Le Regole Del Paradiso

Text
0
Kritiken
Leseprobe
Als gelesen kennzeichnen
Wie Sie das Buch nach dem Kauf lesen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Jane non avrebbe mai più dimenticato l'incredibile emozione che la sconvolse quando si ritrovò a chiacchierare con una grande donna che considerava a tutti gli effetti un idolo. Legati al nome di Sarah, inoltre, c’erano i sette segreti della magnifica melodia da lei stessa creata: tutti avrebbero voluto saperli, ma a quanto sembrava la musicista non li aveva rivelati a nessuno.

Appena letto il foglio appeso sulla porta, uscì un ragazzo con uno spartito in mano e in quel momento Jane cercò di buttare un'occhiata all'interno della stanza tanto segreta: quello che riuscì a vedere fu semplicemente la sagoma veloce di una ragazza che passava.

Teneva la chitarra in mano e un plettro tra le labbra.

* * *

Sarah Kattabel veniva dal Massachusetts, esattamente da Haverhill. Fin da bambina si mostrava sveglia e acuta, anche se la precoce genialità musicale che le scorreva nelle vene non venne né scovata né tanto meno lontanamente intuita dai genitori. A tavola si parlava del direttore della fabbrica di ceramica in cui lavorava il padre, poi si passava al vice direttore della fabbrica, alle troppe ore della fabbrica, ai pochi o ai troppi ordini arrivati in fabbrica: sempre e solo la fabbrica. Quando Sarah, ormai una signorina di quindici anni, cercava di argomentare qualcosa di diverso a tavola, per esempio citando qualche politico americano o qualche autore letterario, il padre, puntualmente, rispondeva: "Loro basta che indossino giacche e cravatte, che ne sanno che si passa in fabbrica!"

Quando poi si tirava in ballo un artista: "E che gliene frega a Michelangelo che io domani devo alzarmi alle cinque, è bello che morto, beato lui!"

Sarah, nonostante la volontà, nonostante un velo di tristezza che le ricordava che tanto ogni speranza, con lui, era persa, non poteva fare a meno di sorridere alle battute spontanee anche se a volte volgari e scurrili, dell'uomo che per anni le aveva permesso di studiare a scuola, di studiare la musica, di vestirsi e di cibarsi.

Non le chiedeva mai come fosse andata la giornata, o se si trovasse bene a frequentare il corso di musica, però non si era mai tirato indietro nel farle fare quello che desiderava nonostante ritenesse sbagliato studiare anziché cominciare subito a lavorare. Sarah aveva sempre avuto una strana sicurezza su ciò che passava per la testa del padre quando le dava i soldi per pagare la rata del corso di musica; era certa che pensasse fossero solo soldi buttati, che non sarebbero mai tornati indietro in nessuna maniera; lo pensava perché non glieli aveva mai dati con il sorriso, mai una volta che le avesse chiesto se si divertiva o se imparava qualcosa di nuovo, se il professore era bravo. Niente di niente.

Il giorno in cui litigarono non lo avrebbero mai dimenticato, soprattutto Sarah che, dopo aver mandato giù un’infinità di bocconi amari, esplose gridandogli quello che pensava ogni volta che lo guardava negli occhi.

“Ti sembra normale che parli e che pensi solo alla fabbrica? Qualcuno te lo ha mai detto che io non sono una figlia fatta di ceramica? Ho forse dei sentimenti che tu non hai mai capito e adesso che mi serve il tuo appoggio, sei sempre contro di me!”

Quella discussione avvenne subito dopo la grande notizia che entrò in casa Kattabel come un uragano.

Qualcuno che avrebbe distrutto la loro famiglia con la notizia che stava portando con gioia, quel pomeriggio, alle quindici in punto, bussò alla porta battendo due colpi forti e decisi.

Tamara, la madre, aprì pensando fosse la sua vicina alla quale aveva chiesto poco prima, per telefono, un paio di limoni, e invece sulla soglia si materializzò uno dei più grandi critici musicali del mondo: Benjamin Woolf.

