Vivere La Vita

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Mi sembrava di essere entrati, nel regno della natura e che lei, ci aveva dato gratuitamente e con tanta generosità il permesso di farlo, per poterci gustare da vicino tutto.

I suoi colori, profumi, suoni.

Tutta la sua vita.

Di dentro, in un modo tranquillo e naturale, sentivo che l'unica cosa da offrire in cambio come ringraziamento a tutta quella ricchezza, a tutto quello che ci donava e ci permetteva di vivere, era il mio più profondo rispetto per lei.

Per la natura.

La mia testa non si fermava mai, perché a destra, a sinistra, su e giù, c'era sempre qualcosa di nuovo, di bello e di interessante da vedere. Anche se non lo guardavo sempre, sentivo molto bene la voce di mio papà che ogni tanto interrompeva il grande silenzio per insegnarmi come si doveva respirare, come si doveva camminare e cosa si doveva fare in alcune situazioni di difficoltà in montagna.

Mentre mi parlava, all'improvviso si è fermato e con la parte curvata della piccozza di montagna, dopo averla alzata, ha piegato con attenzione e senza spezzarla, una pianta non spessa, fino a portarmela quasi d'avanti al naso ed appena fatto, ho sentito la voce di mio papà, che mi diceva di guardare come erano belle le noccioline sui rami d'avanti a me.

Sembrava che soltanto in quel momento i miei occhi si sono aperti.

Ho visto attaccate alla pianta, tante coppie di noccioline di colore giallino, quasi bianco in dei gusci di un verde molto fresco.

Con l'aiuto di mio papà, che uno dietro l'altro piegava e poi rilasciava i rami delle piante, ho raccolto le noccioline finché abbiamo riempito la piccola borsetta che avevamo.

Dopo aver finito e senza aver fatto nessun danno alle piante, abbiamo ripreso il nostro cammino e quasi subito dopo, seguendo mio papà, abbiamo lasciato quella specie di largo sentiero, per andare in mezzo agli alberi. Entrati nella foresta, il canto delle piante era ancora più bello e forte.

Il profumo della foresta e di terra umida, me l'ho gustavo tutto e fino in fondo.

Ad ogni respiro.

Camminando, ho capito che si sentiva sempre più chiaro e sempre più vicino, come una voce fuori dal canto della foresta, un rumore non forte e molto delicato di acqua che scorreva.

In un piccolo spiazzo, da sotto una pianta, usciva dalla terra un bel filino di acqua.

Sembrava un filo di argento.

Dopo che toccava la terra e cominciava la sua discesa verso vale, ho visto che era cosi limpida e chiara da riuscire a vedere bene tutti i colori di tutte le cose sopra quali scorreva.

Mentre beveva, insegnandomi come dovevo fare, mio papà mi spiegava di bere piano, piano, perché era molto fresca, ma soprattutto per poter gustarla bene.

Appena toccata, mi è sembrato che le labbra, la lingua si erano subito congelate e stavano per rompersi.

Era così fredda che sentivo molto bene come scendeva dentro il mio corpo.

Cosi buona che l'avrei bevuta tutta.

Dopo aver bevuto, siamo usciti dalla foresta sullo stesso sentiero di dove eravamo entrati.

Appena fuori, mio papà, dopo aver alzato gli occhi verso il cielo, ha detto che era l'ora di prendere la via del ritorno, perché il sole, stava cominciando a prepararsi per "andare a dormire".

Arrivati d'avanti al condominio c'era tanta vita come sempre.

A tutti quelli che incontravo, piccoli e grandi, non vedevo l'ora di raccontare che ero già andato sulla collina dove giocavano i ragazzi grandi e con tanta fierezza, spiegavo anche le cose belle che ho visto, vissuto ed imparato.

Per dare subito la prova che era tutto vero.

I compiti, mi sono sembrati ancora più belli ed interessanti del solito.

Alla fine, ho anche avuto il tempo, ma soprattutto la voglia, di leggere i fogli su quali era scritto come dovevo organizzare l'assemblea di classe e quale era l'ordine del giorno di quella assemblea. Ho capito subito tutto, ma non volevo approfondire niente in quel momento. Non volevo disturbare quanto di bello ho avuto dalla vita in quel meraviglioso pomeriggio.

