Le Regole Del Paradiso

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Andare avanti con quel vuoto incolmabile dentro che si portava ormai da anni rappresentava la sua guerra più dura. Non aveva conosciuto le emozioni più semplici, non aveva acquisito la mente di una ragazza cresciuta, maturata, ma aveva una specie di grande rimpianto che voleva in ogni modo, senza riuscirci, far sparire cancellando di conseguenza alcuni tratti, più tristi che dolorosi, della sua infanzia ormai perduta.

Spingersi oltre fino a sfiorare il pensiero di ricevere un gesto di affetto era una specie di visione irraggiungibile, una fantasia malata, un’immaginazione drogata. Da che aveva memoria, Jane non ricordava nessun gesto di affetto nei suoi confronti da parte della bestia. I rari discorsi che si consumavano a pranzo o a cena non andavano spaziando in certe tematiche interessanti che avrebbero potuto raccogliere le osservazioni di tutti, confrontandole, elogiandole, criticandole, così come non venivano mai trattate certe problematiche che potevano andare dalla giornata al liceo, fino a parlare di qualcosa di più intimo, addirittura.

Non aveva capacità di relazionarsi all’interno di qualsiasi gruppo e non aveva il cuore pieno di motivi per vivere, per andare avanti, per reagire e combattere: si batteva semplicemente per cause naturali.

Del cuore sapeva che nell’arco di ventiquattro ore ci passavano quattromila litri di sangue, che in settant’anni di vita, in media, un cuore si contraeva e si rilassava due miliardi e mezzo di volte pompando cinque litri di sangue attraverso circa novantasei mila chilometri di vasi sanguigni, ma non sapeva cosa fosse un tuffo al cuore; poteva spiegare nei minimi dettagli medici un infarto, dato che lo aveva approfondito a seguito di alcune ricerche, ma non aveva mai avvertito il batticuore davanti a una persona di cui era innamorata.

Non sapeva che quell’organo così complesso quanto indispensabile potesse contenere infinite emozioni e che, oltre a tenerci vivi, avesse anche il potere di essere la cassaforte più sicura del mondo, impossibile da violare: ci si potevano riporre ricordi indimenticabili, frasi e parole pronunciate da certe persone, gioie conquistate, l’immagine del primo bacio, la prima volta che ci siamo spogliati davanti a qualcuno che amavamo. Jane Madison non aveva mai usato quel muscolo involontario per amare, aveva imparato a usare solo la fredda ragione che, con le sue indiscutibili risposte, riusciva a risolvere brillantemente ogni tipo di problema. Il cervello riusciva a rassicurarla, a tenerla al sicuro grazie alle teorie, ai ragionamenti, a un’indistruttibile logica che spesso non aveva solide basi, ma serviva giusto per una serenità mentale forte abbastanza da farle accantonare la tristezza gridata dal cuore. Per ogni domanda che si poneva aveva trovato risposte che, fino a quel periodo, le erano sempre andate bene, ma crescendo le cose stavano cambiando repentinamente e non era più tanto semplice accontentare l’organo che, fino ad allora, era rimasto puramente anatomico.

* * *

Aprire gli occhi quella mattina sarebbe stato completamente diverso dalle altre volte.

Jane rimase qualche minuto sdraiata nel letto con un gran vortice di pensieri che le turbinò a gran velocità, senza sosta.

Ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina prima di iniziare la giornata, aveva l’abitudine, o meglio, l’estrema necessità di incrociare lo sguardo di sua madre che era stata immortalata in quella che pareva una delle sue migliori espressioni. Era la stessa fotografia che, il giorno della vigilia di Natale, tenne stretta al petto, come se avesse voluto abbracciarla davvero.

Quella mattina, come se lo sguardo della madre avesse avuto lo strabiliante potere di leggere qualsiasi segreto della figlia attraverso il consueto e abitudinario sguardo mattutino, la ragazza decise di fare un’eccezione, la sola della sua vita, e non fissare a lungo gli occhi che all’improvviso sembravano cambiati: parevano strillare di non realizzare nella maniera più assoluta l’unico e ultimo programma della giornata.

Per non sentire più l’incombente pesantezza di quell’impressione, Jane si alzò di scatto dal letto e si fiondò in bagno per farsi una doccia. Con lo scrosciare dell’acqua che puntò al centro della sua schiena, nel premere il flacone del bagnoschiuma, si accorse che la mano che ne avrebbe dovuto ricevere il contenuto per poi spalmarlo velocemente sul corpo stava tremando.