Quel giorno passò alla storia. Quando il critico annunciò alla famiglia di voler prendere sotto la sua ala Sarah, sia la madre che il padre fecero presente che il futuro della giovane sarebbe stato quello di terminare gli studi per poi iniziare a lavorare. Non importava se in fabbrica come segretaria o chissà dove, la cosa che premeva di più a loro era vederla occupare un posto fisso, a tempo indeterminato, che le avrebbe permesso di mangiare. “La musica non la sfamerà mai” diceva Tamara.

In quell’occasione la risposta fu negativa. Il critico musicale andò via da casa Kattabel stupito e confuso, non si sarebbe mai aspettato un rifiuto a una sua proposta. Tutti sapevano che avrebbe lanciato in alto qualsiasi artista in cui vedeva talento.

La svolta per la musicista arrivò un anno dopo, quando si esibì in un teatro cittadino e lui, Benjamin, era seduto tra il pubblico. Dietro le quinte le fece un’altra proposta, l’ultima. “Prendere o lasciare” le disse.

Sarah scappò da casa con i soldi della sorella, che le aveva detto di essere dalla sua parte, e si trasferì nella città di Benjamin (fu lui a dirle che la sua era una musica magnifica): da lì iniziò il duro ma fortunato cammino che la portò a essere la più grande musicista contemporanea.

* * *

Dopo il ragazzo con lo spartito in mano, a uscire fu proprio Sarah Kattabel. Quando vide Jane la salutò con un cenno della mano prima di avvicinarcisi.

“Buongiorno, signorina Madison” disse sfoderando un gran sorriso.

Anche Jane stirò le labbra in maniera naturale e spontanea. I denti bianchissimi e perfettamente allineati erano rivolti verso la sua eroina.

“Buongiorno a lei, professoressa Kattabel” rispose la ragazza che, soltanto per guardarla negli occhi, faceva una gran fatica a non balbettare e a tenersi in piedi sulle gambe che le tremavano dall’emozione.

“Te lo dico ogni anno da quando ho letto il tuo meraviglioso tema su Mozart, ma tu puntualmente respingi la mia proposta: vuoi partecipare al concorso musicale di quest’anno?” chiese lei dando alla domanda un tono retorico, come se sapesse l’esito della risposta.

“Io, professoressa, non so se…” Jane bofonchiò qualcosa fino a che lei non la interruppe porgendole lo stesso foglio che era stato appeso sulla porta della sala.

“Sono sicura che per scrivere certe cose sulla musica non puoi che essere una gran musicista” disse lei sorridendo.

Jane diede una rapida occhiata al foglio, ma era convinta che nemmeno quell’anno avrebbe partecipato.

“A me piacerebbe, ma non so suonare bene il pianoforte a tal punto da sostenere un concorso” spiegò nella speranza di chiudere immediatamente quell’argomento; non lo voleva ammettere nemmeno a se stessa, ma l’idea di suonare il suo strumento preferito davanti al pubblico come quello che c’era ogni anno le faceva paura. C’erano pochi soggetti validi in quel liceo, ma erano sempre capaci di riempire la sala presentando le famiglie al completo, amici e talvolta anche qualche sconosciuto.

“Non ho nemmeno mai visto la nuova sala della musica” azzardò lei.

Sarah sorrise per farle capire che aveva afferrato il vero senso di quell’affermazione.

“Adesso devo sbrigare alcune faccende. Ci vediamo alla fine delle lezioni davanti alla sala. E ti dirò un paio di cose sia sul pianoforte sia sulle brutte cose che hai detto”. Girandosi le lanciò un’occhiata complice.

“Quali cose?” domandò preoccupata.

“Non sono capace, ho paura, forse… bla bla bla” rispose la musicista mentre si allontanava.

* * *

Probabilmente Sarah non sarebbe mai venuta.

