Le Regole Del Paradiso

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Non appena Jane chiuse la porta della camera, sapeva benissimo di non poter rivelare a nessuno le due ore spese a leggere segretamente la posta privata del padre.

Gli interrogativi sull’intera faccenda sembravano moltiplicarsi senza freni; domande apparentemente senza risposte plausibili e fondate iniziarono a farle oscillare la testa. Fino ad allora aveva sempre trovato scuse ai suoi comportamenti: la violenza che usava con lei poteva essere uno sfogo, una grande rabbia che non riusciva a controllare se solo pensava alla moglie e al dolore provato dopo la sua morte. Ma adesso che sapeva qualcosa di più riguardo al suo oscuro passato, dopo l’uragano scatenato dalle lettere le sue ipotesi, già in bilico appena formulate, crollavano definitivamente. Jane aveva addirittura teorizzato che si fosse fidanzato con una tipa ridicola come Ginger perché, avendo avuto solo una donna nella sua vita, dopo tanti anni cercava di scaricare le sue pulsioni d’amore sull’unica donna che gli donava qualche attenzione, ma anche questa conclusione ora era completamente priva di senso.

Quelle lettere avevano vanificato ogni conoscenza che Jane possedeva sul conto del padre; avevano messo a nudo un uomo colmo di peccati e cattiverie. Stava visualizzando le sue mani, leggermente rugose, ma forti, che avevano toccato decine di donne sole, di donne che lo usavano per sesso e soldi. S’immaginava sua madre sola seduta sul divano, davanti alla televisione accesa, mentre fuori la pioggia batteva forte contro San Francisco.

Lui non c’era.

Lei rimaneva a casa, anche durante il weekend. Intanto le lancette dell’orologio correvano veloci, il tempo di Grace si stava prosciugando e lei non si stava godendo niente della sua vita; quelle lancette, con precisione millimetrica, raggiunsero a gran velocità la sua ora, quella maledetta ora in cui si consumò l’incidente letale che la strappò via dalla faccia della terra.

Il tempo da quel momento in poi non aveva più senso.

Gary non aveva più senso.

E nemmeno Jane.

Grace era morta.

Tutto era finito.

Gioie e dolori.

Jane chiuse un attimo gli occhi, anche se percepiva il vuoto totale intorno e dentro di lei. Decise di scendere a fare l’ennesima passeggiata nei paraggi di casa per distrarsi.

Evitò di andare al parco, non aveva la minima intenzione di incontrare, se c’era, quel ragazzo che sembrava cercare disperatamente la sua attenzione.

Era una fantastica giornata e non faceva tanto freddo. Il cielo era vestito d’un azzurro chiaro e delicato, qualche nuvola bianchissima di passaggio lo accarezzava. Tutto dava l’impressione che fosse una bella e felice giornata, ma la ragazza dai capelli d’oro continuava a sentire dentro una sensazione di disagio assoluto. La verità che aveva appena scoperto, unita alla consapevolezza che quelli erano giorni in cui avrebbe dovuto essere morta, le provocava un notevole disorientamento. La cosa che le dava più angoscia e felicità allo stesso tempo era il pensiero che in quel momento, se fosse morta dopo quel pericoloso gesto, si sarebbe trovata con sua madre.

Il pessimismo, senza che se ne accorgesse, le si era già infiltrato ovunque come un orribile tumore che lancia le sue metastasi mortali; lo sgomento di Jane lasciava trasparire un senso d’ingiustizia inaudito e produceva pensieri terribili: come batteri, erano capaci d’infettare ogni suo sforzo di sollevarsi, svalorizzavano la voglia di andare avanti che pian piano cercava di costruirsi; quel vento freddo, incessante, soffiava ovunque lei andasse ed era talmente freddo da distruggerle, come castelli di sabbia, tutti i progressi, tutti i passi in avanti e le prospettive di non arrendersi.

La tragedia più grande risiedeva sulle sue labbra.

Tutti se ne sarebbero potuti accorgere.

Non sorrideva più.