Una volta pronta si diresse verso il ripostiglio in cui Jolie era solita tenere tutti gli attrezzi che le servivano per la pulizia della casa.

Accese la luce, si accucciò fino a raggiungere, di fianco alla lunga scarpiera, la cassetta di acciaio nella quale Gary aveva riposto decine di cacciaviti, un trapano, centinaia di chiodi. La ragazza frugò tra i vari scompartimenti della cassetta e trovò quello che stava cercando.

Infilò l’oggetto in tasca e uscì di casa senza prendere le chiavi: non sarebbero servite.

* * *

Il parco era semideserto ma, se avesse aspettato anche solo un’altra ora, lo avrebbe visto popolato da decine di bambini che, correndo a destra e sinistra, le avrebbero fatto saltare il piano, o meglio, la soluzione finale.

Jane si addentrò nel cuore del parco cercando il luogo più isolato, per avere la certezza che nessuno l’avrebbe vista, così, nel giro di pochissimi minuti, raggiunse l’angolo più remoto.

Come sotto la doccia, anche in quel momento le mani presero a tremare, soprattutto la destra, quella che avrebbe dovuto operare con una lucidità e una freddezza impeccabili.

Era arrivato il momento.

Tutti quei giorni bui, in fila, come peccatori nella più vergognosa delle processioni, le si erano presentati alla mente e le stavano dando la forza necessaria per compiere l’ultimo atto, la grande uscita dalla scena miserevole e insopportabile che viveva da sempre. Diede un ultimo sguardo in giro, posò gli occhi sulla strada trafficata, su alcuni passanti che sfrecciavano sulle strisce pedonali, poi portò lo sguardo all’interno del parco e vide gli alberi, le foglie. Era quel blocco immenso nel petto che non le consentiva di apprezzare la bellezza di ciò che la circondava, così come gli occhi spenti, il cervello attanagliato da una routine durata anni, lo spirito atterrito, la vergogna e l’umiliazione che avevano preso il totale controllo della coscienza e del rispetto che aveva di se stessa.

Infilò la mano nella tasca del suo vecchio giacchetto e tirò fuori il taglierino che il padre non aveva mai utilizzato.

Quante volte si era addormentata piangendo, infelice della propria vita, desiderosa di una svolta che sembrava non arrivare mai; era pesante quell’attesa, più illusoria che pretenziosa, più stancante che speranzosa.

Gary e i suoi modi animaleschi, per non parlare degli ultimi tempi in cui il suo cervello, la sua umanità e la sua logica sembravano essere spariti nel nulla lasciando il posto a una persona senza scrupoli.

Con il pollice destro spinse in avanti il piccolo fermo per sbloccare l’arnese. Spinse ancora di più quel piccolo pezzettino di plastica nero che si trovava al centro del taglierino e fece uscire circa sette centimetri di lama. La mano prese a tremare più velocemente. Cercò di non farci caso: tenendo saldamente l’arnese, tolse la parte iniziale del guanto che copriva il polso sinistro. Ora quel delicato tratto di carne bianca era ben visibile. Avvicinando la lama alle vene poteva immaginarsi la scena, ma mai il dolore che avrebbe provato, la reazione del padre quando gli sarebbe giunta la notizia e in quanto tempo, dopo il fatale taglio, sarebbe morta.

Era questione di attimi. Di secondi. Bastava che il cervello inviasse il comando alla mano di fare pressione sul polso per poi strattonare all’indietro quel maledetto taglierino e tutto sarebbe finito. Lo strinse talmente forte da sentire dolore alle dita. Cominciò a sudare e nella mano avvertiva come un blocco che le impediva di eseguire il gesto. Forse non lo voleva davvero, forse era tutta una messa in scena e non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Forse avrebbe lasciato che il taglierino le cadesse dalla mano e sarebbe corsa a casa continuando a vivere la sua vita disastrata e magari aspettare passivamente un motivo per cui vivere.

Sarebbe bastato un attimo di più e forse avrebbe potuto ancora cambiare il destino, ma il peso di quegli anni era talmente insopportabile da farle crollare ogni speranza di sorreggere l’idea più straordinaria che le poteva giungere alla mente in quel momento: aspettare un domani migliore.

A denti stretti pronunciò le ultime parole.

“Mamma, arrivo”.