Jane si trovava davanti alla porta della sala ormai da venti minuti; aveva visto uscire tutti i ragazzi e le ragazze dalle rispettive aule, ma della professoressa nemmeno l’ombra. Dopo quasi quaranta minuti, prese lo zaino da terra e se lo mise sulle spalle, si allacciò il giacchetto tirando fin su la zip e fece per allontanarsi rassegnata, quando una voce calda e femminile la chiamò da dietro.

“Professoressa!” esclamò felice.

“Jane cara, scusami per il ritardo, ma sono stata in presidenza fino a ora. Odio la burocrazia scolastica!” disse sbuffando.

“Non si preoccupi, io credevo si fosse dimenticata” confessò pentendosi subito di tutta quell’insolenza. Le uscì di getto.

“Figurati! Io ci tengo a far avvicinare gli studenti alla musica” affermò lei estraendo dalla sua borsa avana un mazzo di chiavi.

Jane non stava più nella pelle; ogni volta che passava davanti a quella stanza moriva dalla voglia d’entrarci, ma un’inevitabile timidezza le impediva di chiedere informazioni o addirittura di iscriversi ai corsi di Sarah Kattabel.

Finalmente la musicista scelse la chiave giusta, la infilò nella toppa color bronzo e la girò in senso antiorario per tre volte. Per un istante guardò la giovane studentessa come per prepararla psicologicamente a qualcosa che avrebbe visto solamente all’interno di quelle quattro mura; Jane sospirò istintivamente per rilassare il corpo, mentre mani e gambe erano pervase da un leggero e costante tremolio.

“Mi dispiace averle chiesto di farmi vedere la sala, ma sono talmente curiosa di…” Jane non fece in tempo a far capire alla professoressa il suo disagio nell’averla disturbata, che lei la interruppe immediatamente.

“Sono felicissima che tu mi abbia fatto capire che avevi voglia di vederla o, magari, di provare a iniziare a suonare, ne sarei onorata. Allora, vogliamo entrare?”

Senza aspettare la sua risposta, la professoressa spalancò la porta e le due si tuffarono all’interno della sala.

* * *

Meraviglioso.

A Jane non venivano in mente altri aggettivi per descrivere con chiarezza e precisione il complesso di oggetti, arredamenti, strumenti e meticolosi particolari che rendevano unica quella stanza.

 

Le quattrocento sedie rosse, comode come quelle del cinema che distava pochi metri dall’istituto, erano state divise in quattro gruppi da cento; ognuno di essi formava un quadrato dieci per dieci. Il palco invece si trovava in fondo alla sala e toccava entrambe le pareti laterali così da avere il massimo della visibilità; un grande sipario rosso però nascondeva tutto quello che c’era dietro.

Quando Jane alzò la testa notò gli spettacolari lampadari che come gocce di pioggia su un vetro scendevano lunghi e ornati, formati da decine di lampadine con la testa affusolata che si avvolgeva per qualche giro su se stessa fino a terminare in una punta spigolosa.

Ai lati della sala si succedevano diverse bacheche di vetro con le foto dei vari vincitori dei concorsi precedenti. In alto invece erano appesi quadri che ritraevano esclusivamente Sarah Kattabel: lei al pianoforte, lei in un teatro di Parigi, lei circondata dai ragazzi della Royal College of Music di Londra, lei al Teatro Real di Madrid.

“Non ho parole!” esclamò la studentessa continuando a guardarsi intorno. Passò una mano su una sedia e ne sentì la stoffa morbida.

“È tutto bellissimo, questa sala è così diversa dal resto dell’istituto”.

“Ci abbiamo lavorato duramente” rispose Sarah guardandola come fosse la prima volta. I suoi occhi si riempirono di luce al solo ricordo di quanta fatica era stato necessario sopportare nel corso degli anni prima di vedere costruita una bellezza simile.

“Ogni volta che si tiene il concorso si fa il tutto esaurito, vero?” domandò Jane, anche se conosceva perfettamente la risposta.

