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Rinaldo ardito

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CANTO I

 
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....
 
I
 
Così poteansi ritenere appena
I cavalier di non entrar la ciuffa11,
E a ciascuno il tardare era gran pena,
Nè può star fermo e si apparecchia e buffa;
Di quei si parla che hanno animo e lena,
Chè a un vil codardo incresce ogni baruffa,
Come chi va alla forca, e che prolunga,
Perchè quanto più può tardi vi giunga.
 
II
 
Artiro e Salomone alla avanguarda,
L'uno Affricante, e l'altro Cristiano,
Stan per ferirsi in punto, e ciascun guarda
Al segno general del capitano;
Or dato il segno, alcun più non ritarda,
E all'inimico va cum12 l'arme in mano;
Ma prima ch'entri in così orribil guerra,
Feraguto vo' trar dall'aqua in terra.
 
III
 
Ormai tanto che dentro vi è caduto,
Che non dovrebbe aver di ragion sete;
Sapete come cade13 Feraguto?
Cum quale astuzia cade augello in rete;
Egli avea già nelle aque il cuor perduto,
Nè ad altro pensa che alla strema quiete,
Che essendo armato, e d'armi di gran pondo,
Non potendo nuotar, discese al fondo.
 
IV
 
Nè crediate ch'al fondo già restasse,
Anci14 di là dal fondo fu tirato,
Che una dama gentil subito il trasse
Fuora delle acque in luoco assai più grato;
Nè già pensò che 'l ciel tanto lo amasse15,
Vedendosi nelle onde trabuccato;
Ma il cielo il tutto a suo modo dispensa,
E spesso all'uomo avvien quel che non pensa.
 
V
 
Come chi per errore o per disgrazia,
Cui sotto il ceppo ha il col16 per esser morto,
E fatta gli vien poi subito grazia
Prima che moia o per ragione o torto,
Che attonito rimane e il ciel ringrazia,
E quasi muor di subito conforto:
E così appunto a Feraguto accade,17
Vedendosi ritrar dove pria cade18.
 
VI
 
Fu in una ciambra19 il cavalier condutto
Che tutta di cristallo era smaltata;
Il palco tutto a specchi era costrutto,
E intorno intorno tutta ad or frissata20;
Vedendosi il barone ivi ridutto,
Gli fu tal sorte allor non poco grata,
E tutto che suspetto ancora stava,
Pur più ch'in l'umide acque ivi sperava.
 
VII
 
E volto Feraguto alla donzella,
Deh dimmi, dama, disse, se ti agrada,
Chi sei, e come è qua stanza sì bella,
Che in fondo alle acque mi par cosa rada?21
A Feraguto allor rispose quella:
Sappi ch'io fui nemica a quella Fada22
Che poco anzi occidesti, e d'ogni intorno
Faceva a' circumstanti iniuria e scorno.
 
VIII
 
E quella son che ti donai quel tanto
Lucido, adorno e prezioso scuto
Cum che vinto hai la Fada e ogni suo incanto,
A te di onore e a' circumstanti aiuto;
E de infiniti sol ti puoi dar vanto
Avere un tal triunfo oggi ottenuto,
Di che grato non solo agli uomin sei,
Ma fatto ne hai piacere insino a i Dei.
 
IX
 
La Fada di coloro era nemica,
Che d'altre che di lei fussero amanti;
Anci ogni industria usava, ogni fatica
Per rovinarli; e ben ne ha occisi tanti,
Che indarno è lo espettar, baron, ch'io dica
Quanti ne ha uccisi la malvagia, e quanti
Presi e in pregione morti per disagio,
Vetando loro il cibo, e il stare ad agio.
 
X
 
Onde tanto costei Venere adonta
Che sol di lei cercava aspra vendetta,
E23 a tale impresa in fin persona pronta
L'amorosa mia don24 gran tempo espetta;
Ma solo hai vendicato ogni sua onta,
E però ne serai persona eletta,
A Vener grato, e per il tuo valore25
Fortunato serai sempre in amore.
 
XI
 
E quantunque infelice per adrieto
Sempre sii stato in l'amoroso laccio,
Nell'avenir serai jucundo e lieto,
Poi che distolte26 ne hai di tanto impaccio;
E perchè intendi quel che ti è secreto,
Quel che richiesto me hai io non ti taccio:
Sappi che ninfa son nasciuta in l'acque,
E di questo liquor sto corpo nacque.
 
XII
 
Delle Naiade son la più onorata,27
(Che così d'acqua son le ninfe dette)28
Liquezia ho nome, e a Venere dicata,
Sono delle sue care e più dilette,29
E a te fui col bel serto mandata30
Per animarti a far le sue vendette;
Questa è mia stanza: e qui poserà tanto
Ch'io torni a rivederlo in l'altro canto.
 

CANTO II

I
 
Benchè da poi che 'l Redentor del mondo
Dimostar31 volse un sol Dio trino et uno,
Ogni idol falso32 rovinasse al fondo,
Pur fra' pagani ancor ne restò alcuno;
Che li33 altri Dei, eccetto il ver, secondo
Debbe di nuoi34 fedel creder ciascuno,
Erano di Pluton seguaci rei,
Che la gentilità chiamava Dei.
 
II
 
Ma per la morte, e pel misterio sacro
Della acerba passion del Verbo eterno,
Qual segnò i suoi di quel santo lavacro
Che lava in nuoi ogni peccato interno,
Restò a Plutone il mondo acerbo et acro,
E ritrarse gli fu forza all'Inferno;
Nè falso alcuno Idio restò a' cristiani,
Ma qualche illusion fra li pagani.
 
III
 
E però a alcun di vuoi strano non paia
Se a Feraguto quella ninfa apparve,
Qual si chiamava dell'altre primaia,
O fusser corpi veri o finte larve,
Pur parea corpo quella ninfa gaia,
Se con qualche ragion debbo parlarve:
Non sciò35 come altro giudicar si possa,
Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.
 
IV
 
Toccavassi36 ella e ragionar se odiva,
E porse a quel baron37 lo illustre scuto,
A cui, da poi che 'l suo parlar finiva,
Rispose allor sagace Feraguto:
O sii donna mortale, o eterna diva,
Eternamente ti sarò tenuto,
Che in dui perigli, fuor d'ogni speranza,
In l'un scuto mi desti, in l'altro stanza.
 
V
 
Ma qui se fai ch'a Venere io sia grato,
Nè mi trovi in amor tanto infelice,
Ch'io non vi fui giamai aventurato,
Pur ch'io vi fussi un tratto almen felice,
Io mi reputarei sempre beato.
Che tanto un sol piacere a un miser vale,
Che gli rimette39 ogni passato male.
 