Volevo conservare tutto com'era.

Non potendo fermare il tempo, è arrivato anche il giorno in quale, dopo l'orario di scuola, ci siamo fermati nella nostra classe.

Era il giorno per l'assemblea dei pionieri.

Dopo aver dichiarata aperta l'assemblea, la mia maestra, mi ha chiamato d'avanti alla classe e mi ha dato la parola e farmi guidare tutto, come compagno comandante di classe.

Mentre stavo andando, lei ha preso la sua sedia che di solito stava dietro alla cattedra e si è messa nell'angolo più lontano.

Tra la lavagna e la finestra.

Sembrava quasi che non voleva intromettersi in quello che dovevamo fare.

Sembrava che non voleva far' parte.

Appena arrivato e girato verso i miei amici, in quei momenti, compagni pionieri, dentro ho cominciato a sentire cose mai sentite prima.

Ero già andato tante volte d'avanti alla classe, vicino alla lavagna.

Ogni volta per essere interrogato e non ho mai avuto paura, o problemi.

In quel momento era tutto diverso.

Era per la prima volta che guardavo in faccia, da quella posizione e nello stesso momento, tutti i miei colleghi.

Tutti i miei amici.

Erano tanti.

Vestiti tutti di bianco con la divisa dei pionieri, sembravano ancora di più.

I loro occhi e la loro attenzione che di solito erano sulla nostra maestra, in quei momenti, era su di me.

Le loro facce erano molto incuriosite, ma belle, tranquille e questo mi faceva stare anche a me più tranquillo.

Con la maestra non vicina, quasi assente e sapendo che mi ero preparato bene a casa da quei fogli che avevo letto più volte, abbastanza sicuro di me, ho cominciato a parlare.

Dopo le prime parole, ho visto che i miei compagni erano ancora più attenti a me e sembrava un gruppo ancora più unito, più compatto, soprattutto quando dicevo loro, “davo gli ordini”, su cosa e come dovevano fare, come la maestra compagna comandante aveva scritto.

Dal farli venire tutti d'avanti ai banchi vicino a me, prima i quattro comandanti di gruppo e poi uno alla volta, nell'ordine già deciso, tutti i compagni pionieri - ognuno dietro al suo comandante -, fino all'ingresso delle bandiere. Dal cantare l'inno nazionale del paese, all'ascoltare “il rapporto” di ogni comandante di gruppo al comandante della classe. Dal' ascoltare "in formazione", l’ordine del giorno della nostra assemblea, fino a “rompere le righe” e tornare in silenzio, ognuno al suo posto nel banco, per cominciare ad approfondire l'ordine del giorno.

Il primo punto di quel ordine del giorno, che stavamo già vivendo ed andava anche molto bene, era di imparare tutti insieme come si doveva svolgere un'assemblea.

Tutte le cose da fare.

Tutto il protocollo.

Il secondo era di spiegare che cos'era e come si doveva fare “I Piano Economico della classe”.

Quando a casa avevo letto questo punto, con tutte quelle parole nuove e che di solito non venivano usate dai bambini, subito non ho capito nulla. Dopo aver letto finché mi sono sentito sicuro di me, ho anche deciso senza dire o chiedere niente a nessuno, che nell'assemblea della classe, avrei spiegato tutte quelle cose ai miei amici, al modo mio.

Con parole che usavamo noi, per farmi capire bene da tutti.

Ero il loro comandante e mi sembrava giusto aiutarli a capire.

Mentre parlavo, lì dove sapevo di aver messo parole mie, ogni tanto guardavo la maestra per vedere se era d'accordo, oppure no, ma non riuscivo a capire niente.

Non diceva nulla e la sua faccia era sempre la stessa, come in quel giorno quando siamo diventati pionieri, ma questo non mi disturbava, anzi mi dava la sicurezza per andare avanti, perché non mi ha mai fermato.

Più andavo avanti, più mi sentivo sicuro e certo che spiegavo bene ai miei compagni.

In ognuno dei tre trimestri di scuola che si facevano in ogni anno scolastico, dovevamo raccogliere dei soldi, cioè, “il piano economico della nostra classe”, che poi venivano tutti versati nel “piano economico della nostra scuola”.

Tutti quei soldi, venivano usati per i lavori di qualsiasi tipo nella nostra scuola, che si facevano ogni anno nella vacanza grande, quella del' estate.