* * *

Sovrappensiero, Jane era arrivata davanti al parco.

Dubitò se entrare o meno perché accarezzava sia il timore di incontrarlo, sia la curiosità insistente di saperne di più sul suo conto, come farebbe un investigatore pignolo quando, correlato al caso irrisolto di una vita, spunta quello che per lui è un nuovo e prezioso indizio. Si mise seduta su un’altalena e cercò di rilassare le gambe. Guardò il taglio sul polso e lo fissò per una manciata di secondi. Si era rimarginato del tutto e ancora le faceva strano pensare che da quei sei centimetri circa di ferita si sarebbero potuti dileguare 21 anni di vita.

Cercando di allontanare quei pensieri, si concentrò su qualcosa di meno spiacevole, ma quella battaglia mentale si consumò senza un vero e proprio risultato soddisfacente.

Si era già fatto buio, i bambini ormai erano spariti, trascinati via sicuramente dalle mamme annoiate che gli ricordavano che si era ormai fatta ora di cena e che il freddo era ormai davvero insopportabile. In effetti anche il vento iniziò a farsi sentire e Jane, alzandosi, decise definitivamente di chiudere lì l’uscita pomeridiana.

Improvvisamente sentì un rumore alle sue spalle. Si girò di scatto con il cuore in gola. Un gattino camminava tranquillo dietro di lei, ignaro di tutto. Lo guardò poi arrampicarsi agilmente su un albero. Tirò un sospiro di sollievo e sorrise.

Girandosi, però, si trovò davanti l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.

* * *

Una pioggia di terrore le cadde addosso. Pietrificata dalla paura, si accorse che il ragazzo che tanto cercava di evitare le era comparso davanti come d’incanto, a pochi metri. D’istinto Jane affondò il suo sguardo negli occhi del misterioso ragazzo immobile, ma avvertì subito un senso d’angoscia che l’avvolse in una soffocante stretta. L’idea di affrontarlo e il coraggio di sconfiggere le sue paure sparirono.

Nonostante la curiosità iniziale, mai avrebbe voluto trattenersi un secondo di più, ma lui, rimanendo in piedi, sembrava volesse sbarrarle la strada; quello sguardo di ghiaccio, fisso e incollato al suo corpo, la inquietò.

“Ci si rivede” esordì lui con un tono basso.

La sua voce le entrò nel corpo e sembrò congelarla.

Cercò di abbozzargli un sorriso.

Sapeva che, se fosse stata in grado di sostenere quella conversazione, probabilmente se la sarebbe cavata con le parole, magari avrebbe potuto trovare una scusa e abbandonare quel maledetto parco, ma vederlo lì davanti, in piedi, a pochissimi metri, provocava una feroce sensazione che vietava l’uso della parola, a favore di un indecifrabile silenzio.

Avrebbe voluto scappare via il più velocemente possibile, ma le gambe, come colonne di cemento, non le avrebbero permesso una corsa fluida.

A illuminare il ragazzo malintenzionato c’era un solo lampione basso che, proiettando una luce ingiallita, sembrava messo in quella posizione appositamente da un famoso regista impegnato nella realizzazione del suo nuovo film horror.

“Hai perso la lingua?” stuzzicò lui inclinando leggermente la testa verso destra.

Jane scosse il capo.

“Allora perché non mi parli? Dì, ti ho fatto qualcosa?”

Jane contò fino a tre. Poi sarebbe scappata.

“Allora?” continuò lui. “Non rispondi?”

Uno.

Il ragazzo sorrise e nella sua espressione sembrò esserci un misto tra pena e rabbia.

Due.

“Se parliamo un po’ non ti mangio mica, ceno a casa non preoccuparti!” disse e, per ridere, il ragazzo buttò la testa all’indietro e si lasciò andare a una sonora risata.

Tre!

Jane scattò dal suo posto con gran velocità e iniziò a correre, anche se sentiva le gambe ormai atrofizzate dalla paura. Per un attimo si preoccupò addirittura dell’andatura goffa e impacciata.