VI
 
Ma non sciò, ninfa,40 se ragione o errore
Sia, che sperar mi fa di questo puoco:41
Come esser può che a quella Dea d'amore,
Che altrui suole infiammar, piaccia tal luoco?
Esser non può che in umile liquore
Produr si possa, e conservarsi, il fuoco,
Il fuoco che più al cor d'ogni altro preme,
Che mal pon stare dui contrari insieme.
 
VII
 
Ben mostri, alto baron, vivace ingegno,
Disse la dama, e razional discorso,
Che cum la forza uniti ti fan degno
Di conseguir d'amor dolce soccorso;
Spera, che fine arai al tuo disegno,
E alla sventura tua42 porrai il morso,
Quanto ad Amore e Venere si spetta,
Benchè tua mente in ciò dubbia e suspetta.
 
VIII
 
Ma dubitar non dei, che 'l fuoco pasce
In umido43 liquore e si conserva,
Come in vuoi il calor nativo nasce
In radicale umor, che in vita serva
Nel materno alvo l'uomo e nelle fasce,44
E sempre umor da morte lo preserva;
E in la lucerna piccoletta fiamma
In oleo e in altro umor se aviva e infiamma.
 
IX
 
Però Venere infiamma e si diletta
Di quello umor che sta col caldo insieme,
Anci nel mar di spuma fu45 concetta
Venere in cambio di genital seme;
La cosa non dirò, baron, perfetta,
Però che l'onestà la lingua preme,
Et a una donna, ancor che meretrice,
Lo inonesto parlar sempre desdice.
 
X
 
Il viver di Saturno, e ciò che fece
Al padre suo, mi converria narrarte;
Ma questo ad uomo più che a donna lece;
Bastammi46 a dir la più opportuna parte,
E che come la fiamma in oleo o in pece,
Così in l'umor stia il caldo, dimostrarte;
Nè ti sia cosa nova e inusitata.
Che una Naiade a Vener sia dicata.
 
XI
 
O felice colui che intender puote
Il secreto poter della natura!
O quante cose sono al mondo ignote
Che l'uomo di sapere ha puoca cura;
E se fussero a nuoi palesi e note
Procederia ciascun cum più misura.
Da te ben resto chiaro e resoluto,
Rispose a quella dama Feraguto.
 
XII
 
Ma pregote, dapoi che mi hai promesso
Favorire47 in amore i miei disegni,
Che quando un tanto don mi fia concesso
Di amar cum frutto, me ne mostri segni;
Che sempre duolse, puoi48 che in speme è messo,
A cui come sperava non li avegni:
Sicchè, dama gentil, fa' poi ch'io sapia
Quando tal grazia in mia persona capia.
 
XIII
 
Rispose allor la vezzosetta dama:
Io sempre fui fedele a chi mi crede,
E Vener anco, e chi infedel la chiama,
Non ben dicerne49 quel ch'amor richiede;
Fidelità conviensi a chi bene ama,
E dir si suol che Amor sempre vuol50 fede;
Ma acciò ch'in breve il tuo desir consegui,
Conviene che più oltre ancor mi segui.
 
XIV
 
Rispose quel baron: guidami pure,
Se ben volessi, giuso ai regni stigi,
Che disposto51 mi son, dama, condure
Dove ti piace pronto a' tuoi servigi.
Ma mi bisogna52 l'animo ridure
Dove lassai, io credo, Malagigi,
Il qual, se vi rimembra, in l'altro canto
Vi lassai cum ragion jocondo tanto.
 
XV
 
Io vi lassai di ciambra già partito
Della regina, e l'uno e l'altro lieto,
Che tanto l'uno a l'altro era gradito
Che ciascun di essi ne restava quieto;
Desidra la regina che finito
Presto sia il giorno al suo piacer secreto,
E sol la notte a lei felice espetta,
Che Amore è cieco, e notte gli diletta.
 
XVI
 
E senza altro pensare, un suo fidato
Accorto servitor chiamò quel giorno,
A cui disse, se sei, come hai mostrato,
Sempre nemico a chi mi vuol far scorno,
Prego che vadi più che puoi celato,
E Orlando trovi cavaliero adorno,
E nostro capitan, se sciai qual sia,
E questa gli darai da parte mia.
 
XVII
 
E una lettera in mano al messo porse,
Che del suo amore il conte reavisava;53
Dopo molte proferte, il servo corse
Al finto non ma al ver conte54 di Brava:
Il conte poi che del sigil si accorse,
La lettra prese, e altro non parlava,
Anci notando55 il servo, in man la piglia,
In atto d'uom che assai si meraviglia.
 
XVIII
 
Sciolsella56, e prima sotto57 lesse
Il nome di chi a lui la scrive e manda;
Subito il resto a leger poi si messe
Di tal tenore = A te si aricomanda,
Conte, colei che per signor ti ellesse,
E sol ti apprezza, e solo ti dimanda;
Pregate, come la notte passata,
Questa altra ancor ti sia racomandata58.
 
XIX
 
Rimase il conte alle parol suspeso,
E di notte non scià, nè de che scriva;
Ma pur per coniettura ha in parte inteso
Quel che chiedea la donna, e le agradiva;
Scià ch'ella già lo amava; onde compreso
Ha che di novo in lei lo amor si aviva;
Ma pur di quel che ha letto assai si ammira,
E di novo la lettra or lege, or mira.
 
XX
 
E alla proposta subito rispose,
E rescrisse una a lei di tal tenore:
Regina mia, nelle importanti cose
Vostre del regno sol vi mostro amore;
Ma in altre trame occulte et amorose,
Non fui mai vosco; onde pigliate errore:
Nè sta notte nè mai giacqui cum vui;
Credo ch'in cambio mio godesti altrui.
 
XXI
 
Diede la lettra il conte al fido messo,
Che alla regina appresentolla in mano;
Ella vedendo il servo, al primo ingresso
Allegrossi, ma poi fu il gaudio vano,
Che poi che della lettra intese espresso
Tutto il tenor, le parve il caso strano
D'esser schernita, e che ciò59 niegi il conte,
Che pure il vide seco a fronte a fronte.
 
XXII
 
E cominciò a dolersi la regina
Allor del conte assai cum voce pia;
Lacrimando diceva: ahimè mischina,
A chi dei l'alma e la persona60 mia!
Ad un che fu la notte, e la mattina
Dimostra ingrato che più mio non sia;
E a me che io il vidi, e sciò che fu certo ello
Non si vergogna dir, che non fu quello.
 
XXIII
 
Nol vedeste, occhi vui, che le fattezze
Avea del conte? io sciò che non errasti;
Ora son queste, Orlando, le prodezze
Che per mio amore usar prima pensasti?
Se pur non ti piacean le mie bellezze,
(Che poco sono) a che, crudel, le usasti?
A che sì piccol tempo le godesti,
E da me, ingrato, come vil ti arresti?
 