Con uno scatto, la lama fece attrito sulle sue vene a una velocità incredibile.

Dal polso iniziò a zampillare sangue.

* * *

Luce.

Fu questa la prima cosa che Jane, aprendo gli occhi, vide. Era la luce del paradiso, ormai era morta e finalmente il viaggio si era concluso. Adesso doveva farsi forza per alzarsi dalla superficie morbida sulla quale si trovava e andare a cercare sua madre. Avrebbe incontrato anche Dio? Stava forse scoprendo il grande segreto che nessun essere umano era mai stato in grado di svelare con certezza?

D’improvviso un insieme di voci si sovrapposero l’una con l’altra e Jane aprì definitivamente gli occhi avvertendo un forte dolore alla testa.

Guardò avanti a sé e si accorse di alcune persone che camminavano.

Non era il paradiso, ma un ospedale.

Inizialmente non capì perché fosse finita lì ma poi, vedendosi la fascia intorno al polso, i ricordi si fecero man mano più nitidi. Nonostante ciò, sia fisicamente che psicologicamente si sentiva abbastanza bene. Era solo un po’ stordita. In quell’istante entrò una dottoressa.

 

“Mi scusi” esordì debolmente Jane.

“Ti serve qualcosa?” domandò lei premurosa. Era una donna sulla cinquantina, con i capelli grigio chiaro.

“Mi chiamo Jane Madison e… volevo sapere…”

“Hai subito un grave taglio al polso mia cara, ti abbiamo trovata sul retro dell’ospedale, seduta sui gradini. Ricordi come ti sei fatta male?”

Jane fece mente locale ma, oltre quello che era successo al parco, non ricordò minimamente di essersi seduta sui gradini dell’ospedale che portavano all’entrata secondaria.

“No, mi dispiace”.

La dottoressa controllò la flebo.

“Quando potrò uscire? Dovrò rimanere tutta la notte?”

“Non avendo nessun documento non sapevamo se fossi maggiorenne o meno, ma un infermiere ti ha riconosciuta e ha chiamato tuo padre. Sai, sono amici di vecchia data” spiegò la dottoressa.

La ragazza chiuse istintivamente gli occhi e si maledisse.

“Dottoressa, il fatto è che mio padre non…”

“Era di rientro dalle feste natalizie. Sta arrivando” concluse. La donna sorrise e uscì dalla stanza dopo che un’infermiera la chiamò.

Nel giro di qualche minuto Gary arrivò.

Jane si alzò dal suo letto grazie anche all’aiuto della dottoressa che, mentre le porgeva il braccio come sostegno, si accertava continuamente del suo stato di salute. Facendo un passo per volta, Jane sentiva che il mal di testa era diminuito parecchio rispetto al suo risveglio.

La dottoressa prese in mano il giacchetto di Jane sporco di sangue.

“Mi dispiace che tu debba rimetterti questo” disse porgendoglielo delicatamente. La ragazza quando vide le chiazze rosse inorridì. Ancora doveva realizzare di essere viva.

“Sua figlia è stata veramente fortunata. Se non fosse venuta all’ospedale in tempo, non voglio neanche immaginare cosa le sarebbe potuto accadere” spiegò alla bestia che non la finiva di guardare male la figlia. Ancora una volta si era messa nei guai e lui era costretto a vestire i panni del bravo genitore.

“Purtroppo queste brutte cose succedono. L’importante ora è che sia tutto a posto”.

Con la mano lurida di falso affetto le scompigliò i capelli.

“Ovviamente. L’unica cosa che non riesco ancora a capire è come abbia fatto a raggiungere l’ospedale senza che nessuno l’aiutasse”.

Entrambi si girarono verso Jane per ricevere risposta.

“Mi sono fatta male qui vicino, ecco perché ce l’ho fatta. Solo all’ultimo, come ha detto lei dottoressa, mi sono seduta sui gradini dell’ospedale. Non è stato nient’altro che un forte giramento di testa” disse lei sorridendo.

Gary sorrise debolmente, ma era chiaro che si trovava spaesato e non sapeva come reagire.

“Aspetta un momento, adesso che ci penso tu avevi una specie di bandana stretta al polso” disse la dottoressa socchiudendo gli occhi per ricordare meglio.