Ce l’aveva quasi fatta. Stava prendendo sempre più velocità quando a un certo punto il ragazzo, ormai alle sue spalle, gridò qualcosa.

La paura che attanagliava Jane si trasformò in un sentimento di confusione, ma anche di profonda e immediata riflessione.

La sua corsa si ridusse a un passo veloce, fino ad arrestarsi del tutto.

* * *

Gli dava le spalle.

Continuava a tenere gli occhi fissi sul cancello, ancora qualche passo e si sarebbe ritrovata fuori da quella che sembrava essere diventata la sua trappola. Come per alcuni processi che pretendono tempi precisi, anche lei si concesse qualche secondo per metabolizzare ogni parola che aveva appena udito. Si girò prima lateralmente, come per controllare la situazione con la coda dell’occhio, per poi girarsi definitivamente.

Ancora non si dissero niente. La ragazza si avvicinò a passi lenti, spogliata di ogni paura, concentrata su quello che adesso sembrava essere un ragazzo meno misterioso, meno straniero, meno nemico.

Quando si trovarono appena a qualche metro di distanza, Jane aprì la bocca come per chiedergli di ripetere quello che aveva detto, ma lui l’anticipò.

“Non importa se scappi ogni volta che mi vedi” ripeté il ragazzo riuscendo a usare le stesse parole di un attimo prima, “la cosa che conta è che tu non venga per fare quello da cui ti ho tirata fuori l’ultima volta”.

Jane sentì inumidirsi gli occhi, guardò quel giovane da una prospettiva nuova, riscoperta, più complessa sicuramente, ma anche più nuda, a un passo dalla verità, come quando una persona ci meraviglia con qualcosa che avremmo scommesso non sarebbe potuto uscire dalla sua bocca, o con un’azione che, ai nostri occhi inquinati dal pregiudizio, non avrebbe mai potuto appartenere a chi abbiamo prepotentemente avuto l’ardire di giudicare.

 

“Quindi tu…”

Il ragazzo si allontanò con qualche passo stanco dirigendosi verso lo scivolo più grande del parco giochi. Si sdraiò.

“Ho soltanto fatto quello che mi sembrava più giusto fare”.

Adesso che aveva realizzato a pieno il merito che quel ragazzo gestiva con evidente modestia, Jane gli attribuì una specie di significato invisibile a occhi esterni; vedeva solo lei la gratitudine spontanea con la quale lo aveva rivestito. Nei pochi giorni di convalescenza aveva avuto l’occasione, a mente fredda, di analizzare in modo minuzioso quello che aveva fatto e quello che aveva rischiato fino a rendersi conto d’aver commesso un grave errore. Inaspettatamente, però, aveva scoperto chi le aveva permesso di rimediare all’errore e, in quel momento, non poté far altro che osservarlo sdraiato sullo scivolo, con lo sguardo sparato tra le stelle.

Avvicinandosi, poté notare alcuni dettagli che, durante i minuti precedenti, attaccata da un senso di confusione e agitazione, erano abilmente sfuggiti alla sua attenzione: gli occhi profondi, il naso leggermente a punta, la bocca definita e carnosa, le orecchie minute e le marcate sopracciglia. Tutto questo disegnava un volto pulito e proporzionato al resto del corpo. Di colpo e senza motivo le vennero in mente dei compagni di classe: alcuni avevano teste enormi rispetto ai corpi gracili, alcuni lo strabismo di Venere, altri ancora avevano caratteristiche orribili, pessime espressioni, caratteri impossibili, voci rauche, occhi spenti. Guardare quel ragazzo fu come ricredersi sulla bellezza maschile, fu come lasciarsi andare e affermare tutto il suo fascino; non aveva di per sé particolari caratteristiche fisiche, ma era soprattutto il suo sguardo a disorientarla.

“Ti devo tutto” disse lei, come se quella fosse la conclusione del ragionamento mentale a cui lui non aveva assistito.