XXIV
 
Forse ch'io non ti son piacciuta quanto
Credevi prima, ahimè, solo a vedermi?61
Ma perchè, ingrato, tante volte e tanto
Quella notte tornasti a rigodermi?
Se allor bella non fui, come di manto
Adorna poteva altri e tu62 tenermi?
E se a me più tornar pur non volevi,
Negarmi esser lì stato non dovevi.
 
XXV
 
Dall'altro canto il conte Orlando stava
Suspeso assai, nè scià quel che si dire;
La cosa ben come era imaginava,
Ma non la scià per lo ben colorire;
Che essa l'avesse in fal preso pensava
Per cieca volontà, per gran desire,
Nè scià chi possa avere audacia presa
Di essere entrato in una tanta impresa.
 
XXVI
 
Non scià come essa lui in fal pigliasse,
Nol cognoscendo al viso e al proprio aspetto,
Nè scià ch'in faccia lui rapresentasse
Salvo Milone, a lei figlio diletto,
Qual non si crede63 che alla madre usasse
Tanta sceleritade, tanto diffetto64,
E stette in tal penser tutto quel giorno;
Ma il conte io lasso, e a Malagigi io torno65.
 
XXVII
 
Credendo Malagigi ritornare
Alla regina la notte seguente,
Nel mezzo di quel dolce lamentare,
Che faceva ella del suo error dolente,
Andolla Malagigi a visitare,
Che non sapea della regina66 niente
Quel che dolesse, anci a lei venne allora
Cum la sembianza di quel conte ancora.
 
XXVIII
 
Fu dalla più secreta camariera
Portata alla regina la novella,
Come ad essa il gran conte venuto era
Per visitarla, se piacesse ad ella;
Tutta turbossi la regina in ciera,
E in mille parti il sdegno la martella,
E dubita di dui qual debbia fare,
O se lo escluda, o pur lo lassi entrare.
 
XXIX
 
Non scià quel che si far, tutta è commossa,
Non scià se contradica o se consenta,
Ma l'amor più che l'ira ebbe gran possa,
Sì che a lassarlo entrar restoe contenta;
La camariera ad introdurlo mossa,
Avanti alla regina lo appresenta,
E Malagigi non sapendo il fatto,
A lei si appresentò cum allegro atto.
 
XXX
 
Ma ella cum sembiante assai mansueto,
Cum occhi mesti a guisa di turbata,
Non ben rispose a Malagigi lieto
Come pensò vedere alla tornata;
Ma non per questo se ritrasse adrieto;
Ma dimostra egli faccia allegra e grata,67
E accarecciar68 la donna allor non resta,
Pensando che per altro ella stia mesta.
 
XXXI
 
Ma senza altro parlarli, la regina
La lettera del conte al baron diede;
Presella69 quello, e subito divina
Dove il gran sdegno di colei procede:
E più cognosce ancor la sua ruina
Che la lettra del conte in scritti vede;
La lettra lesse, e poi rivolto a lei
Disse, regina, per un scherzo il fei.
 
XXXII
 
Tutta mutossi la regina allora,
E serenò la fronte e il suo bel ciglio,
E più che mai Orlando la innamora,
E subito le fa mutar consiglio;
Ma quietata non bene era ella ancora,
Quando a lei corse un suo fedel famiglio,
E dissele, regina, il tuo figliuolo
Si trova in gran contrasto e in maggior duolo.
 
XXXIII
 
Il conte Orlando nostro defensore,
Venuto da ponente70 ove il sol monta
Per defendere il stato e il vostro onore,
Credo che ricevuta abbia qualche onta;
E dir l'ho udito al tuo figliuol: Signore,
Se sta persona mai per te fu pronta,
Se mai io satisfeci al tuo desire,
Piacemmi71 assai, ma ormai mi vo' partire.
 
XXXIV
 
Di questo assai si duole il tuo Milone,
E li repugna, e consentir non vuole,
E vie più perchè Orlando la cagione
Tace, nè si contenta e non si duole;
Ma che offeso sia stato il gran barone
Conoscessi72 alla ciera e alle parole:
Però prega Milon ch'ivi tu vegni,
E che lui, se il puoi far, fra nuoi ritegni.
 
XXXV
 
Poco cervel coprir de' la tua fronte,
E che l'hai dove la civetta73 il gozzo:
Or non è qui a me presente il conte,
Che ti sian cavi li occhi, e il capo mozzo?
Rispose la regina; e a me raconte74
Una tal falsità, ribaldo e sozzo:
Sei cieco, over bevuto hai troppo vino,
Che qui non vedi Orlando paladino?
 
XXXVI
 
Guarda il famiglio, e resta stupefatto,
E cognosce che quello è Orlando apponto:
Io non sciò, disse, come vada il fatto,
E come pria di me costui sia gionto;
Io il vidi, io lo udii pur, e corsi ratto,
Regina, a te, che sciai quanto sia pronto;
E non sciò come sia possibil questo,
Che egli di me sia giunto a te più presto.
 
XXXVII
 
E partito75 porrò cum chi lo accetta,
Che quel ch'io vidi, Orlando, è in sala ancora,
E parla cum Milon, che così in fretta
Venni, che certo ancor cum lui dimora.
Perchè a chi il fatto attien sempre suspetta,
Molto turbossi la regina allora;
A Malagigi guarda, e si dispone
Veder di tal novella il parangone76.
 
XXXVIII
 
Malagigi, che più non può coprirse,
Dispose allor finir la cosa in riso,
E volto al servo disse, che forbirse
Debbassi77 ben di nuovo e li occhi e il viso,
E che debbia correndo indi partirse,
E ben cerchi mirare attento e fiso
Se più dove diceva78 il conte vede,
E poi ritorni, e facciane lor fede.
 
XXXIX
 
Subito il servo senza altra risposta
Ritornò in sala ove ancor stava il conte,
A cui il servo assai vicin si accosta,
E fra se dice: io pur ti miro in fronte;
Pur veggio che quel sei; ora a sua posta
Mi accusi la regina, e facciammi79 onte,
Ch'io dubito assai ch'essa e il suo figliuolo
Non sian traditi, e ne ricevan duolo.
 
XL
 
E nulla dire allora a Milon volle,
E fra se parla, e torna alla regina,
Et a lei disse: chi 'l cervel mi tolle,
Peggio80 che non veggio io quello indivina;
Tu sei troppo, regina, a creder molle,
E ne potria reuscir tua gran rovina;
Orlando è in sala, e questo è certo assai,
E a vederlo tu ancor venir potrai.
 
