di quanta avrebbe mai potuto credere possibile. Poi cercò di colpirne un’altra.

Lo stesso, sempre più gente le si ammassò contro, e per quanto lei sentisse la forza e la ferocia della propria condizione, si trovò bloccata tra loro. Erano troppi per poterli combattere. Soffiò fuori il vapore, nella vana speranza di poter trasformare alcune di quelle creature, di quegli umani… e mentre ci pensava si interruppe. Lei non era ciò che gli alieni volevano che lei fosse. Non avrebbe perso il collegamento con se stessa.

“È cambiata,” disse Lupetto scuotendo la testa. “È andata. Abbiamo perso Luna.”

Aveva ancora la pistola in mano, e il braccio sembrava tremare adesso, come se stesse lottando contro una decisione da prendere. Luna capiva perfettamente quale fosse quella decisione, e la odiava.

“Non dire così,” disse Leon. “Potrebbe ancora essere là dentro.”

Luna avrebbe voluto urlare che lei era là dentro. Voleva che Lupetto vedesse che lei c’era ancora, che… beh, non sapeva cosa sarebbe successo poi.

Invece vide Lupetto sollevare la pistola.

“So come si sta quando si diventa una di quelle cose. Anche se Luna è là dentro, non ci resterà ancora a lungo. Quegli esseri ti succhiano via la tua identità.”

“Ma adesso è lì!” disse Leon. “Possiamo ancora salvarla. L’esplosione…”

“L’esplosione ha convertito tutta la gente che c’era nei paraggi durante la battaglia, ma non ha salvato Luna,” disse Lupetto. Luna poteva vedergli le lacrime negli occhi ora. “L’abbiamo persa, e ora devo fare… devo fare l’unica cosa che si può…”

Luna sapeva a cosa stava pensando: che era la stessa cosa che con suo padre, Orso; che non c’era altra scelta, che le stava risparmiando un destino peggiore della morte. Lo stesso, le stava puntando contro la pistola, e lei non lo sopportava. Come poteva farle una cosa del genere? Come poteva pensare, anche solo per un momento, che fosse la cosa giusta da fare?

“Aspetta!” gridò Ignazio, che era l’ultima persona che Luna si sarebbe aspettata di vedere mettersi in mezzo tra lei e la pistola. Il chimico ed ex produttore di droga non era altro che un codardo.

“Levati di mezzo,” disse Lupetto con tono secco.

“Possiamo ancora salvarla,” insistette Ignazio.

“Se non è stata salvata nel momento dell’esplosione…”

“Perché si trovava nel mezzo. Nell’occhio del ciclone!” disse Ignazio. Non si spostò. Luna non si sarebbe aspettata che lui, tra tutti, affrontasse quel genere di pericolo. “Non significa che non possiamo salvarla. Abbiamo solo bisogno di …”

“Cosa? Di ricreare l’esplosione?” chiese Lupetto, e Luna avrebbe voluto poter asciugare le lacrime che gli vedeva negli occhi, se non altro per il motivo che le generava. “Ricreare un’esplosione casuale di energia aliena, modificata nella corretta frequenza di quando ha colpito i cristalli? Pensi che non stessi ascoltando quello che dicevi, Ignazio? Se avessi pensato che ci fosse un modo…”

Tirò il grilletto della pistola e Luna vide la polvere sollevarsi vicino ai suoi piedi. Il suo corpo controllato non sussultò, non mostrando la minima reazione.

“Questo era un avvertimento, Ignazio,” disse Lupetto, e Luna poté sentire la sicurezza nella sua voce. “Spostati.”

Luna cercò di muovere il proprio corpo in modo che Ignazio non fosse nella linea del fuoco, ma era imprigionata nella propria carne oltre che dalle mani di coloro che la trattenevano. Loro volevano che questo accadesse. Volevano essere sicuri che i trasformati venissero eliminati.

“L’esplosione ci ha permesso di travolgere i nanobot che hanno contribuito alla trasformazione di centinaia di persone,” disse Ignazio, “ma possiamo ancora trovare una cura per una persona alla volta. Abbiamo solo bisogno di elaborarla.”

Luna vide Lupetto esitare davanti a quell’affermazione. Sembrava essere l’unica cosa ad avere quell’effetto su di lui.

“Puoi davvero farlo?” chiese.

“Non qui,” ammise Ignazio. “I danni procurati dalla battaglia sono ingenti, ma tutto ciò che mi serve è un laboratorio con la giusta attrezzatura, e qualche pezzo di macchinario specifico.”

“E nel frattempo dovremo stare tutti qui a tenere ferma Luna per evitare che ci ammazzi?” chiese Lupetto.

“Possiamo costruire qualcosa per rinchiuderla,” disse Barnaby. Sembrava che ci stesse già lavorando, sollevando pezzi di metallo dai resti di un trailer per motociclette come se potesse già vedere nella sua testa come assemblarli.

“E lei attirerà qui tutti gli alieni che si trovano anche a centinaia di chilometri da qui,” disse Lupetto.

Luna capiva quello che intendeva dire. Le creature che la controllavano avrebbero visto tutto attraverso i suoi occhi. Avrebbero saputo dove mandare rinforzi.

“Faremo tutto da soli,” disse Ignazio. “Glielo dobbiamo, Lupetto, e ti prometto che possiamo riportarla tra noi.”

Lupetto rimase fermo, ma Luna aveva visto che ormai aveva deciso. Forse avrebbe dovuto essere riconoscente che non intendesse ucciderla. Forse avrebbe dovuto provare della pietà per le dure decisioni che aveva già dovuto prendere. Invece tutto quello a cui poteva pensare mentre lo vedeva lì era che aveva avuto intenzione di ucciderla. Poco prima era stato davvero sul punto di ucciderla.

“Va bene,” disse Lupetto arretrando. “Va bene.”

Luna continuava a sbattere i denti e ringhiare, incapace di contenersi, contro la gente che la teneva ferma. Era in tutto e per tutto ciò che Lupetto temeva, ma era anche di più. Solo non aveva modo di farlo sapere alla gente. Poco più in là, Barnaby stava lavorando al serraglio progettato per contenerla. Sembrava una specie di gabbia, fatta con parti trafugate dal caos generato dalla battaglia.

Prese forma lentamente, con attenzione, un pezzo dopo l’altro. Man mano che la cella veniva preparata, Luna si sentì gradualmente andare a pezzi. Sentiva i ricordi che scivolavano via nei meandri del suo essere in un modo che le suonava fin troppo familiare. Lo aveva provato prima, la prima volta che era stata trasformata, con frammenti di sé che si perdevano non appena si concentrava su qualcos’altro, impossibili da afferrare, impossibili da trattenere, come pesci scivolosi che sfrecciavano via e le scivolavano tra le dita.

I ricordi dei suoi genitori si riversarono in una sorta di vaga consapevolezza, con Luna che era incapace di ricordare un solo momento con loro, un singolo istante passato a ridere a casa o a discutere per le faccende domestiche, o addirittura solo seduti insieme a mangiare. Luna sapeva quali fossero i fatti della sua vita, ma non riusciva a richiamarli alla memoria. Non riusciva a ricordare sul serio come fosse stato essere a scuola, o stare seduta a guardare la TV, o stare fuori, o…