“Non l'ho fatto per ricevere qualcosa in cambio” rispose lui rimanendo sdraiato, con le mani intrecciate dietro la nuca.

“Mi hai salvato la vita”.

“Se non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto qualcun altro, non credi?”

“Non fare il modesto, il punto in cui....” la voce si spezzò. Riprese subito dopo pochi secondi. “Mi trovavo in un posto isolato. So per certo che non c'era nessuno perché avevo controllato in precedenza quindi se non…”

“Non fa più niente” disse lui rizzandosi a sedere. “L'importante è che sia andato tutto per il meglio, no?” Sorrise e, dopo un momento, si alzò in piedi.

“Il sangue…” riprese Jane con tono interrogatorio. Voleva vederci più chiaro. Parlare con gli sconosciuti, specie se uomini, le metteva un senso di ansia non indifferente, ma lui sembrava l’unica eccezione possibile. L’unica e la sola valida.

“Il sangue?”

“Non ti ha impressionato tutto il mio sangue? Non ti sei sporcato?” domandò velocemente.

“Non ce n'era tantissimo” si difese lui.

“Ma se ho perso i sensi!” sbottò Jane.

“Ti sembra necessario ora discutere sul come e perché? Non sei contenta di essere viva?”

Quella domanda retorica placò la sua angoscia e ammise di aver esagerato. Che motivo c'era di farsi tante domande?

Non si fidava di lui?

Decise di non farne più, anche se sfiorò il pensiero di fargliene un'altra, l'ultima: perché l’aveva lasciata sul retro dell’ospedale?

* * *

“Il cielo è pieno di stelle” se ne uscì lui tenendo la testa buttata all'indietro.

Jane imitò la sua posizione e si accorse che effettivamente il cielo aveva milioni di punti luce addosso, come un meraviglioso tappeto incastonato di preziosi diamanti.

“Bello, non trovi?”

“Molto” rispose lei. Lo guardava, ma ogni tanto chinava gli occhi in basso. Non avrebbe voluto sparargli tutte quelle domande insieme e a gran voce, come invece aveva fatto

“Ogni volta che alzo gli occhi al cielo mi viene in mente la storia che mi raccontò mia madre, molti anni fa” disse lui continuando a tenere gli occhi fissi sulle stelle.

“Se ne hai voglia puoi raccontarmela” lo incoraggiò Jane. Si sedette sull'altalena.

“Quando mia zia morì in seguito a una brutta malattia, non riuscii a dormire più come prima. Era tutto per me e appena la persi mi dissi che la sua mancanza mi avrebbe tormentato per sempre; avrò avuto circa otto anni e mia madre, quando per l'ennesima volta venne svegliata dai miei lamenti notturni, mi preparò una tisana e mi chiese se avevo voglia di vedere mia zia”. Il ragazzo sorrise.

“Che faccia avrò fatto non lo so, mi ricordo solo che gridai un forte 'sì'. Lei mi prese la mano, si diresse verso la grande finestra dalla sala e indicò il cielo. Mi disse: 'La vedi quella stella laggiù? Non puoi sbagliarti, è la più luminosa'. Io la fissai incantato e annuii. 'Quella è zia. Adesso si è trasformata in una stella. Ogni volta che vorrai la potrai guardare e salutare con il pensiero. Zia non se ne andrà mai da lì'”.

Il ragazzo distolse lo sguardo da Jane per alzarlo di nuovo al cielo.

“Non dimenticherò mai l'ingenua felicità che provai. Sapevo che in qualsiasi posto fossi andato, sarebbe bastato alzare la testa un attimo per guardarla quanto volevo. Questa dolce bugia riuscì a farmi calmare e a farmi accettare meglio la sua morte”.

Il sorriso che aveva tenuto per l'intera storia scomparve.

“È stata davvero molto delicata con i tuoi sentimenti” osservò la ragazza.

“Sì. Col passare degli anni ovviamente la bugia di mia madre non teneva più e di questo ho pianto. Avevo perso la fiducia in quella stella. Ho sempre apprezzato il suo gesto, ma alla fine l’ho pagato molto caro. Un po' come quando scopri che l'amato Babbo Natale non esiste” disse lui tornando a sorridere.