“Come hai fatto ad applicarla così bene sulla ferita? Era stretta al punto giusto e ha bloccato l’emorragia: se non lo avessi fatto subito dopo l’incidente avresti perso troppo sangue e saresti svenuta perdendo i sensi. C’era il rischio che tu…”

“È stato il nostro Signore” disse Jane per tagliare corto.

Gary, dopo quell’affermazione, prese la figlia per un braccio e se ne andò senza neanche salutare la dottoressa che, perplessa, rimase al centro della sala d’aspetto a fissare i due che si allontanavano.

* * *

“Non saprei dirti se avessi potuto farti più stupida di così. Mi spieghi come cazzo hai fatto a finire in quell’ospedale di merda?”

Jane guardava fuori dal finestrino e sentiva pulsare leggermente il polso ferito.

“Mi sono fatta male”.

Gary la guardò per un attimo.

“Mi prendi per il culo? Si era capito che non ci fossi andata per farti una messa in piega, Jane!”

“Ero uscita a farmi una passeggiata, ho sbattuto il polso e mi sono fatta male”.

“Bella spiegazione, complimenti”.

Forse quella fu la conversazione più normale avuta con il padre in tutta la sua vita. Nonostante avesse torto le piaceva conversare con lui senza essere attaccata con parolacce e insulti tanto da farla piangere.

“Tu, comunque sia, per una settimana, te ne stai a casa così non combini altri guai”.

La settimana di detenzione casalinga passò molto lentamente, tanto da costringere Jane a ripassare tutti gli argomenti che le erano piaciuti di più, anche se era stanca di domandarsi come fosse stato possibile quel finale del tutto inatteso al suo piano.

* * *

Si stava facendo notte.

Presa da un senso di noia e considerato il fastidioso silenzio in cui era sommersa la casa, Jane approfittò della fine della punizione imposta dal padre per scendere e farsi una passeggiata. Decise di entrare nel parco e dirigersi verso il posto in cui aveva tentato di togliersi la vita. Quando giunse nello stesso fazzoletto di terra in cui aveva raccolto il coraggio necessario per far saettare la lama d’acciaio contro il suo polso, realizzò di sentirsi come un fantasma che visita luoghi a lui appartenuti, quand’era ancora in vita, quando ancora tutto era possibile. Chiuse un momento gli occhi come per richiamare alla mente, in ordine cronologico, tutte le immagini e le azioni eseguite quel giorno, un po’ come se avesse voluto analizzarne i punti salienti, i punti critici, i punti in cui qualcosa poteva andare diversamente e visse quella sensazione che, mentre teneva in mano l’arnese di suo padre, non l’aveva abbandonata un solo istante: la consapevolezza di poter incontrare, una volta suicidatasi, sua madre. Se quel piano avesse funzionato, non avrebbe avuto mai più l’opportunità di crescere, diventare una donna, abbracciare i suoi giorni migliori e quelli più difficili, avrebbe perso qualsiasi battaglia che la vita le avrebbe srotolato davanti, avrebbe rinunciato volontariamente a tutti i soli che sarebbero sorti per regalarle giornate felici; non avrebbe vissuto il tanto sognato e sperato amore che, come un’entità sfuggevole e timida, si nascondeva ai suoi occhi.

Esiste una giustificazione al suicidio? Anche non trovando una risposta adeguata, né tanto meno oggettivamente accettabile a quel dubbio, cercò di valutare la motivazione che l’aveva spinta a tagliarsi le vene.

Scosse la testa non riuscendo a cancellare domande e visioni: il sangue che zampillava fuori dal polso, la testa che cominciava a girare e… e poi? Sembrava che il resto fosse stato cancellato segretamente da qualcuno. Cos’era successo durante quel lasso di tempo? La dottoressa aveva detto che l’avevano trovata seduta sui gradini dell’ospedale.

“Cosa ci fai qui a quest’ora?” Jane si voltò all’improvviso spaventata.

“Non dovresti girare da sola di notte. Potrebbe essere pericoloso”.

Il cuore le cominciò a battere forte; si rese conto che per fuggire doveva passargli per forza davanti. Quello che fece però fu rimanere perfettamente muta e immobile davanti a lui.

Il misterioso ragazzo la guardò. Aveva gli occhi di un marrone scuro quasi da sembrare neri. Gelarono completamente i suoi.

Notando una strana espressione sul volto del giovane sconosciuto, la ragazza cercò di organizzare un piano di fuga valido ed efficiente, ma non c’erano molte possibilità di attuarlo. La sua paura più grande era di essere placcata non appena gli fosse sfrecciata accanto per andarsene.