XLI
 
Rispose la regina: io vo' vedello,
Ch'io voglio, s'io non trovo, castigarti;
E tu, conte, se tu però sei quello,
Prego che qui mi espetti e non ti parti:
Rispose Malagigi, io son pure ello,
E per meglio voler certificarti,
Qui dentro chiuso voglioti espettare,
Fa' pur quanti usci vuoi di fuor serrare.
 
XLII
 
Fu chiuso Malagigi, e Galliciana
Andò dove è Milone e il conte in sala;
E visto il conte, assai li parve strana
Tal cosa, e come a occel le cascò l'ala;
Chiama in amore ogni sua opra vana,
L'ira in lei81 cresce, e il desiderio cala;
Volsessi82 disperar, volse morire,
Poi che così si vide allor schernire.
 
XLIII
 
Ma come sempre saggia e discreta,
Farne vendetta al tutto si dispose,
Ma per suo onore più che può secreta,
Ordine buono al suo disegno pose;
Molti de' suoi armò, che non gliel vieta
Alcun, che potea queste e maggior cose,
E condusseli ove era il finto Orlando,
Per legarlo prigione al suo comando.
 
XLIV
 
Ma intanto Malagigi la mala arte,
Buona per lui, aveva oprato solo,
Che solo a un comandare e aprir di carte
Passava i muri, e se ne andava a volo;
Effigie muta,83 e quando vuol si parte,
E il gaudio in pene84 muta, in gaudio il duolo:
Egli uscì fuora, e85 in cambio suo rinchiuso
Un spirito lassò da lui bene uso.86
 
XLV
 
Nè vi ammirate se tal cosa fa,
Che questo, a lui ch'è mastro, è cosa picola;
Un libro consecrato il barone ha
Che tutti i segni di tale arte articola;87
In quello ogni scongiura e forza sta
Che descrive Azael88 e la Clavicola,
E però dal demonio egli è obedito
Secondo le occorrenzie e l'appetito.
 
XLVI
 
Partisse allora egli per più destra89
Che puote, che sapea quel che importava;
Non sciò se uscisse per uscio o finestra,
O se demonio o spirito il portava;
Da l'altra parte la regina allestra90
Li armati suoi, e nella ciambra entrava,
E addosso a Libichel,91 ch'in propria forma
Del conte stava, corse quella torma.
 
XLVII
 
Tutti cum gran furor92 contra a lui ferse,
Per far della regina ogni93 comando,
Che tutta l'ira contra a quel converse,
Che era in la ciambra, come a finto Orlando;
Ma Malagigi l'animo non perse,
Anci rispose bene al lor dimando,
Che a chi per darli o lo pigliar s'accosta,
Cum pugni e calci fa buona risposta.
 
XLVIII
 
Gridava ognun: pigliamo sto mal guerzo,94
(Che così è il spirto in forma del gran conte)
Ma Malagigi lor fa stranio scherzo,
E a chi una gota rompe e a chi la fronte,
Dui fece tramortire, e occise il terzo,
E contra li altri ha ancor sue forze pronte;
E ad un di lor, che gli contrasta invano,
Tolse per forza un gran baston di mano.
 
XLIX
 
Questo vedendo li altri, e che ben li onge,95
Ciascun sta largo, e il guardano alle mani;96
Dàlli dàlli, ciascun grida da longe,
Come quando talor son tocchi i cani,
Che abaglian97 pure, e alcun non morde o ponge,
E vanno intorno oppur stanno lontani;
Così fan quelli, e gridano sì forte
Che udito già l'avea tutta la corte.
 
L
 
Milon vi corse, il conte, e il gran Fondrano,
Rosadoro, Arideo cum altri insieme;98
Ciascun teneva o brando o spiedo in mano,
Che chi il caso non scià di peggio teme;
Allora Libichel si fa più strano,99
Il baston gira, e di gran furia freme
Per provocar più il conte e li altri in ira,
Corre al nemico, grida, salta e gira.
 
LI
 
Intanto coi compagni il conte gionse,
E il tempo prese allora Libichello,
Per non mostrarsi Orlando a Orlando,100 assonse
Novella forma, come gionse quello;
Effigie da baston proprio si agionse,
E divenne di uno uomo uno asinello;
Io non sciò se Turpino in ciò mi inganni,
Fu uno101 asinello di ben sopra otto anni.
 
LII
 
Rignando cominciò giocar de calci,
E porre ivi ciascuno in gran conquasso;102
Fra color si dimena, e con gran balci103
E correr, ne va assai più che di passo;
Non fa tempesta, quando scorza i salci,104
Tanto rumor ne' campi e tal fracasso,
Quanto fa allora il spirto Libichello
Mutato (come io dissi) in asinello.
 
LIII
 
Orlando e Rosador di riso scoppia,
Milon, Fondrano e così tutto il resto,
Pur sempre i calci l'asinel raddoppia,
E salta e corre e poi ragira presto;
L'orecchie stende, si digrigna, e doppia
Festa agli astanti poi aggiunse a questo,
E in ordine mostrò quel che in le105 stalle,
O ne' campi, il stallon fra le cavalle.
 
LIV
 
E si drizzò a seguir Galliciana
Quel disonesto e intrepido asinazzo,
Ella, che vide quella cosa strana,
Si sforza vergognosa uscir d'impazzo;
Ma l'asino da lei non si allontana,
Gridagli forte ognun, pur n'ha sollazzo,
E se106 non pur che la regina infesta,
Scoppiato ne sarebbe ognun di festa.
 
LV
 
Ma il conte Orlando, cavalier saputo,
Che ebbe la lettra, s'avisò del fatto,
Perchè più d'uno incanto avea veduto
Per altri tempi, imaginossi il tratto,
Che Malagigi, o chi altri, qui venuto
Fusse per eseguir questo tristo atto,
Et a quanti baron si vide avante
Disse: qui è stato qualche negromante.
 
LVI
 
Confermò ognun quel che 'l conte prevede,
Il qual disse a ciascun che presente era:
Io sum107 Orlando, il quale in Cristo crede,
E la sua legge è sola al mondo vera;
Mostrar vi voglio la cristiana fede
Quanto potente sia, quanto sincera;
E l'asino gridò:108 Demonio tristo,
Partiti quindi per virtù di Cristo.
 
Manca la continuazione
LVII
 
Ebbe il gigante allora acerba pena,
Pur si ritenne in piede, e il capo quassa,
La mazza stringe et a due man la mena,
E contra a chi il percosse un colpo lassa;
Schifarlo puote il Paladino appena,
Ma pur da parte salta, e il colpo passa;
Egli è mastro di guerra, e il suo Rondello
Ai salti è assuefatto, e molto snello.
 