In un trimestre, ogni bambino doveva versare al proprio comandante di gruppo, nel momento in qui voleva, anche un po' alla volta, una cifra che a me sembrava molto piccola.

Con quei soldi si sarebbe potuto andare al cinema per neanche tre volte, oppure mangiare due dolci e mezzo nella confetteria, comperare la metà di uno dei palloni con qui giocavamo a calcio, oppure dieci dei gelati più piccoli che esistevano.

La cosa importante, era che quei soldi non potevano e non dovevano essere dati dai nostri genitori.

Ognuno di noi, per mettere insieme quella cifra, doveva dedicare del tempo.

Del suo tempo.

Ognuno doveva lavorare.

Un terzo della cifra, doveva essere ottenuto da residui di carta raccolti e portati in uno dei centri di raccolta nella città.

Andando nei vari centri, dovevamo avere dietro come segno di riconoscimento il nostro libretto di allievo, quello dove di solito si mettevano i voti per farli vedere e firmare dai genitori a casa.

Il responsabile del centro ci pagava la carta, ma la cosa che a me, sembrava molto più importante dei soldi, era la ricevuta che ci doveva dare, con il nostro nome e cognome, la quantità di carta portata, i soldi pagati, la data, la sua firma e soprattutto il timbro del centro di raccolta.

 

L'altro terzo della cifra si doveva ottenere, portando bottiglie, oppure barattoli di vetro vuoti e puliti. L'ultimo terzo, portando del ferro vecchio.

Ognuno di noi, appena aveva la cifra giusta, ma soprattutto le ricevute dei centri di raccolta, doveva dare tutto al proprio comandante di gruppo.

Il comandante, aveva il compito di creare la statistica del proprio gruppo. e poi, di consegnare tutto a me.

Dopo aver fatto la statistica della classe, controllando che la soma dei soldi, era la stessa con la somma scritta sulle ricevute, dovevo consegnare tutto alla compagna comandante dei pionieri per la scuola.

Più andavo avanti, più mi rendevo conto che stavo spiegando bene, perché vedevo le facce e gli occhi dei miei compagni molto attenti.

Nella nostra aula, c'era un silenzio profondo in qui si sentiva soltanto la mia voce.

Nessuno mi chiedeva nulla.

La maestra non stava più dritta sulla sedia, ma era piegata un po' in avanti, come facevo nel banco quando lei ci spiegava un qualcosa che mi interessava di più e volevo capire bene.

Ero così tranquillo, sereno e soddisfatto, che mentre parlavo sono anche riuscito a chiedermi perché quella maestra compagna comandante è stata cosi rigida ed aggressiva quando ci ha spiegato tutto, visto che io piccolo bambino, ci riuscivo a farlo da amico con tutti e le cose andavano molto bene.

Quando ho finito e ho chiesto se hanno capito, oppure se c'erano delle domande, la mia soddisfazione è stata ancora più grande.

Non avevano domande, ma prima uno, poi un altro, poi un po' tutti insieme, i miei amici hanno cominciato a dire ognuno un qualcosa, su tutte quelle novità.

Quando il rumore e diventato un po' troppo forte, è intervenuta la nostra maestra e con tanta tranquillità ci ha ricordato che dovevamo ancora chiudere l'assemblea.

Mentre cantavamo l'inno dei pionieri ed i due porta bandiere, portavano le bandiere della classe al loro posto, mi sentivo molto fiero di me stesso per come erano andate le cose.

Mi piaceva di nuovo essere pioniere ed il comandante della mia classe, poi, la ciliegina sulla torta l'ha messa la mia maestra.

Prima di andare via, mentre stava quasi prendendo la mia guancia nella sua mano destra, con la sua dolcezza mi stava dicendo che ero stato molto bravo a guidare ed a tenere tutti uniti i miei amici, i miei compagni, nella mia prima assemblea.

Anche se fuori pioveva e la giornata era molto grigia, fredda, con le nuvole molto basse e con poca luce, come tutte le giornate in pieno autunno sotto la montagna, dentro di me, c'erano delle immense esplosioni solari.

Una luce, fortissima e molto luminosa.