Guardando a terra, cercò comunque di camminare verso l’uscita a passo lento, come se non esistesse.

“Te ne vai? Non voglio mica mangiarti”.

Il suo era un tono sicuro. Era ancora contro quell’albero. Con le mani in tasca.

Jane affrettò il passo e con la paura addosso riuscì a passare davanti al ragazzo senza essere placcata, né ostacolata in alcun modo. Con la coda dell’occhio vide però uno strano movimento di lui, come se con la schiena si fosse dato una spinta contro il tronco dell’albero per riacquistare la posizione naturale e camminare verso di lei.

Questo bastò per far correre Jane all’impazzata verso l’uscita. Metteva un piede davanti all’altro a una velocità che non avrebbe mai scommesso di avere; stava gridando aiuto, ma il parco era praticamente deserto.

Sentì alcuni rumori dietro di sé e cercò in ogni modo di accelerare ancora di più; una volta fuori virò a sinistra, attraversò la strada e sfrecciò verso casa a perdifiato.

Nel giro di pochissimi minuti si ritrovò segregata in cameretta, con il fiato corto e la schiena sudata. Si tolse il giacchetto, lo lasciò cadere a terra e andò alla finestra.

Sbirciò fuori, nei pressi del parco, ma non vide nessuno.

* * *

La mattina seguente decise di farsi una passeggiata.

Anche se c’erano molti ragazzini che correvano all’impazzata, sarebbe stato ugualmente un momento perfetto per abbandonarsi a qualche passo all’aria aperta, non pensando a niente di particolarmente impegnativo o preoccupante.

Per buona parte del tempo rimase seduta su una panchina al lato del parco e, quando si accorse che si era fatta ormai l’ora di pranzo, decise di andarsene, ma un attimo dopo si sentì chiamare.

“Ehi!”

Si girò. Era lo stesso ragazzo che il giorno prima cercava la sua attenzione. Gli diede le spalle e camminò a passo svelto.

“Ma perché scappi quando mi vedi? Non voglio mica mangiarti!”

Con la testa bassa e gli occhi che sembravano scannerizzare qualsiasi cosa ci fosse a terra, finse di non sentirlo. Si alzò di scatto.

“Devo dirti una cosa. Aspetta!”

Automaticamente, come se quelle parole fossero cariche di una magia a lei estranea, avvertì un misto di curiosità e prudenza a cui sapeva di non voler resistere; fece uno sforzo e irruppe ugualmente in casa. Appena entrata si affrettò ad andare alla finestra per spiarlo come l’ultima volta. Non c’era più.

Si trattava del solito ragazzo in cerca di divertimento?

Fin dal giorno prima si rimproverava per non riuscire a controllare e gestire alcune parti del suo carattere che, scagliate verso gli altri, soprattutto se sconosciuti, non le procuravano altro che figuracce distorcendo la sua immagine. Ritornando al momento in cui il ragazzo aveva dichiarato di avere qualcosa da dirle, si rese conto che la sua reazione, anche se prudente, aveva finito per essere esageratamente diffidente, sfiorando così quello che odiava: la maleducazione.

Affacciata alla finestra per un altro quarto d’ora, lo intravide passeggiare con la testa abbassata, gli occhi spenti, ignorava tutti i bambini che gi sfrecciavano accanto. Senza contare il fatto che ce n’erano alcuni davvero impertinenti. Correvano proprio nella sua direzione e, se non fosse stato per lui che si spostava velocemente ogni volta, lo scontro sarebbe stato inevitabile; non ci fece caso più di tanto perché era presa dalle emozioni che le giravano in corpo. Perché quella strana paura che aveva di lui si era trasformata in curiosità? Decise di fare, una volta tanto, come le pareva. Senza la maledetta bestia che le ordinava o le vietava qualcosa. Quel ragazzo le aveva messo così tanta curiosità da creare un conflitto tra Jane e la sua timidezza a tal punto da far combattere, per la prima volta in vita sua, la ragazza contro se stessa.

Diede un’ultima occhiata alla finestra e lo vide seduto su un’altalena. Scendendo sentiva di nuovo la paura iniziale. Era la prima volta che stava andando lei da un ragazzo. Non era mai successo ed era convinta che non sarebbe mai capitato. E invece quella volta era diverso. Si era stancata di essere prigioniera di se stessa e della vergogna e per una vita era stata ingiustamente la schiava di suo padre. Adesso basta. Con quella piccola follia, voleva andare contro ogni regola.