Anche Jane si addolcì. Lei in realtà non ci aveva mai creduto, ma questo non poteva dirglielo. Non poteva raccontargli, come aveva fatto lui, nemmeno un frammento della sua storia familiare. Gary, quando si avvicinava il fatidico giorno in cui si sarebbero dovuti scartare i regali, le ripeteva che doveva ringraziare il cielo di avere un tetto sopra la testa e il cibo tutti i giorni quando invece nel mondo c'erano tanti bambini che morivano di fame. La banale scusa serviva soltanto a farla sentire in colpa e a non farle desiderare nessun regalo; in questo modo non avrebbe speso un centesimo e tutti sarebbero stati più contenti, secondo il suo logico e perfetto ragionamento. Dopo svariati anni, Jane aveva perso del tutto la fiducia sia nella festa in sé, sia in un tentativo da parte del padre di cambiare atteggiamento e non per comprarle chissà cosa: bastava anche essere poco più gentili. Ma questo regalo, desiderato e gratuito, Gary non glielo aveva mai fatto.

“Quando guardo le stelle, però, una parte di me, la più nascosta, ancora è convinta che zia sia realmente quella stella. La più luminosa di tutte”. Il ragazzo lanciò un ultimo sguardo in alto, poi lo incrociò con quello della ragazza.

“A volte abbiamo bisogno di credere in qualcosa che non esiste, non trovi?”

“Sono perfettamente d'accordo” anche se avrebbe voluto aggiungere altre mille parole, Jane si limitò a un pensiero solo.

“Come ti chiami?” domandò d'un tratto lei.

“Io mi chiamo Noel” rispose dopo un attimo d’esitazione. “Scusami se non mi sono presentato prima”.

Jane si alzò dall’altalena dandogli la mano e lui l'afferrò avvolgendola nella sua.

La ragazza si accorse che, nel momento in cui le loro mani si toccarono, il suo sguardo si fece molto più intenso e nella luce che intravedeva nei suoi occhi intuì qualcosa che non andava, qualcosa di malvagio.

Lui serrò i denti e diventò serio.

All'improvviso Jane ebbe la terribile sensazione di essersi sbagliata sul conto di quel ragazzo.

Realizzò che Noel aveva iniziato a stringerle la mano con - forse - l'intenzione di non lasciarla più.

* * *

L’attimo in cui credette d’aver visto il male negli occhi di Noel sembrò infinito.

Quella forza in più che le era parso d’avvertire nel momento in cui le aveva stretto la mano, aveva avuto un effetto disastroso sul suo stato d’animo, ma sembrava ormai essersi acquietato.

“C’è qualcosa che non va?” le chiese Noel lasciandole finalmente la mano.

“No” rispose Jane con voce secca. Il cuore ancora batteva velocemente, però decise di non andarsene subito; sfidò se stessa e cercò di rimanere ancora davanti a lui per liberarsi della paura che, in qualche modo, le faceva vivere.

In quegli occhi scuri c’era tanto mistero; Jane sentiva un’attrazione verso di lui che non riusciva a spiegarsi razionalmente, come se d’improvviso avesse voluto sapere tutto di lui, ogni singola cosa, avrebbe voluto sapere di più sul suo passato, sulla famiglia.

Il conflitto d’emozioni che percepiva cercò di nasconderlo dietro atteggiamenti disinvolti. “Forse è ora di tornare a casa, che ne dici?” propose non sopportando più l’angoscia che le aveva preso lo stomaco.

“Io rimango ancora un po’ qui” rispose Noel.

Intrecciò le mani dietro la testa e tornò a fissare il cielo stellato.

“Non devi andare a cena?”

“Sì, ma a casa mia si mangia sempre molto tardi: è una brutta abitudine che ha imposto mio padre con i suoi scomodissimi orari di lavoro”.