LVIII
 
Schiffò quel colpo, e ben volse109 il marchese,
Ma renderlo non puote a quella volta,
Chè separate fur le lor contese,
Tanto crescea de' cavalier la folta;
Sicchè Oliviero allora altra via prese,
Mostrando tra' pagani audacia molta:
Quanti ne giunge pien di rabbia e tosco,
Male integri li manda al regno fosco.
 
LIX
 
Riconfortossi la cristiana schiera
Pel grande aiuto di quel Paladino;
Ma di Ruffardo la possanza fiera
Fa come falce di stipa o di lino:
Infernal cosa è riguardarlo in ciera,
Nè sì brutto si pinge Calcabrino;110
E tanto adopra la ferrata mazza,
Che sempre ha intorno spaziosa piazza.
 
LX
 
Ma Balugante cupido di sangue
Bravante il maladetto a ferir manda;
Mossessi111 quello a guisa di fiero angue,
Se advien che 'l tosco disdegnato spanda;
Restò a tal gionta ogni cristiano esangue,
E a fugir cominciar per ogni banda;
Li più galgiardi112 allor ebber paura,
Movendossi113 il pagan de empia statura.
 
LXI
 
Il primo che scontrò cum la fiera asta
Fu Rodoardo sir di Lamporeggio,
Galgiardo fu, ma al colpo non contrasta,
Che a terra cade, e non gli avvenne peggio114:
Poi che la lanza in mille pezzi è guasta,
Il brando tira, e grida: oggi preveggio
Il modo di sbramarmi a sangue e morte,
E provar quanto ogni cristiano è forte.
 
LXII
 
Vide il Danese il danno de' cristiani,
E il suo Dudone e Bradamante appella,
Che era in la schiera delli due germani;
Costei del buon Ranaldo era sorella
Gagliarda, ardita, e da menar le mani
Atta non men che un Paladino, e bella;
Altra Camilla,115 altra Pentesilea,
Che armata sol per Cristo combattea.
 
LXIII
 
Entrò la dama nel calcato stormo
Insieme cum Dudon gridando forte:
Ora canaglia insieme vi distormo,116
Che tutti meritate acerba morte;
Io più di vui117 non son legata o dormo,
Che sì pensate, penso, a trista sorte:
E cum la lanza un cavalier percusse
Chiamato Armeno, e credo Armeno fusse.
 
LXIV
 
Poi trasse il brando la gagliarda dama
E gettò morto un giovinetto al piano,
Qual da Turpino Chiariol si chiama,
D'abito e nascimento soriano,
Venuto di Soria per la gran fama
Del gran re Carlo e del popol cristiano,
E lassò il padre suo senza altro erede,
Giurando tornar presto, alla sua fede.
 
LXV
 
Glorio, Lampruccio e Meleardo occise,
Tutti Africani, e tutti e tre di Egitto;
Col brando il capo ai dui primi divise,
L'altro di ponta fu nel cuor trafitto;
Per questo, gran terror la dama mise
Nel popul sarracin timido e afflitto,
Gettando gambe, braccia e teste a terra,
Questo urta,118 quello occide et altri119 atterra.
 
LXVI
 
Come se tra molti minuti schioppi
Bombarda scocca e sino al ciel ribomba,
Che non pur par che de' nemici agroppi120
L'animo, ma li offende, atterra e slomba;
O se nei campi peccorelle intoppi,
Dopo altri lampi, una fulminea romba;
A parangone de altri men potenti
Par che a ferir la dama si apresenti121.
 
LXVII
 
Ma Dudon fa cum lei la festa doppia,
E col brando fracassa, atterra et urta,
Minaccia, fende, rompe, taglia e stroppia,
E a questo il busto, a quello un braccio scurta;
L'uno induce timor, l'altro il radoppia,
Per tener de' Cristian l'audacia surta,
Ma non men sarracin da l'altro canto
Cercano di vittoria avere122 il vanto.
 
LXVIII
 
Artiro, Odrido, Buffardo e Bravante
Son contra i nostri da gran furia spenti,123
Come si vede a caso in uno instante
Levarsi a un tempo dui contrarii venti,
Che l'un sbatte a ponente, altro a levante,
Quel che a lor forza a caso si apresenti;
E cum tal furia l'un l'altro ritrova,
Come volesser discacciarsi a prova.
 
LXIX
 
Scontrosse cum Odrido Bradamante,
E stordito il lassò, tanto il percosse;
Ferillo al capo la donzella aitante,
Che tutto il tramutò, tutto il commosse;
Visto quel colpo il forte re Bravante,
Stimò che un paladin la dama fosse,
E d'un gran colpo l'elmo le martella,
Di che gran poena124 ne sostenne quella.
 
LXX
 
Ma subito grande ira al cuor le monta,
E cum il brando il capo gli percuote,
Che 'l colpo dato a lei cum questo sconta,
E impalidir gli fece ambe le gote;
Ma il re Bravante le lassò una ponta,
Che appena ella in arcion tener si puote;
Ma per la gente ch'ivi allor si mosse,
Per forza l'un da l'altro separosse.
 
LXXI
 
Ma cum Buffardo si scontrò Dudone,
E cum gran stizza adosso se gli cazza;125
D'una mazzata il gionse in un gallone,
E poco men ch'in terra nol tramazza,
Che grande anch'esso e forte era il barone,
Perito molto in adoprar la mazza;
Ora contra a Dudon venne il pagano,
E l'uno e l'altro cum la mazza in mano.
 
LXXII
 
Mena il gigante cum la sua ben ferma126
Mazza a Dudone,127 egli da parte salta,
E convien che cum senno e ben si scherma
Che troppo acerbo il sarracin lo assalta;
Ma Dudon nel costato allor gli afferma
La mazza, nè levolla allor troppo alta;
E di dolor, tanto la mazza il tocca,
Gettò il pagan la lingua fuor di bocca.
 
LXXIII
 
Ma subito il gigante in se rivenne,
E nell'elmo a Dudon gran colpo tira:
Quasi cade il baron, pur si ritenne,
Ma monta per vergogna e doglia in ira
Tanto, che adosso a quel gigante venne,
E alla visera, dove il fiato spira,
Toccollo, e il naso talmente gli offese,
Che Buffardo per doglia a terra stese.
 
LXXIV
 
Occiderlo volea Dudone allotta,
E per ferirlo avea già il braccio in ponto,
Ma proibillo far di nuovo lotta
Il stormo de' pagan ch'ivi fu gionto;
Fuli il disegno e la sua impresa rotta,
Che ognun fa più di se che d'altrui conto;
Vide essere egli danno e incarco espresso,128
Per occidere altrui, morire anch'esso129.
 