Raggiunto il parco cercò di non dar troppa importanza al tremore delle gambe e si cimentò a raggiungerlo. Un po’ sorpresa di vedere sopra le altalene due ragazzini abbastanza in carne che cercavano di dondolare in avanti e indietro aiutandosi con le gambe, si chiese dove si fosse cacciato. Non riusciva a individuarlo. Girò per il parco per più di mezz’ora guardando in tutti gli angoli, ma niente. Era sparito. Jane decise di dare un’occhiata anche nel famigerato posto in cui aveva deciso di farla finita, ma lui sembrò essersi volatilizzato e così, inaspettatamente delusa, se ne andò.

 

* * *

Le aspettative riguardo alla giornata successiva non erano tanto migliori delle solite: Gary e Ginger erano partiti di nuovo chissà per dove e, a casa da sola, si stava annoiando a morte. Aveva già completato e studiato la relazione di chimica, quindi la mattina venne consumata davanti alla televisione. Ogni tanto si andava ad affacciare alla finestra per accertarsi che il ragazzo misterioso non fosse in giro per il parco.

Appena finito di pranzare, Jane non sapeva come avrebbe potuto passare il resto della giornata. La noia era arrivata davvero al limite quindi, alla fine, decise di ripassare quello che aveva studiato.

A un certo punto, passando davanti alla camera della bestia per andare nella sua, Jane notò con grande sorpresa che la porta era semichiusa. Con un po’ d’esitazione decise di entrarci, cosa che le era stata severamente proibita, un po’ come la sala di musica che non poteva essere frequentata dai non addetti. Entrando non poté fare a meno di guardarsi alle spalle. Aveva il terrore di vederlo entrare, anche se sapeva benissimo che era impossibile: in quel momento solo Dio poteva sapere dove fosse.

L’emozione era simile a quella dei ragazzi che provano a fumare in soffitta cercando e sperando di non essere scoperti dai genitori. Prendono con mano tremante l’accendino, lo attivano e lo portano, incerti, vicino alla sigaretta. Jane si trovava nella stessa situazione. Credeva che se un poliziotto l’avesse vista lì dentro l’avrebbe arrestata. Suo padre le aveva fatto venire il terrore di quella camera. Cosa poteva esserci di tanto segreto? Non se lo sapeva spiegare, era uno dei tanti misteri di quell’uomo e la noia di quella giornata la spinse a scoprirne qualcuno. Aprì le ante dell’armadio per sbirciare dentro e si accorse che in basso a sinistra c’era una piccola cassettiera che non aveva mai visto. Si mise in ginocchio e aprì delicatamente il primo cassetto, trovando subito qualcosa di interessante. Alla vista di una ‘Revolver 44 magnum’ si sentì gelare e invadere da un senso di agitazione. Jane chiuse immediatamente il cassetto cercando di far finta di niente e passare a quello centrale. Lo aprì e vide solo un mucchio di lettere. Erano disposte in modo disordinato e ne prese una a caso. La lesse velocemente.

San Francisco 17/02/83

Caro Gary,

il periodo che sto passando con te è a dir poco favoloso. Mi fai dimenticare di tutti i problemi che ho con mio marito. Ho commesso un grave errore a sposarlo! Quando lo chiediamo questo maledetto divorzio? Io non ce la faccio più. Anche tu mi racconti sempre che non sopporti più tua moglie, quindi è destino che dobbiamo scappare via insieme. Non ci posso credere che sei venuto a casa mia il giorno del vostro anniversario. Hai lasciato da sola tua moglie con il piccolo insetto, come la chiami tu. Che ridere! Le sta bene. Se fai così significa che non è una moglie che merita il tuo amore.

Sei da amare follemente.

So che non le dai tutte le attenzioni che dai a me.

È come se avessi due personalità e con me usi solo quella buona. Come dici spesso, tua moglie si merita il peggio di te. Ed è giusto che tu glielo dia. Ora ti saluto. Ci vediamo mercoledì. Ti aspetto. Un bacio.

Con affetto, Katherine.

Gli occhi erano fissi sulla strana grafia della donna.