Impegnato come ero, con i miei compiti, con il lavoro di comandante della classe, con le grandi cose da fare insieme ai miei amici del condominio, mi è sembrato troppo presto quando un giorno mio papà mi ha detto che era arrivata l'ora di cominciare a preparare l'albero.

Tra non molto, doveva venire Babbo Natale e li serviva l'albero per poterci lasciare i regali.

Per la prima volta sono andato anch'io insieme ai miei genitori a comprare l'albero.

Erano tantissimi.

Tutti grandi e molto grandi ed intorno si sentiva un profumo di pino molto buono, molto forte.

Sulla neve bianca che copriva già tutto con uno strato molto spesso, le loro chiome verdi, erano come una macchia di vita nel gelo dell'inverno. Dopo aver guardato un po’, come tutta la gente che era lì per lo stesso motivo, mio papà ha scelto uno che piaceva a tutti noi. Lo ha legato bene, ma delicatamente, per non spezzare i rami, e ci siamo incamminati per tornare a casa.

Il mercato non era molto lontano e tornando, mio papà ha avuto il tempo di spiegarmi che prima di cominciare a preparalo, dovevamo tagliarlo alla base, perché forse era troppo alto e non ci stava dentro casa.

Finiti tutti i preparativi, finalmente lo abbiamo messo al suo posto e dopo averlo fissato bene nel suo piedistallo, abbiamo messo soltanto le luci.

A tutto il resto: cioccolatini, addobbi, regali, ci avrebbe pensato Babbo Natale.

Come sempre.

Preparare per la prima volta l'albero insieme al mio papà, dentro mi faceva sentire un po' più grande.

Ero molto felice.

Ancora di più di quello che ero già, perché quell'anno, Babbo Freddo, mi portava i patini da ghiaccio.

Ne ero sicuro.

I miei risultati nello studio erano molto buoni. Ho lavorato nel mio tempo libero anche per gli altri. Come comandante della classe, avevo aiutato alcuni dei miei amici che avevano bisogno. Ho aiutato nel fare i compiti, altri amici della mia classe, che andavano meno bene a scuola. Ero stato bravo a casa. Sono andato a comprare il pane per i nostri vicini anziani, ogni volta quando me lo hanno chiesto.

Ho fatto sapere in tempo il mio desiderio al Babbo Freddo, cioè, i patini e lui non aveva nessun motivo per non portarmeli.

Lavorando, mi sono ricordato molto bene, quello che pochi giorni prima avevo visto fare agli uomini che erano venuti a dare una mano ai miei genitori, per ammazzare e poi preparare il grosso maiale comperato per Natale ed anch'io, ho provato a fare nello stesso modo. Cioè, mentre stavamo facendo le ultime cose, mentre stavamo lavorando, ho cominciato a parlare con il mio papà e li ho fatto subito una domanda che volevo farli da un po' di tempo.

Per me, quello era il momento giusto.

Non riuscivo a capire perché in televisione, facevano vedere sempre e soltanto un “Babbo” che portava i regali, se in realtà, erano due “Babbi”.

A scuola, ci insegnavano quasi tutti i giorni e più di una volta al giorno, che i regali li portava il "Babbo Freddo".

A casa, i miei genitori e le altre persone grandi che conoscevo, le sentivo dire che da loro, come da noi, viene il "Babbo Natale".

Ho sempre pensato che ognuno ha il suo “Babbo”.

Babbo Freddo, soltanto per i piccoli che andavano ancora a scuola.

Babbo Natale, a casa, per tutti.

Per me andava bene.

Ero molto tranquillo e contento, ma volevo sapere di più, volevo capire meglio.

Subito nel momento dopo, quando per la prima volta di sempre, ho visto che il mio papà non ha risposto ad una mia domanda, le cose sono cambiate.

Non perché non mi ha risposto, ma perché l’ho visto diverso.

Era diventato meno sereno, meno sorridente, meno gioioso di come era l'attimo prima e dandomi una carezza sulla testa, mi ha detto di non avere fretta. Di non voler sapere troppo, in troppo poco tempo. Ogni cosa al suo tempo. Avrei capito tutto da solo ed al modo mio, quando ero pronto.

Era meglio così.

Il buon profumo di pino che si sentiva già forte nella camera e che mio papà mi ha fatto notare, in quel momento è diventato più interessante della confusione sui due Babbi.