LXXV
 
Onde indi allor convenne dipartirse,
E lassare il gigante in terra steso,
Che gente tanta contra lui venirse
Vedea, che forse allor restava preso,
E li fu forza altrove ancor partirse,
Che alla forza ciascun misura il peso,
Ferendo va i nemici in altra parte,
Et a chi il petto, a chi la faccia parte.
 
LXXVI
 
Così fa la donzella Bradamante,
Col brando in man gagliarda a maraviglia;
Intanto sorse il caduto gigante,
Qual nuovamente la sua lancia piglia,
E questo dietro, e quel percuote avante,
A infernal mostro nel ferir simiglia,
E tanto de ferir l'empio procaccia,
Che chi percuote occide, e li altri caccia.
 
LXXVII
 
Mirava la battaglia allor Ranaldo,
Il quale fra' pagan stava secreta-
Mente, ma di scoprirse e d'ira caldo,
E di assalirli cum il re di Creta
Non si può rafrenar, non può star saldo,
Non può tener la mente a un segno quieta;
E una sola ora mille anni gli pare
Potere esso in persona in gioco entrare.
 
LXXVIII
 
Bradamante ferir vedea il barone,
Cognobella all'insegna, e alla armatura,
Che in campo verde portava un leone
Di quel proprio color ch'ha di natura;
L'insegna è questa del suo padre Amone,
Piacque alla dama simil portatura:
Fu il leon poi alquanto tramutato,130
E di integro Ranaldo il fe' sbarato.
 
LXXIX
 
Tanto col re Cretense oprato avea
Ranaldo, che a re Carlo è fatto amico,
E battezzarsi in tutto si volea
Che di Califa fatto era nemico;
E la cagion che a questo lo movea
Ditta l'ho sopra, e più non la ridico:
E in ponto stan quando fia tempo e luoco
Di accender fra' pagani un doppio foco.
 
LXXX
 
E per tessere alfin quel che avea ordito,
E mandare ad effetto il suo disegno,
Alla sorella prese per partito
Far di sua mente cum buon modo segno;
E presto entrò cum l'asta bassa ardito
Fra' cristian, come li avesse a sdegno,
E percosse uno apresso alla sorella,
Che in terra il fe' cadere, e turbar quella.
 
LXXXI
 
La dama allor cum rabbioso schismo131
Verso Ranaldo si aventò col brando,
Per mandar quello, come lo esorcismo
I spiriti infernal de fuga132 in bando;
Del duol già ne sentì gran parossismo,133
Ma non volse il baron far di rimando,134
E beffarla e fugir cominciò insieme,
Come un pazzo che scherza a un tratto e teme.
 
LXXXII
 
Dicea Ranaldo: sei tu de' baroni
Che se chiamano in Francia paladini,
Che non potete fuora delli arcioni
Gettar li men stimati sarracini?
Se non aveste le armi e i brandi buoni,
Persi aria Carlo ormai e' suoi confini;
E tu porti il leon, superba insegna,
Per dimostrar ch'in te gran forza regna.
 
LXXXIII
 
Per tal parole, e per la prima causa
Dello occiso baron vicino a lei,
Seguia Ranaldo senza alcuna pausa,
Per condurlo col brando a casi rei;
E per grande ira allor saria stata ausa
Entrar nel fuoco o dove stanno i Dei,
Volar al ciel, o profundarsi in mare,
Per volersi del caso vendicare.
 
LXXXIV
 
Fugia Ranaldo, et ella seguitava
Tanto, che fuora delle schiere usciro;
Allor Ranaldo a quella si voltava,
Dicendole, sorella, assai mi ammiro
Che tanto il tuo fratello ora ti agrava,
Che dar gli cerchi l'ultimo martiro;
Se ben son stravestito e non sto saldo,
Io però sono il tuo fratel Ranaldo.
 
LXXXV
 
E verso lei alciata135 la visera,
Fecela chiara di quel ch'era incerta;
Visto alla faccia che quello appunto era
Ranaldo, e che ne fu la dama certa,
Depone ogni furor, jubila e spera
Che presto sua possanza sia scoperta;
E in ben di Carlo, e danno de' pagani,
La vittoria per lui fia de' cristiani.
 
LXXXVI
 
Dopo molte parol136 tra lei e lui,
Ranaldo le contò lo ordine dato
Col re d'Oranio e i capitanei sui,
Sì come per adietro hovvi narrato;
Onde sogionse, a te prima che altrui
Il mio penser secreto ho revelato,
Acciò che vadi al capitan Dainese,
E quel ch'io a te, tu a lui facci palese.
 
LXXXVII
 
Digli che in ponto cum due squadre stia
Cum qualche, che a lui piaccia, baron franco;
E che quando levato il rumor sia
Nel campo de' pagan, venga per fianco,
Che de venir lì avrà secura via,
Nè può venirne tal disegno a manco;
Egli da lato, e nuoi da la codazza,
Porremo a morte li inimici e in cazza.137
 
LXXXVIII
 
E senza spia che gli riporti quando
Comparir deva, digli che pur presto,
Che il cominciar tal cosa è a mio comando,
E che il troppo tardar mi è già molesto;
Comincierò adoprar subito il brando
Ch'io pensi che ciò a lui sia manifesto.
Vanne, sorella, e digli che non erri,
Che oggi vittoria aranno i nostri ferri.
 
LXXXIX
 
Inteso ch'ebbe Bradamante il tutto,
Verso Parigi punse il suo destrero,
E come ben Ranaldo avea condutto
Il suo disegno, disse al franco Ugiero;
A cui, poi che l'udì, non parve brutto
Del buon138 Ranaldo l'ordine e il139 pensiero,
Anci per darli cum prestezza effetti
Ebbe dui capi cum lor squadre elletti.
 
XC
 
L'uno fu Namo, e l'altro Ricciardetto,
La sesta schiera ha quel, questo la nona.
Et ad ambi narrò tutto l'effetto,
Perch'esso andar non vi volse in persona;
Che un capitanio generale elletto,
Raro o non mai l'esercito abbandona;
E però a quelli revelò il secreto,
Di che ciascun di lor funne assai lieto.
 
XCI
 
Così per via dove non fusser visti
Cum le lor schier li capi se avioro
Per ritrovare i sarracin sprovisti,
E contro essi adoprar le spade loro;
Spera ciascun di far solenni acquisti,
Poi che del tutto bene instrutti foro:
Ma vadan quelli, io tornerò al Danese,
Che ove è Carlo rimase, e ad altro attese.
 
XCII
 
Per impedir che quei ch'erano in fatti
Tenessero ivi il lor combatter saldo,
Nè adietro fusser dal rumor retratti,
Quando l'assalto arà fatto Rainaldo,
Cum stratageme e ingeniosi tratti,
Di che esser debbe sempre un capo caldo,
Gano mandò140 cum la settima schiera,
Dove la prima pugna in gran colmo era.
 