“Io vado, allora” chiuse lei. Sapeva che sarebbe stato poco educato non andargli accanto per salutarlo, ma non ne se curò. L’idea di andargli vicino, talmente vicino e addirittura baciarlo sulla guancia, le sembrò assurda. Non ce l’avrebbe fatta ad affrontare quello sguardo freddo e penetrante e sicuramente non ce l’avrebbe fatta a sfiorare la sua pelle. Quando lo salutò con un cenno della mano e lui ricambiò, Jane fece per andarsene. Di passo in passo s’accorse che forse aveva sbagliato a essere così maleducata solo per aver dato ascolto alle sue paure egoiste, avrebbe dovuto farsi coraggio per salutarlo bene, anche se dentro sentiva un po’ di timore. Si fermò un istante dopo aver percorso una decina di metri, il battito restò veloce, non si era mai alterato. Si sarebbe scusata e con gentilezza gli avrebbe spiegato che non lo aveva salutato perché…

Jane si girò e lo scivolo era vuoto.

Noel non c’era più.

Si alzò dalla sedia quando entrò il professore di chimica.

Gli studenti che ormai si erano accomodati non ebbero la minima intenzione di imitare il gesto di Jane, nemmeno per sogno.

Il professore lanciò un'occhiata alla ragazza e le fece un sorriso.

"Grazie, puoi sederti” disse lui raggiungendo il posto in cattedra.

"La solita leccaculo” osservò Kris, posto centrale, prima fila. Il professore fece finta di non aver sentito.

"Ragazzi oggi dobbiamo assolutamente iniziare a spiegare la polarità della molecola” annunciò aprendo il suo manuale.

"Io vado a casa” sentenziò una ragazza mora. Si alzò dalla sedia e si diresse verso la porta.

"Paula, ti consiglio di ritornare al tuo posto dato che ti serve ascoltare questa lezione".

"Io invece ti consiglio di ritornare a casa dato che tua moglie starà scopando con il tuo migliore amico” ruggì lei sbattendo la porta. Qualcuno scoppiò a ridere.

"Pagina 348” annunciò lui un attimo dopo il prezioso consiglio della studentessa. Ovviamente nessuno aprì il libro, ma il professore iniziò a spiegare senza guardarli negli occhi. Rimaneva costantemente rivolto verso la lavagna, disegnava la sua graziosa cellula, scriveva le formule, gesticolava e restava, per tutta la durata della lezione, di spalle ai ragazzi.

Non appena Ashley si alzò dal proprio posto a Jane mancò l'aria per la paura.

"Piccola chimica delle mie palle, fuori i soldi” sbottò, sicura che il professore non si sarebbe girato.

Jane la guardò chiedendole pietà con lo sguardo.

"Avanti porca puttana, non posso mica starti dietro tutto il santo giorno” aggiunse agitando la mano protesa verso di lei.

La ragazza estrasse tre dollari dall'astuccio e, senza nemmeno porgerglieli, se li vide strappare via dalla sua nemica più agguerrita.

"Dammi anche la relazione” aggiunse Ashley.

"Quale relazione?"

La reginetta della scuola le diede un tremendo pizzico sul braccio.

 

"Non prendermi per il culo!” gridò lei.

Il professore aveva quasi finito la sua lezione.

"Va bene, va bene” si arrese. Dal quaderno estrasse la relazione che il professore aveva assegnato la settimana prima delle vacanze e che chiese subito dopo aver spiegato la polarità della molecola.

Ashley si alzò e con passo deciso lo raggiunse.

"Professore, questo è il mio compito” lo informò ponendogli sotto agli occhi il foglio ben scritto; Jane aveva approfondito gli argomenti, disegnato a mano le illustrazioni, inserito anche le parole esatte dei grandi chimici che parlavano dell'argomento in questione.

"Perfetto Ashley”.

Le guardò per un attimo la gentile scollatura che mostrava il seno poderoso e provocatorio.

"Come sempre sei l'unica che rispetta le mie consegne; se continui così ti porterò alla fine dell'anno con il massimo dei voti”.