Poi, quando una mattina mi sono svegliato e con il mio fratello abbiamo cominciato ad aprire i regali sotto l'albero, ho trovato i miei patini da ghiaccio.

In quel momento, non era molto importante se me li aveva portati Babbo Freddo, oppure Babbo Natale.

Neanche il colore degli scarponi che erano bianchi invece di essere neri, come li avevo chiesto, non contava più.

Finalmente avevo i miei patini.

In quella vacanza, con l'aiuto della tanta neve che era scesa, avrei imparato ad usarli bene.

Faceva abbastanza freddo e nei posti con tanta ombra, c'era ancora della neve, quando mio papà mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto vedere una partita di calcio dal vivo. Non ha finito di farmi la domanda, che la risposta era arrivata subito e chiara, mentre lo aspettavo già con le scarpe ai piedi, pronto per uscire di casa.

In pochi minuti, siamo arrivati al nuovo stadio, dove eravamo andati insieme per il lavoro volontario.

Non l'avevo ancora visto finito, anche se una piccola parte riuscivo a vedere dalle nostre finestre di casa.

Era diventato molto bello.

Sembrava immenso.

Appena entrati, sono rimasto un po' deluso, perché ho visto sul campo giocare già le due squadre, ma e subito tornata la tranquillità, quando mio papà mi ha detto che erano le squadre juniores. Le prime squadre dovevano, come sempre, cominciare appena finita quella partita. Non eravamo in ritardo come ho pensato, ma in anticipo e questo mi ha aiutato a vedere bene ogni cosa prima dell'inizio della vera partita.

Era tutto molto bello, molto interessante e non c'era niente che non mi piaceva.

Mi chiedevo soltanto, mentre vedevo quei ragazzi grandi a giocare, se le prime squadre erano molto più veloci di loro e se sarei riuscito a vedere e capire bene tutto. Non era più come a casa in televisione, dove le cose più importanti le facevano vedere più di una volta.

Non lo so quanto e come vivevo tutto ciò, ma so che mio papà ogni tanto mi guardava, ogni tanto mi sorrideva senza dirmi nulla e quasi ogni due minuti mi diceva di sedermi di nuovo, perché sarei riuscito a vedere anche da seduto le stesse cose.

Quando la partita delle giovanili è finita, sul campo sono entrate le prime squadre.

Era tutto così bello che in quel momento non potevo assolutamente restare seduto.

Vederli uscire dagli spogliatoi da squadra, tutti in fila, il modo di correre, di toccare il pallone, vedere dal vivo il modo come erano vestiti, il riscaldamento fatto in gruppo, molto organizzati.

Tutto bellissimo.

Anche se erano di terza serie e quelle che vedevo in televisione erano partite di prima, mi sembrava tutto molto più interessante dal vivo. Vedendo tutto ciò, il mio pensiero è subito volato e mi chiedevo come poteva essere, vedere dal vivo una partita di prima serie, della squadra che era nella città più grande della nostra vallata.

Mi gustavo tutto in pieno.

Preso come ero, ho soltanto sentito mio padre quando sorridendo, mi chiedeva se ero diventato sordo.

Ero sempre in piedi ed ero ancora vicino a mio padre seduto, soltanto perché c'erano le gradinate.

Mentre le squadre, laggiù sul campo continuavano a riscaldarsi, mio papà ha cominciato a raccontarmi di sapere che in quella primavera, perché saliti in terza serie, dovevano far' nascere anche la squadra dei pulcini. Non l’ho lasciato neanche finire, perché li ho subito chiesto cosa avrei dovuto fare per andarci anch'io.

La prima risposta e stata che dovevo continuare ad essere bravo come prima, in tutto quello che facevo già.

E quando sentivo tutto, era tutto.

Da tutto quello che facevo a scuola, a tutto quello che facevo a casa, ma non ho dato importanza e non ero preoccupato per questa condizione.

Era la stessa da sempre e non mi pesava.

Tutto quello che facevo, lo facevo in quel modo perché mi piaceva e non perché qualcuno me lo chiedeva, oppure perché dovevo farlo. Senza neanche lasciarlo finire, li ho detto che per me, quel accordo andava benissimo.

Ha fatto in tempo a dirmi che se le cose stavano cosi, chiedeva quando facevano le selezioni e mi portava.