“Sempre, ogni anno. Non è mai avanzato un posto” rispose la musicista con fierezza.

Jane si avvicinò ai quadri e sembrò studiarli uno per uno con scrupolosa attenzione come farebbe un falsario mentre guarda l’opera da copiare.

“Professoressa, posso farle una domanda?”

“Ti ho già detto che puoi chiamarmi Sarah o sbaglio?” disse lei fingendo di rimproverarla.

“Posso davvero?” domandò Jane. Era un sogno, si disse, sicuramente quello era un sogno.

“Fine di ogni formalità”.

“Grazie, Sarah”.

“Allora, volevi chiedermi qualcosa?” disse per riprendere il filo del discorso.

“Sì: perché suoni in questo liceo nonostante il tuo immenso successo?”

Posò la borsa su una delle sedie e con la testa le fece un cenno.

“Vieni con me”.

La professoressa la precedette, le fece salire i sei scalini laterali e la posizionò al centro del palco, davanti al pesante tendone rosso che divideva gli artisti dal pubblico.

“Quando aprirò questo sipario sono sicura che risponderò, senza parlare, a ogni tua domanda. Sei pronta?” domandò lei puntando l’indice destro su un tasto bianco al centro del quadro elettrico generale.

“Sono pronta” mentì lei.

Con un movimento fluido e continuo il sipario si spalancò, Jane allargò gli occhi e, effettivamente, ogni sua domanda sparì del tutto.

* * *

Trovarsi davanti a tutte quelle sedie vuote dava un’emozione di gran lunga superiore a quella che ognuno avrebbe potuto immaginare.

Jane Madison rimase immobile al suo posto: in quelle sedie vuote vide, come in un flash interminabile, persone di varia estrazione sociale, uomini e donne, signori anziani, qualche bambino, qualche suo coetaneo, parenti venuti da lontano; riuscì persino a sentire quel rumore di sottofondo, anche se minimo, che fa una folla che cerca di rimanere in silenzio, mentre ascolta le ultime delicatissime note del pianoforte. Un attimo di pausa in cui è congelato tutto il terrore dell’artista che teme d’aver fallito, poi lo scoppio di un grandioso applauso, mani che si agitano e si scontrano tra di loro per manifestare al meglio il gioioso fiume d’emozioni che l’artista ha fatto scaturire nei cuori dei presenti.

Jane si girò verso Sarah.

“Ti sei immaginata la folla, vero?” le domandò, come se le avesse appena letto segretamente il pensiero.

“Sì” rispose la ragazza incredula. “Come hai fatto?”

“Ogni artista in fasce lo fa: come l’artista emergente che durante la proiezione di un film non riesce a vedere altro che il suo di film o come lo scrittore che tra gli scaffali delle librerie di tutto il mondo vede solo il suo romanzo”. Sarah gettò gli occhi in pasto alle centinaia di poltrone.

“Come me quando ho visto per la prima volta una platea del genere” raccontò lei. “L’effetto è quello di immaginarsi, anche per un solo frammento di secondo, di essere il più grande, l’inimitabile, colei o colui che mai era nato prima nella storia; allora vedi le persone che si alzano per applaudire il tuo genio. Chi ti stringe la mano, chi ti chiede l’autografo, chi la foto, chi vorrebbe essere come te. Il vero artista raggiunge tutto ciò, ma non è questo a renderlo felice”.

Jane si accigliò.

“Il vero artista non crede che sia stato il pubblico a raggiungere il suo talento, ma che sia stato il talento a raggiungere le persone, sono punti di vista: io la vedo così”.