"Grazie professore” concluse lei e, soddisfatta, tornò a sedersi.

"C'è per caso qualcun altro che ha avuto il buonsenso di portare la relazione che avevo chiesto di fare?”

Nessuno rispose e quindi il professore uscì dalla classe con la relazione di Jane tra le pagine della sua agenda.

Ashley si avvicinò con aria minacciosa chiedendo sempre la stessa cosa. Jane cercava inutilmente di opporre resistenza, ma riusciva a fare solo una debolissima obiezione che non avrebbe intimorito nemmeno una bambina. La reginetta le sferrò un calcio sulla tibia.

"Ashley, mi hai fatto male!” sbottò Jane toccandosi la parte colpita.

"Jane, non vorrai mica farti malmenare ogni mattina, lo sai tanto ormai come funziona: possibile che io debba sempre ricordartelo?"

"Ti prego dalle questi soldi” s’infastidì un ragazzo seduto qualche posto più avanti. "Sono due volte che te li chiede e due volte che fate storie. Paga e non stancare”.

Jane le diede cinque dollari che aveva trovato il giorno prima per puro caso tra alcune cianfrusaglie.

Ashley prese silenziosamente i soldi, si avvicinò al ragazzo che aveva osato mettersi in mezzo alle sue faccende e gli assestò una violenta ginocchiata sui genitali. Il ragazzo si piegò su se stesso e si accasciò a terra senza fiato.

"Da domani portameli anche tu un po' di soldi” aggiunse sistemandosi una ciocca di capelli fuori posto.

"Io non....” cercò di dire qualcosa, ma quando Ashley gli affondò pesantemente un piede in mezzo alle gambe, il ragazzo si affrettò a dire che avrebbe portato la grana già dal giorno successivo.

Quando la reginetta si mise a sedere le sue amiche la guardarono un attimo allibite, forse impaurite, poi parlarono l'una sopra all'altra pur di complimentarsi con lei.

* * *

La lettera dell'uomo che temeva di più in assoluto gli venne recapitata a mano da un giovane che, furtivo, si guardava intorno per essere sicuro che nessuno lo vedesse.

"Questa gliela manda il capo” informò consegnandogli una busta bianca; Gary la prese e se la infilò subito in tasca. "Nessun errore. La serata, non appena lui sarà qui, dev'essere perfetta. Se ti devi rifare questa sarà l’occasione giusta per rimediare agli errori commessi”. Il ragazzo se ne andò senza salutare, si limitò a sistemare il berretto che gli era calato da una parte. Gary digrignò i denti e tornò subito a casa nonostante fosse diretto a sbrigare un paio di faccende in centro. Si rifugiò in camera sua chiudendo a chiave la porta.

"Jolie non venire in camera, oggi non la pulire per niente, va bene?” disse estraendo la lettera.

"Sei sicuro Gary? Potrei anche…”

"No, oggi non devi pulire la mia camera!” gridò con foga. Sempre senza esagerare, non poteva superare i limiti con Jolie.

"La camera non la pulisco, ma quel tono non lo usare con me, mi sono spiegata?” rispose lei che stava dietro la porta della camera da letto per essere sicura di farsi sentire bene.

"D'accordo, d’accordo” aggiunse lui per chiudere in fretta la discussione. Quando sentì i suoi passi allontanarsi, finalmente poté dedicarsi alla lettera. L'aprì con l'emozione che si prova quando si legge o si tiene tra le mani qualcosa di incredibilmente proibito. Si accinse subito a leggerne il contenuto.

Tra una settimana esatta sarò di nuovo a Seattle. Devi rimediare agli errori fatti altrimenti, stavolta, non ti risparmio. Sai come farmi divertire. Giocati bene questa possibilità.

È l’ultima.