Poi e cominciata la partita.

Con quello che mi aveva appena detto, i calciatori della nostra squadra, li sentivo già i miei compagni più grandi.

Quella notizia così bella e così importante che mio papà mi aveva dato, mi ha messo le ali sotto i piedi e pensando all'accordo fatto con lui, tutto quello che facevo, lo facevo con ancora più interesse, più determinazione, scoprendo anche tutti i giorni cose nuove e molto interessanti.

Studiavo con ancora più fame e sete di sapere.

Mi impegnavo sempre di più, anche con dei miei amici che a scuola capivano di meno ed avevano bisogno di aiuto.

Aiutavo anche qualche ragazza della mia classe a trovare nelle industrie della città, il ferro vecchio necessario da portare al centro di raccolta, per il piano economico.

A casa, appena arrivato dalla scuola, mi toglievo subito la divisa e la mettevo sempre apposto nell'armadio.

Dopo che studiavo, mettevo sempre tutto in ordine e mi preparavo già la borsa da scuola per il giorno dopo, prima ancora di andare fuori casa a giocare con i miei amici. Andavo senza problemi, quando mia mamma mi mandava, a comperare il pane, a buttare l'immondizia, oppure quando dovevo fare altre cose per la casa che da bambino riuscivo a fare.

Andavo a fare le stesse cose, anche per qualche vicino più anziano e che chiedeva a mia mamma il permesso di poterlo aiutare.

 

In quel periodo, anche la maestra compagna comandante, che purtroppo dovevo vedere negli incontri periodici dei comandanti di classe, mi sembrava meno aggressiva, meno cattiva e forse anche meno brutta.

Ogni partita di calcio che facevamo sul nostro “Maracana” in terra rossa, d'avanti al condominio, per me era già un allenamento per le future prove e quando è arrivato il grande giorno, ero più che preparato.

Ero pronto.

Scendere sul prato verde dove giocava la prima squadra e che avevo visto soltanto dalla tribuna fino in quel momento, era già un grande traguardo.

Sentire il profumo del' erba ed il fruscio dei passi sul campo di gioco, una cosa unica.

Vedere che sul prato eravamo entrati soltanto noi bambini ed i genitori stavano tutti a bordo campo senza poter entrare, mi faceva già sentire un po' importante e mi aiutava a non pensare al numero immenso dei bambini che eravamo ed al numero limitato dei pulcini da selezionare.

Ancora meno al fatto che ero tra i più piccoli.

Poi, quando è arrivato il futuro allenatore con il magazziniere che aveva una grande sacca di rete con tanti palloni di cuoio dentro, subito qualcosa è cambiato.

Si sentiva che dovevamo cominciare a fare sul serio.

Non avevo mai visto da vicino un pallone di cuoio, non l'avevo mai toccato, non vedevo l'ora di farlo.

L'allenatore ci ha messi su due fila, dai più grandi ai più piccoli e ha cominciato a farci fare degli esercizi fisici per il riscaldamento.

Dopo un bel po' di esercizi, ci ha fatto fare dei passaggi tra di noi con il pallone.

Purtroppo, prima ancora di capire come andava quel pallone, ci ha fermati.

Cominciava la selezione.

Ha cominciato dai più grandi, ed uno a uno, chi veniva chiamato, andava nella zona di campo più lontana ai genitori.

Vedevo, l'allenatore che prima parlava con ognuno dei ragazzi, poi faceva fare loro delle cose con il pallone. A qualcuno di più ed a qualcun' altro di meno e poi scriveva qualcosa sul quaderno che aveva in mano.

Subito dopo, l'allenatore diceva qualcosa ad ognuno di loro.

Non eravamo abbastanza vicini per capire cosa succedeva, ma vedevo alcuni ragazzi alla fine, saltare di gioia, altri, andare via con la testa bassa, altri ancora, andare via piangendo.

Le gambe mi stavano quasi facendo male aspettando il mio turno.

Quando è arrivato, eravamo rimasti soltanto due ragazzini e due papà.

Eravamo i più piccoli.

Mentre mi avvicinavo all'allenatore, lui, il campo, il pallone, mi sembravano diventati molto grandi, quasi giganteschi e mi chiedevo se ero ancora capace e giocare a pallone.