“Per quanto riguarda il motivo per cui insegno qui, beh, sono convinta che la musica possa salvare i giovani in difficoltà; nel corso degli anni, ho visto alcuni ragazzi abbandonare certi mondi terrificanti come violenza, droga, depressione; quando hanno incontrato il loro strumento che non sapevano di amare, tutto è cambiato fino a migliorargli la vita; si sfogavano, creavano, emozionavano e molti hanno capito che quella era la loro strada quando hanno provato l’emozione che hai provato tu stando davanti alla sala vuota: lì, come un’illuminazione improvvisa, hanno capito quale doveva essere il prosieguo della loro storia iniziata malissimo. In alcuni casi la musica ha fatto e sono sicura che farà ancora altri miracoli. Io mi sento d’essere venuta in questa scuola con una missione: salvare più persone possibili con quest’arte. Ci sono però anche altri casi in cui i ragazzi hanno una visione distorta della musica e credono serva solo a diventare famosi fino a che, nelle loro teste, quello diviene il solo e unico obiettivo”.

“Effettivamente è vero, ma dimmi: perché si sogna di essere famosi?” domandò Jane spostandosi dal centro del palco. Anche se la bellissima sala era vuota, si sentiva in soggezione a rimanere lì.

“Diventare famosi è solo la conferma che quello che si fa è fatto bene, ma in certi casi questo non è vero” rispose enigmaticamente la musicista che, sfiorando i tasti bianchi e neri di un pianoforte a lato del palco, parve rattristarsi al ricordo di un qualcosa di lontano e cupo.

“Vuoi dire che l’eterno artista emergente rimarrà infelice per sempre per non aver raggiunto la fama?”

“Per molti è così e probabilmente non stiamo parlando di veri artisti” disse lei. Poi la guardò negli occhi.

“Sei famosa quando suoni un pezzo e chi ti ascolta, anche solo una persona, piange. Famosa per quella persona. Esiste una fama più gratificante?”

Jane sembrò riflettere a fondo.

“Non confondere mai la bravura di una persona con il suo successo, Jane: conosco pianisti mille volte più bravi di me che però lavorano undici ore al giorno, sei giorni a settimana in un ufficio e fanno fatica ad arrivare a fine mese. Apri il cuore e valuta la bravura di una persona, un po’ come ho fatto io quando stavo per prendere il treno alla stazione di Manchester. L’artista che mi ha emozionato di più nella mia vita chiedeva l’elemosina, scalzo, a dicembre, davanti a una vecchia chiesa abbandonata”.

* * *

“Sono tornata da lui il giorno dopo, ma non l’ho ritrovato mai più”. Sarah si era seduta sullo sgabello disposto davanti al pianoforte.

“Probabilmente…”

“Lo avevano ucciso” tagliò corto lei.

Jane alzò le sopracciglia incredula.

“Me lo spiegò il proprietario di un bar lì vicino: alcuni amici sui trent’anni erano stati a bere da lui per tutta la serata, poi, infastiditi dalla musica, erano usciti e, a forza di botte, avevano finito per ucciderlo”. La professoressa sospirò.

“Da non crederci” rispose Jane avvicinandosi di qualche passo; le piaceva cogliere sul volto di Sarah le impercettibili smorfie che faceva mentre, concentrata nei ricordi lontani, raccontava i vari episodi inerenti alla particolare chiacchierata intrapresa.

“Tutto questo per dirti che l’arte è un mondo a parte; è vero che ci sono persone famose che sono acclamate, ma è anche vero che troverai spesso geni poveri e poveri geni” concluse lei. “Sei d’accordo?”

“Decisamente”. Soffocò l’idea di chiederle in quale categoria si collocasse.

Sarah si alzò dallo sgabello e fece un cenno a Jane. Voleva che si mettesse seduta.

“Dovrei suonare?” chiese la ragazza incerta. Non sapeva fare praticamente nulla davanti ai tasti bianchi e neri.

“Siediti” incitò la musicista.

Jane obbedì e si accorse dell’estrema morbidezza dello sgabello. Posò le dita sui tasti e li carezzò dolcemente, senza premerli.

“Non esplode se ne spingi uno” scherzò Sarah.

Premette un tasto a caso.