XCIII
 
Cum trenta milia di sue genti pronte,
E cum molti di141 suoi conti malvagi,
Entrò in battaglia il Magazense conte,
E secco142 avea Beltramo e Bertolagi,
Falcon, Sanguino, Spinardo e Lifonte,
Anselmo, Pinabello et Aldrovagi,
Cum altri molti che ridir non stimo,
Ma Gano fu cum l'asta al ferir primo.
 
XCIV
 
Rupe la lanza proprio a mezzo il scudo
Di Medonte di Dacia cavaliero,
Che li cacciò fuor della schena il nudo
Ferro dell'asta, sì fu il colpo fiero;
Poi trasse il brando e nequitoso e crudo
Il capo fesse a Corifonte arciero;
Di Dacia fu costui, a Odrido caro,
Ma non gli fu a quel colpo allor riparo.
 
XCV
 
Ma Balugante dello assalto accorto,
Mandò nella battaglia Ardubalasso,
Qual percosse Dudone, e come morto
In terra lo gittò cum gran fracasso;
E pria che fusse quel baron risorto,
Fu preso, ancor pel colpo afflitto e lasso;
Nè puote esser soccorso allor Dudone,
Che a Balugante fu dato pregione.
 
XCVI
 
Per il nuovo soccorso, e la gran forza
Di Ardubalasso li cristian fugiro,
E la furia schifar ciascun si sforza,
E li più forti allora si smarriro;
L'ardir di molti quello assalto amorza,
E qual Bufardo fuge, e quale Artiro,
Chi Odrido schifa, e chi Bravante fuge,
Dove salvarsi spera, ognun rifuge.
 
XCVII
 
Grida Olivier cum voce minacciante,143
E grida Gano: ove fugite voi?
Seguitene cristiani, andiamo avante,
Volete abbandonar re Carlo e nuoi?
Re Carlo anch'esso pure ha genti tante,
Che a tempo manderà soccorso ai suoi:
Non dubitate, ognun torni a ferire,
Che la gloria de un forte144 è un bel morire.
 
XCVIII
 
Ardubalasso intanto ed Oliviero
Cum furia estrema si affrontaro insieme;
Ferì questo il pagan sopra il cimiero
Cum furia tanta e cum tal forze estreme,
Che poco men che nol cacciò al sentiero;
Ma pur di doglia esterminata il preme,
E se non era allor l'elmo sì forte
Condutto era Olivier pel colpo a morte.
 
XCIX
 
Ma buona pezza stette strangosciato
Per quel gran colpo il paladin marchese,
E pregione era, se non era aitato
Da Ganelon che a forza lo difese;
Prese una lanza, e nel sinistro lato
Percosse Ardubalasso e a terra il stese,
Chè contra lui sì inopinato venne,
Che 'l sarracino in sella non si tenne.
 
C
 
Resorse intanto il gran signor di Vienna,
E forte combattea col brando in mano;
Così fa Gan che tocca e non accenna,
E questo occide e quel riversa al piano;
Ma non val lor cum brando e cum antenna
Ferir, che sol sono Oliviero e Gano
Or capi tra' cristiani in tal tenzone,
Preso145 è Dudone, Astolfo e Salomone.
 
CI
 
E Bradamante col suo Ricciardetto
Si pose in schiera come fu ordinato,
Per far col sir di Montalban l'effetto,
Che di sopra poco anzi io vi ho narrato;
Però il Danese che avea tal respetto,
Vuol che sia aiuto ai combattenti dato,
E in battaglia Turpin presto mandava
Cum la sua schiera di ordine la ottava.
 
CII
 
E subito parlò del fatto ordito
Contra' pagani al sacro imperatore,
Et ordinosse allor che Carlo uscito
Cum la sua schiera de ordinanza fuore,
L'inimico da un canto abbia assalito;
Sentendo in quella parte il gran rumore,
E inteso di Ranaldo il duro assalto,
In quella parte146 allor debbia far alto.
 
CIII
 
Turpino intanto tanti fatti fece
Ch'io non ricordo e cum brando e cum lanza,
Che parve un fuoco entrato nella pece,
Che Dio li accrebbe il lustro e la possanza;
Tutte le schiere de' Cristian refece,
Tal che ciascun di lor prese speranza;
E in questo assalto de' forti cristiani
Gran danno e occision fu fra' pagani.
 
CIV
 
Ma Balugante manda Marcaluro
A soccorrer pagan già posti in fuga,
Qual nequitoso e di superbia duro,
Dove entra li cristiani atterra e fuga;
Ma Ranaldo che vede il caso oscuro
Delli occisi cristiani, il fronte ruga,
E tratto il brando, se n'andò dove era
Non distante Califa e la sua schiera.
 
CV
 
Ranaldo avendo l'abito pagano
A Califa accostossi cum buon modo,
E dielli sopra il capo un colpo strano,
A guisa che si caccia in legno il chiodo;
Trovol sprovisto, e riversollo al piano,
Benchè fusse quel re gagliardo e sodo;
Nè allora ebbe altro mal, ma il buon Ranaldo
Mostrossi allora di gran furia caldo.
 
CVI
 
E cum il brando mena gran tempesta,
E facea colpi fuor d'ogni misura;
A chi braccia tagliava, a chi la testa,
E chi fendeva insino alla centura;
E tanto l'occhio aveva e la man presta
Che facea a un tempo il danno e la paura;
Sempre gridando: adosso alla canaglia,
Che vincitor serem della battaglia.
 
CVII
 
Vedendo questo i sarracin smarriti,
Che non scian ciò che questo dir si voglia,
E vedendo li morti e li feriti
Da sì gran colpi, tremano qual foglia;
E se vi erano alcun delli più arditi,
Che de offender Ranaldo avesser voglia,
Egli col brando sì li acconcia e sbatte,
Che tutti o occide, o cum gran furia147 abbatte.
 
CVIII
 
Intanto Bradamante si scoperse
Cum li fratelli e la sua ardita schiera,
E le cristiane insegne al vento aperse
E entrò per fianco dove Ranaldo era;
Questo quel stormo allor tutto disperse,148
Vedendosi assalito149 a tal mainera:
Restò all'assalto ognun da se diviso,
Che assai spaventa uno empito improviso.
 
CIX
 
In altra parte150 poco a quei distante
Mossessi151 Namo e tutta la sua gente,
E ove è Tricardo allor152 si trasse avante
Cum la schiera serrata arditamente;
Non vi fu153 sarracin tanto constante
A cui non vacillasse allor la mente,
Vedendossi così desordinare,
Nè più si scianno in qual parte guardare.
 