Se potevo ancora farlo in quel momento, perché mi sembrava di respirare a fatica.

Era come nel giorno della prima premiazione a scuola, e mentre ero "quasi pronto" per essere schiacciato da tutte quelle cose, ho sentito da lontano, dietro le spalle, la voce del mio papà che mi diceva di non avere paura.

Di fare con tranquillità quello che dovevo fare.

Quello che sapevo fare.

Dopo i primi passaggi che ho fatto con l'allenatore, è diventato tutto normale.

Più andavamo avanti, più mi sentivo meglio.

Mi chiedevo soltanto, perché mi faceva fare tutte quelle prove, tirare con tutti e due i piedi, colpire di testa, provare a dribblarlo, fare i cross, girarmi di spalle e dopo che lui mi tirava il pallone, di trovarlo subito e passarlo di nuovo a lui.

Avevo visto che ai ragazzi prima di me, ha fatto fare molto meno.

Ero molto concentrato.

Quando mi ha detto che abbiamo finito ero molto tranquillo, molto contento.

L'ho visto che si è avvicinato a mio papà e non lo aveva fatto con nessuno prima. Li ha parlato e dopo avermi chiamato, mi sono avvicinato. Mi ha detto che era un po' preoccupato perché ero il più piccolo tra tutti. Di età e di fisico, ma perché, secondo lui, ero bravo, mi prendeva.

Sorridendo, mi ha chiesto se ero contento.

Lo avrei baciato, anche se non lo avevo mai visto prima e poteva essere quasi mio nonno.

Quando mi ha chiesto quale era la cosa che mi e piaciuta di più in quel pomeriggio, li ho subito detto che ero felice di aver potuto tirare finalmente forte come volevo e come potevo, senza avere paura che il pallone andava nel corso e qualche macchina lo faceva scoppiare.

Mi ha fatto una carezza, dicendomi che sarò il suo preferito, la sua mascotte, anche se di sicuro avremo avuto tanti problemi per riuscire a trovare scarpe da calcio, magliette e pantaloncini della mia misura.

Andando verso casa, ero sulle nuvole.

Camminavo senza toccare terra.

Motivi di gioia per i miei sacrifici, per il mio lavoro, per i miei risultati, avevo già avuti molti e molto belli, ma quello era il motivo di gioia.

Era unico.

il più importante per me in quel momento.

Non vedevo l'ora di dirlo alla mia mamma ed a tutti quelli che incontravo.

Amici o anche soltanto conoscenti.

In poco tempo, ho fatto così bene quel lavoro, che lo sapevano tutti e quando i ragazzi grandi del condominio, mi hanno detto che da quel giorno ero nella loro squadra se volevo, per me era tutto.

Un' altro sogno quasi impossibile, che diventava realtà.

Ero tranquillo, sereno e felice.

Vivevo da beato.

Tutto quello che facevo, volevo farlo molto bene, perché mi piaceva tanto e lo facevo volentieri.

Con tutte le belle cose da vivere, la maestra compagnia comandante che mi piaceva sempre meno, ed il fatto che non potevo più giocare con i miei amici a pallone sul nostro “Maracana”, perché il mio allenatore non voleva, le vedevo come sacrifici che dovevo fare.

Il prezzo che dovevo pagare, per le cose meravigliose che vivevo.

Poi, un giorno, mentre mi gustavo, in pieno come sempre, tutto quello che vivevo, è arrivata una doccia fredda, ghiacciata.

Come l'acqua dei rubinetti di casa nei giorni di inverno e dalla testa, sulla schiena e fino ai piedi, mi ha congelato in un attimo.

Era arrivata all'improvviso e sembrava che avrebbe messo fine a tutto.

La nostra maestra ci ha detto che eravamo cresciuti e che d'avanti a noi, avevamo ancora soltanto un trimestre da passare insieme, poi noi andavamo alle medie e lei prendeva altri pulcini di prima.

Saremo rimasti per sempre nel suo cuore, perché eravamo stati i suoi primi allievi.

Quello che sentivo dentro, non mi piaceva e se qualche mio amico era felice perché andare alle medie voleva dire essere più grandi, per me, andava tutto benissimo così com'era.

Era tutto bellissimo.

Non volevo cambiare niente.

Non mi interessava cambiare nulla.

Non volevo crescere.