“Vorrei davvero imparare a suonarlo; tu saresti disposta a insegnarmi le basi?” domandò Jane. Nella sua voce riconobbe un tono di sicurezza finalmente, come se quel contatto le avesse scatenato dentro un indefinibile incantesimo senza nome.

“Certo che sarei disposta. Ne sarei anche felice” aggiunse lei.

“Allora considerami una tua allieva”.

* * *

Una seconda possibilità.

Le era stata concessa da un giovane sconosciuto entrato nella sua vita all’improvviso, senza presentazioni, senza nessuna formalità, come la testa di un minuscolo fiore che spunta fuori dalle viscere di una parete rocciosa. Le aveva salvato la vita senza vantarsene o pretendere alcunché in cambio e adesso, dopo che Sarah Kattabel aveva accettato di impartirle lezioni di pianoforte, quella seconda possibilità iniziava a colorarsi di un senso tutto nuovo ed era pronta a vivere la seconda vita che le era stata concessa; aveva promesso a se stessa che non avrebbe ripetuto mai più un errore simile. Forse era questo ciò di cui a volte parlava la luce che aveva negli occhi quel ragazzo e che Jane, come un’abile ed esperta esploratrice, aveva scoperto. Ogni volta che la guardava, le dava un senso indefinito, ma forte, di quello che Noel riusciva a trasmettere. Solo avvolta in quello sguardo, si poteva leggere la voglia di vivere e di godersi ogni attimo che quel ragazzo aveva nell’unica vita che gli avevano dato; avrebbe dovuto registrare nella pellicola della sua memoria l’espressione che assumeva quando parlava o quando le diceva una cosa e subito dopo sorrideva godendo di una felicità palpabile, di quelle che contagiano.

L’ora di pranzo era ormai passata da un pezzo e, prima di salire a casa, gettò una lunga occhiata all’entrata principale del parco con la vana speranza di riuscire a vedere Noel. Non avendo il suo numero di cellulare non lo avrebbe potuto avvertire in nessun altro modo. Si sarebbe inceppata con le parole, non avrebbe saputo come alimentare la conversazione. Meglio di no. Meglio continuare a vedersi di sfuggita.

Quando entrò in casa Jolie non c’era. Si affacciò in cucina, ma non c’era nessuno.

Scuotendo la testa aprì la porta della sua cameretta e lanciò un grido di terrore.

* * *

Per lei era quasi una conquista.

Voleva anche Jane Madison tra le allieve non solo perché aveva scritto il tema più affascinante, originale e inimitabile dell’istituto, ma perché quella ragazza possedeva qualcosa che non aveva mai intravisto in nessuna delle sue giovani studentesse. Bastava vederla camminare, aggirarsi tra i corridoi, la media dei voti al massimo, gli occhi di un azzurro in cui prima non aveva creduto possibile imbattersi. Era una bellissima ragazza, dotata di un carattere timido compensato dalla sua acuta intelligenza e Sarah voleva aiutarla con tutto il cuore a raggiungere un ottimo livello anche nel campo musicale. Era sicura che sarebbero diventate grandi amiche, ma al di fuori di questo Sarah non sapeva spiegarsi cosa riusciva a percepire quando ci parlava o quando la vedeva.

 

Accese la tv e lesse di sfuggita la prima pagina del suo quotidiano preferito, The Seattle Time. Diverse volte i giornalisti avevano parlato di lei, della grande musicista che, nonostante l’enorme successo, insegnava in uno dei peggiori istituti della città, per di più gratuitamente. Anche Jane le aveva chiesto perché lo facesse e, nonostante le avesse risposto, Sarah non aveva detto tutta la verità. Nessuno la sapeva tranne la sua migliore amica, Anna McMiller che, proprio in quel momento, suonò alla porta.

“Anna!” disse Sarah accogliendola con un abbraccio. Lei la guardò senza ricambiare il saluto amorevole.