CX
 
Mosso non si è Doranio ancora contra
A' sarracin, ma tempo e luoco espetta,
Che se peggio a' cristiani non incontra,
Senza scoprirse spera la vendetta;
Vede che quanti il buon Ranaldo scontra,
Tutti col brando li investisse154 e affetta,
Onde in lui spera, e ancor riposa alquanto:
Però posando anch'io fo fine al canto.
 
11ciuffa per zuffa.
12cum per con qui ed altrove costantemente.
13cade per cadde.
14Anci per anzi qui ed altrove.
15Nè il ciel credette aver già secondo.
16Trovansi in questi Canti troncate molte voci di due e di tre sillabe, che regolarmente non consentirebbero il troncamento; però non mancano esempi tra gli antichi rimatori di quest'uso più che licenza, che non si riferiscono per brevità; e le più comuni sono: col per collo, car per carro, tor per torre, lor per loro, don per donna, fal per fallo; parol per parole; schier per schiera; fer per ferro; le quali si notano qui tutte insieme per non ripeterle ai luoghi respettivi.
17accade per accadde.
18cade per cadde.
19ciambra per camera qui ed altrove.
20frissata per fregiata, adorna.
21rada per rara, straordinaria.
22Fada per fata, maga, dallo spagnuolo Fada o hada.
23E sol cercava acciò.
24Don per donna.
25gran core.
26distolte per liberate.
27Ninfe io son la prima.
28Che così dette son le ninfe d'acque.
29E credo il mio servir non gli dispiacque.
30La tua impresa da lei fia meritata, Qual viepiù (credo) che ogni altra gli piacque.
31Per dimostrar.
32Fu crocifisso.
33ogni altro Deo.
34nuoi e vuoi per noi e voi qui ed altrove.
35sciò per so qui ed altrove; sciai e scià, scianno per sai, sa e sanno. Il Bojardo cantò: Ben scio certo che pria… Ben sciò ch'io sosterrei (Sonetti e Canzoni, Milano 1845 pag. 32).
36Toccavassi per Toccavasi.
37Ferraù.
38fa scordarli.
39dama.
40puoco per poco qui ed altrove.
41E a ogni sfrenato cuor.
42Come in lucerna.
43Quella spoglia mortal dal dì che in fasce.
44Ella.
45Bastammi per Bastami.
46Esser propizia.
47puoi per poi qui ed altrove.
48dicerne per discerne.
49ricerca.
50Son disposto, dama, condurmi. Condure per condurre, in grazia della rima. Dante cantava: La mente innamorata che donneaColla mia donna sempre, di ridureAd essa gli occhi più che mai ardea.(Parad. C. XXVII v. 88-91).
51tornarmi bisogna.
52Quale era direttiva al magno conte.
53cioè Orlando.
54mirando.
55sciolsella per sciolsela. Verso mancante di due sillabe.
56chi la manda.
57E pregate che come la passata, Questa altra notte sia da te trattata.
58il vero.
59diedi l'amore e l'alma.
60e di me resti sazio.
61il dì potevi rivedermi.
62non crederia.
63Verso con una sillaba di più.
64Non che l'usasse, ma pensar potesse Di usarlo, alcun non scià che lo credesse.
65sapeva di quel caso.
66E ridente il baron s'estima.
67accarecciar per accarezzar.
68presella per presela.
69Dovrebbe invece leggersi levante.
70Piacemmi per piacemi.
71Conoscessi per conoscesi.
72Aver il cervello dove la civetta ha il gozzo, vuol dire non averne.
73Così non ti vergogni, e mi.
74partito per scommessa.
75parangone per paragone, prova; dall'antico francese parangon; ripetuto in seguito.
76debbassi per debbasi.
77detto ha.
78facciammi per facciami.
79cioè, chi dice ch'io non ho cervello, indovina peggio di quello che non veda io.
80Il sdegno.
81Volsessi per vollesi.
82Muta l'effigie.
83dolor.
84e dentro.
85uso per usato, avvezzato, adoprato.
86articola, cioè, dimostra minutamente.
87Azael e la Clavicola, titoli d'opere di Magia e Negromanzia.
88cioè, per la via più comoda che può.
89allestra per allestisce, prepara.
90nome del folletto o demone lasciato in sua vece da Malagigi, chiamato da Dante Libicocco Inf. C. XXI.
91Per prenderlo pregion.
92L'armata turba de Galliciana.
93Orlando vien dai poeti e romanzieri dipinto come guercio o strabo.
94metaforicamente per li percuote.
95Chi se gli fe' vicin, stavan lontani.
96abaglian per abbaiano, latrano.
97in frotta.
98più stravagante, più bizzarro.
99mostrar sua forma al conte.
100questo uno.
101E mentre per la ciambra un gran fracasso.
102balci per sbalzi, salti.
103cioè quando la grandine cade con tanta furia da sbucciare i salci.
104ponto pose quel che in ne le.
105cioè, e se non fosse accaduto che la regina ne era molestata.
106latino per sono; e ciò per dar maggior solennità all'esorcismo.
107cioè, gridò all'asino.
108volse per volle come altrove.
109Calcabrino demonio nominato da Dante (Inf. C. XXI e XXII).
110Mossessi per Mossesi.
111per gagliardi qui ed altrove.
112Movendossi per Movendosi.
113Che il gettò a terra, e non gli fece peggio.
114Camilla e Pentesilea, valorose eroine rammentate da Virgilio.
115cioè vi sparpaglio, vi dissolvo.
116da voi.
117uccide.
118quello.
119cioè ristringa, rimpicciolisca.
120Che tutte le smarisse, anci le occide, Così la dama i sarracin divide. Tal sono a parangon de altri men forti Contra pagan la dama e Dudon sorti.
121Si sforzano portar vittoria e vanto.
122spenti per spinti.
123latinamente per pena.
124per caccia, spinge.
125Il gigante la sua nell'elmo ferma.
126Al buon Dudone.
127Non volse il cavaliere in quel drapello.
128ello.
129da Ranaldo mutato.
130schismo, metaforicamente per l'atto di staccarsi donde si trovava, e scagliarsi addosso a Rinaldo.
131de fuga, cioè precipitosamente.
132parossismo, termine di medicina, esacerbazione.
133cioè, risponderle coll'armi.
134alciata per alzata.
135troncamento licenzioso.
136cazza per caccia, fuga.
137L'ordine di.
138e il suo.
139Cum trenta milia.
140Primo a ferir.
141secco per seco.
142e grida Bradamante.
143de un forte l'onore.
144Che preso.
145Ordine fu.
146o vero al tutto occide o in terra.
147Allor pagano alcun più non sofferse.
148L'assalto… tradito.
149Dall'altro canto.
150Mossessi per mossesi.
151dove Marcallar.
152fu allor.
153investisse cioè investisce o meglio investe.