R.H

Sentì la faccia andare a fuoco. Ogni cosa dipendeva dalle mosse che avrebbe fatto, lui stesso era racchiuso nelle sue mani; una mossa sbagliata, solo una e sarebbe stato fatto fuori. Rütger era un uomo perfido, ma lo sarebbe diventato ancora di più se di mezzo ci fosse stato il profumo di una donna interessante. Era la sua peggior malattia, andava fuori di testa non appena ne vedeva una giovane e bella e se qualcuno, come Gary, per un motivo o per un altro gliel’avesse tolta da davanti gli occhi, si sarebbe infuriato. Si sedette sul bordo del letto sperando che il forte mal di testa si sarebbe placato nel giro di qualche minuto. Rimase senza fiato mentre il suo cervello intensificava i pensieri, creando solo centinaia di problemi, di domande senza focalizzarsi su ipotetiche soluzioni: come fare per accontentarlo? Qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe bastata? Avrebbe dovuto far ricorso a ogni sua capacità organizzativa, avrebbe pregato la fortuna e l'avrebbe implorata di non tradirlo; avrebbe ucciso tutti i suoi conoscenti pur di non fallire in quel delicato compito senza precedenti. Fece forza sulle ginocchia e si alzò nonostante la rabbia che aveva dentro pesasse una tonnellata. Raggiunse il suo armadio e fece per far scattare la serratura con la piccola chiave di bronzo, ma si accorse che qualcuno aveva aperto le due ante senza richiudere il mobile a chiave. Era stato chiaro da sempre con Jane, Jolie e Ginger: nessuno, per nessun motivo, in nessun'occasione, mai e poi mai avrebbe dovuto aprire quell'armadio. Tutte e tre avevano risposto che avrebbero mantenuto la parola. Gary socchiuse gli occhi e serrò i denti. Iniziò a respirare a fatica. Aprì di scatto l'anta e si accorse di qualcosa di agghiacciante relativo alla sua cassettiera. Il suo cuore batté all'impazzata e la gola gli si seccò in una sola manciata di interminabili secondi: un minuscolo triangolino di carta bianca usciva fuori dal terzo cassetto: qualcuno aveva frugato tra le lettere e adesso sapeva tutto sul suo passato.

Chiuse gli occhi e si disse che quella volta avrebbe ucciso qualcuno.

* * *

Per i corridoi sembrava di vivere un intervallo ininterrotto: i ragazzi giravano tranquillamente e, tra grida e schiamazzi, sprecavano le ore che avrebbero dovuto impiegare per imparare qualcosa. Come ogni giorno il suo sguardo finì inevitabilmente sulla porta della stanza proibita, quella in cui nessuno aveva il diritto di entrare. Quel velo di mistero affascinava Jane che, curiosa, andò a leggere un foglio affisso al centro della porta. Il messaggio era composto da un'unica frase che informava gli studenti della possibilità di partecipare al concorso musicale di fine anno che, da quando era stato effettuato il restauro, si teneva con cadenza regolare; gli invitati, fino all'anno precedente, erano stati sempre numerosi e molto soddisfatti dello spettacolo offerto, anche grazie a una delle più straordinarie musiciste del mondo: Sarah Kattabel. Una donna di quarant'anni che aveva rapito tutta la stima e l'ammirazione di Jane. La adorava; ogni volta che la incontrava di sfuggita nei corridoi del liceo, la salutava; solo un paio di volte aveva avuto il piacere nonché l'onore di parlarci di persona. Era successo due anni prima, quando, tra i professori, era corsa la voce di Jane e dell’esame scritto che aveva sostenuto su Mozart. Il suo professore di lettere era rimasto talmente tanto impressionato dallo stile di scrittura, dal contenuto e dal messaggio retorico nascosto dietro quello che doveva essere solo un tema su un musicista a piacere, che lo aveva fatto leggere ai suoi colleghi, fino a farlo avere alla famigerata Sarah Kattabel. Entusiasta, aveva detto che dopo anni di studio sui libri più disparati, non aveva mai letto nulla di equiparabile a quello che una giovane studentessa era riuscita magnificamente a scrivere su uno dei compositori musicali più geniali. Aveva infatti voluto incontrarla per complimentarsi personalmente con lei.