“Sei vestita e non indossi la tua orribile vestaglia con la quale giri per casa tutto il santo giorno” constatò lei. “Non dirmi che sei tornata adesso dal liceo” diede un’occhiata all’orologio.

Sarah le voltò le spalle e tornò ai fornelli. Sapeva perché era venuta. Il momento della ramanzina era appena arrivato.

Anna chiuse la porta e la raggiunse. Sul tavolo c’erano ancora i residui della colazione: fette biscottate, un barattolo aperto di marmellata, il bicchiere d’aranciata lasciato a metà.

“Se vado in camera tua e trovo il letto ancora disfatto vengo qui e te ne do tante da mandarti all’ospedale” Anna stava partendo in quarta quando la sua migliore amica la fermò dicendole che il letto era ancora come lo aveva lasciato appena si era alzata.

“Non ho fatto in tempo stamattina, lo faccio dopo pranzo, che c’è di male?” domandò Sarah mentre infornava una pizza surgelata.

“C’è che non stai bene, Sarah, non stai bene da sola e le possibilità non sono tante”.

“Le possibilità di fare cosa?”

“Di iniziare di nuovo a vivere! Non puoi crogiolarti ogni giorno, dirti che tornerà o di aspettare il miracolo dal cielo: Dio ti aiuterà, tu però dagli una mano!”

Sarah sorrise per la perenne ironia che la sua amica riusciva a far trapelare da ogni poro, in ogni momento. Si conoscevano da più di vent’anni.

“Chi ti dice che io non lo faccia?”

“Per favore, Sarah… puoi fregare i teppisti di quello schifo d’istituto, non me” concluse decisa.

“Perché non riprendi a suonare? Perché hai interrotto i tuoi tour?” La domanda non necessitava di una risposta, era ovvio e scontato il perché, eppure l’amica gliela faceva spesso, come una doccia fredda per farla riprendere.

“Voglio aiutare quei ragazzi in difficoltà” fu la spiegazione della pianista.

“Sappiamo entrambe che non è così” aggiunse Anna togliendosi la giacca che appese sullo schienale della sedia.

“Il tour è troppo impegnativo, io…”

“Tu cosa?”

“Io voglio aiutare quei ragazzi che hanno perso la giusta via, voglio aiutarli a riprendere in mano la propria vita” il tono di Sarah risultò molto convincente, ma non tanto per chi la conosceva a fondo.

“Per quello esistono le suore, i miracoli e le case di recupero o come diavolo si chiamano: a chi ha perso la strada non servono le indicazioni di una persona che si è persa da un pezzo, non credi?”

“Io non mi sono persa”.

“Sarebbe stato meglio che lo avessi fatto dato che invece di andare avanti perdendoti hai preferito fermarti. Sarah, ti sei fermata, sei immobile da troppo tempo ormai. Non tornerà a prenderti”.

“Se dovessi fare la coach di una squadra sareste sempre ultimi, lo sai?”

Sarah continuava a sentirsi a disagio. Ogni volta che si affrontava quel discorso, praticamente ogni volta che si vedevano, non sapeva mai come rispondere alle domande dell’amica come quella più difficile: ti decidi ad andare avanti o vuoi aspettarlo inutilmente tutta la vita?

Da quando il suo ex marito Matt Gordon aveva chiesto il divorzio, la musicista aveva smesso di portare avanti i suoi tour, si era lasciata andare a se stessa; fortunatamente aveva messo da parte un impero economico tale da permetterle di occupare il ruolo di insegnante nell’istituto, anche se aveva chiarito subito il patto con il preside riguardo il suo stipendio: non voleva soldi. Per il liceo fu un colpo di fortuna incredibile e per lei invece fu una specie di sfida da portare avanti, almeno quei teppisti, nel loro male, le avrebbero fatto bene tenendola occupata, dandole problemi e battaglie quotidiane da risolvere.

“Non scherzare Sarah, non posso più vederti in queste condizioni e sai che non parlo di quelle economiche o quelle fisiche: parlo della tua felicità. Non è giusto nemmeno sfruttare i ragazzi per tenerti occupata, fai giardinaggio, loro che c’entrano?”