Lo sguardo di Jane percorreva ogni lineamento e analizzava ogni singola parola. Mentre rileggeva per la quinta volta la lettera le si formarono alcune immagini in testa, sfocate; suo padre che estrae la lettera dalla busta, i suoi avidi occhi divorano ogni pensiero perverso scritto dalla donna, sulla sua bocca nasce un malizioso sorriso; come se fossero quelli di un ventenne i suoi ormoni crescono, si moltiplicano. Nessuno sa che non vede l’ora di incontrare Katherine per prenotare di nuovo quella camera d’albergo, per bere champagne nudi, nella vasca da bagno ricoperta da petali di rosa, petali finti, di plastica. La donna dal seno prorompente che s’immerge con lui nell’acqua bollente, i seni in faccia, lei che lo lecca dappertutto, lui che tira la testa all’indietro e si lascia andare, la perversione nei primi giochi erotici, le lancette dell’orologio non esistono più, il tempo si è trasformato in un’inutile banalità e ogni cosa è al suo posto, proprio come quella stupida moglie che aspetta a casa e che dovrebbe passare il resto del suo tempo a pulire e stendere panni: per quello serve una moglie.

Il ruolo di brav’uomo, anni prima, gli era riuscito davvero bene; sua moglie, all’epoca, aveva ceduto veramente all’uomo che sembrava essere il suo, quello che si incontra una volta e mai più.

Poi rilesse la città: San Francisco. Gary più di una volta aveva spiegato a Jane, a male parole, che si erano trasferiti a Seattle dopo l’incidente fatale costato la vita alla povera donna di casa. Il dolore, stando alle sue parole, era così acuto che ogni cosa di quella città, ma soprattutto di quella casa, le ricordava lei e andare avanti così era impossibile. Ma se quello che aveva scritto Katherine era vero e cioè che se la spassava con lei, non era vero che la bestia amava sua moglie, anzi, la odiava! Quindi, era impossibile che avesse sofferto così tanto.

Qualcosa non quadrava circa la motivazione del trasferimento.

Qualcosa di molto grande.

* * *

Jane scoprì molto del passato del padre che prima le era totalmente sconosciuto.

Non immaginava neanche che avesse tutte quelle donne pronte a sposarlo, pronte a scappare con lui e a lasciare i propri mariti. Cosa aveva di affascinante suo padre? Non riusciva proprio a capirlo. Perché invece, da quanto capiva dalle lettere, con sua madre era un mostro? Se era vero che una parte buona ce l’aveva, perché non l’aveva usata con l’effettiva moglie? Questo restò un mistero fino a quando Jane non lesse altre decine e decine di lettere, scoprendo così lati di queste donne che, negli scritti precedenti, non erano emersi. Da quanto si poteva dedurre, erano donne dipendenti da droghe, da uomini, donne sole da anni, vedove o infelici con il proprio marito. Erano queste le caratteristiche principali di chi impazziva per Gary. Si spiegò solo con la lettura incredula di quelle lettere perché lasciasse sempre sole le donne di casa. Le uniche che avrebbe dovuto amare e proteggere. Invece, nei vaghi e pochi ricordi di Jane, erano ancora vive le botte che riservava alla moglie. Sua madre a terra, molto spesso sanguinante e lui che, dopo averla presa a calci come aveva fatto con lei al night, finiva per ubriacarsi in chissà quale bar coi soldi che avrebbe potuto impiegare per comprare un misero giocattolo alla figlia. Lei, per quanto impotente, cercava di aiutare la mamma. Poi il vuoto. Non c’era nessuna figura a popolare quel gap che Jane, anche dopo essersi sforzata molto, non riusciva a ricordare. Mancavano dei pezzi, degli anelli fondamentali che agganciassero i ricordi di quei giorni terribili, fino al famoso incidente di cui parlava il padre e che lei non ricordava. Forse il dolore le aveva cancellato quel terribile ricordo. Era questo che Jane, tolte le pochissime foto, conservava della madre. Tutto il resto non lo ricordava.

Jane sciolse i capelli togliendosi l’elastico rosso che li teneva raccolti in una sinuosa coda e si grattò la nuca; la confusione che aveva in testa era indescrivibile; sperava che in quelle lettere ci fosse qualcosa che l’aiutasse a sapere altre cose che suo padre le aveva sempre tenuto nascoste, ma niente. Si lesse decine e decine di lettere di donne ninfomani che scrivevano con un linguaggio volgare e spesso provocatorio, un linguaggio che non lasciava spazio né a un po’ di passione né a un po’ di romanticismo.