“Non li sfrutto! Loro aiutano me senza nemmeno saperlo e io aiuto loro con la musica. Visti i risultati non puoi dire che io non sia riuscita!” Sarah alzò leggermente il tono della voce.

“Devi imparare ad essere felice, non a crearti continui scudi”.

“Anna, te lo dico ogni volta che parliamo di Matt: io senza di lui sono una donna finita, lo amo più di quanto possa amare me stessa, sacrificherei la mia musica, i soldi e la fama: lo capisci che è riuscito a diventare più importante di ogni altra cosa? Riesci a capirlo questo?”

“Ricordati dove ti ha portata la musica però! Questo tu riesci a capirlo? Io devo lavorare dieci ore al giorno e stare con l’acqua alla gola ogni mese, mentre tu puoi anche permetterti di non lavorare” disse l’amica.

“Io me li sono guadagnati quei soldi!” Sarah aveva il piatto davanti e mangiava la pizza come se andasse di corsa. Parlare di Matt la mandava fuori di testa.

“Appunto, diamine! Appunto! Te li sei guadagnati da sola perché sei una con le palle, non sei una gatta morta come le altre!”

“Considero una fortuna il fatto di occuparmi di quei ragazzi nonostante quello che è successo in passato”. I suoi occhi si gonfiarono al solo ricordo. Anna ebbe timore a intraprendere quel discorso, ma lo avrebbe fatto se necessario.

“La musica mi ha portato anche le due perdite più assurde della mia vita. Mi ha dato i soldi e la fama, questo lo sappiamo, ma l’ho pagata cara questa posizione, anche se…” Sarah scoppiò a piangere. Gettò il bordo bruciacchiato della pizza nel piatto e si mise entrambe le mani sulla faccia per coprire le lacrime che Anna conosceva a memoria; guardò la sua amica piangere e le venne un’incredibile voglia d’abbracciarla, di dirle che tutto si sarebbe aggiustato, ma le avrebbe fatto solo del male. Per fin troppi mesi aveva adottato la via più facile, era ora di darle scosse continue, di farla piangere e farle capire dove sarebbe finita se avesse continuato così.

“Lo sai anche tu: Matt lo hai perso e hai anche perso…”

“No! Ti prego Anna non ce la faccio… io…” Sarah riprese a piangere con foga. Anna decise di risparmiarla per quella volta, solo per quella volta, ma non abbandonò la via dura.

“Va bene, non parliamone, ma punto primo tu non potevi saperlo né tanto meno prevenirlo, punto secondo non potevi fare assolutamente niente”.

“Sì che potevo” rispose lei “ed è per questo che Matt se ne è andato. Potevo e non l’ho fatto: è per questo che se ne è andato. È solo colpa mia”.

Anna si trovò in difficoltà. Non voleva ammetterlo nemmeno a se stessa, ma nel profondo sapeva anche lei che Sarah aveva agito con intelligenza, altruismo e aveva soprattutto creduto fermamente di cambiare le cose, ma facendo così, anche indirettamente, aveva causato la tragedia più triste della sua vita.

“Non serve a niente piangersi addosso: saresti morta se non avessi suonato, Sarah, andiamo! Come ve la passavate in famiglia? Volevi lavorare in fabbrica come tuo padre o fare addirittura la casalinga a vita?”

“Almeno avrei avuto ancora…”

“Basta! Sono anni che ti ripeti questa frase. È ora di stringere i denti, non pensare più a Matt. Sei una grande donna, hai sofferto moltissimo e non tutte avrebbero avuto il coraggio di fare quello che hai fatto e ti dico anche un’altra cosa” Anna prese la giacca e se la infilò. Si avvicinò alla porta e l’aprì. Sarah rimase immobile al suo posto.

Sie haben die kostenlose Leseprobe beendet. Möchten Sie mehr lesen?