Le Regole Del Paradiso

Text
0
Kritiken
Leseprobe
Als gelesen kennzeichnen
Wie Sie das Buch nach dem Kauf lesen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Appena entrata, si fiondò in camera sua e sistemò lo zaino nell’armadio, si cambiò indossando una tuta grigia e si mise la sua felpa preferita. Passò davanti alla porta d’ingresso per andare in cucina quando comparve la colf che adorava e che considerava la sua unica vera amica: Jolie.

“Ciao, Jane!” disse lei chiudendosi la porta alle spalle.

“Buonasera, Jolie. Come stai?” domandò lei sorridendole. La colf guardando il salone in disordine ironizzò: “Per ora bene”.

Jane sorrise, ma sapeva che il lavoro in quella casa era veramente duro. Di solito a regnare era sempre il disordine; Ginger non si scomodava facilmente per sistemare la casa o per lo meno la sua stanza, i panni di Gary o addirittura quelli della figlia. Tanto c’è Jolie, diceva.

“Se vuoi ti aiuto volentieri” si offrì la ragazza. Jolie era piccolina di costituzione, il suo fisico non reggeva grandi sforzi e non poteva certo sottoporsi a fatiche prolungate; purtroppo il suo turno partiva dall’ora di pranzo fino all’ora di cena. Oltretutto per una misera paga. Jane sapeva molte cose su di lei perché ogni sabato, quando rimanevano sole in casa davanti a un buon film o sedute sul divano a chiacchierare, Jolie si lasciava andare a confidenze intime e si sfogava di tutti i problemi che l’assillavano.

“Ti ringrazio Jane, ma tu devi studiare, non perdere tempo qui con me!” esclamò lei.

“Ho già fatto, davvero”.

Jolie sorrise accettando il suo gentile aiuto; le ore del pomeriggio passarono più velocemente rispetto al consueto turno solitario perché mentre si occupavano delle faccende domestiche, le due amiche chiacchieravano del più e del meno, anche se Jane si limitava a rispondere alla grande quantità di cose che Jolie non si stancava di dire o di domandare.

“E così ho deciso di tagliarmi i capelli” raccontò la colf mentre ricordava il felice periodo degli anni ’80.

“Poi mi sono fidanzata con Guillaume e sotto la torre Eiffel mi promise che saremmo stati per sempre insieme, cosa che poi non si rivelò vera. Maledetti uomini. Fatta eccezione per Alexandre” quando pronunciò il nome del figlio smise un attimo di lavare i piatti e rimase a pensare a qualcosa che Jane intuì subito: se c’era ancora un motivo che la legava a quel lavoro, alla misera paga e a quegli sforzi immani era Alexandre. Aveva ormai otto anni e spesso Jolie non riusciva a comprargli i suoi giocattoli preferiti perché doveva usare quasi tutti i soldi che le dava Gary per pagare l’affitto. La guerra di ogni giorno consisteva nel dover andare avanti con le proprie forze, con pochissimi soldi e con nessun altro tipo di aiuto.

“Spesso quando lo porto al parco con gli altri bambini” proseguì, “ho paura che mi chieda un gelato, o peggio ancora le bustine di figurine che collezionano i suoi compagni” disse Jolie con le lacrime agli occhi. Si era lasciata andare tempo prima, ma mai fino a quel punto.

“Passerà questo brutto periodo, ne sono sicura. Abbi fede” rispose Jane cercando di farla sentire meglio, ma non funzionò.

“Ieri…” a Jolie morirono le parole in gola. Fece un bel respiro e guardò negli occhi Jane.

“Ieri mi ha chiesto perché solo lui in classe ha i libri fotocopiati” strinse i denti.

“I libri fotocopiati…” ripeté. La colf si asciugò gli occhi lucidi e sorrise.

“Ora basta con i pensieri tristi però, parliamo di cose belle!” disse alzando un po’ il tono della voce. “Cosa vogliamo mangiarci questa sera?”

Jane capì che era decisamente meglio cambiare discorso.

“Non lo so, ma qualsiasi cosa andrà bene!” rispose imitando il suo tono.

Finito il pomeriggio di pulizie, apparecchiarono e per cena decisero di mangiare carne di manzo ben cotta e patatine fritte.

“Questo non farà bene al nostro fegato” scherzò Jane guardando il suo piatto pieno di roba.

“Stasera non badiamo a nessuna dieta” informò Jolie non appena mangiò la prima patatina. Il discorso che venne affrontato fu senz’altro più leggero e più facile da gestire rispetto a quello preso di petto poco prima. Quando Jane si trovava con Jolie le sembrava tutto diverso; la bestia di sabato non c’era mai e questo significava che potevano godersi la serata, chiacchierare dopo aver cenato, guardarsi un film per poi andare a dormire anche se era più tardi del solito. Con Gary non era possibile rimanere in una stanza con la luce accesa una volta scoccate le ventitré: persino Cenerentola aveva a disposizione un’ora in più nella quale fare baldoria.

Il film era appena finito e quando Jane stava per alzarsi dal divano si accorse che Jolie aveva poggiato la testa sul bracciolo e stava dormendo mentre la luce del televisore, che in quel momento proiettava stupide pubblicità, le inondava il volto: finalmente poteva agire indisturbata. Sorridendo prese la piccola radiosveglia che stava su una delle mensole del salone e la impostò perché suonasse un quarto d’ora dopo. Andò in camera sua e, all’ultimo piano, iniziò a cercare tutti i suoi vecchi libri di scuola; ce n’era uno di geografia, un altro di aritmetica, un altro ancora di scienze. Si munì di una busta e ci mise dentro i volumi scolastici che portò giù in cucina. Sul foglietto bianco disegnò una freccia, lo girò dall’altra parte e scrisse: “Questi sono per Alexandre, un mio piccolo regalo”.

Tornò in salone e coprì Jolie senza svegliarla; infine prese la radiosveglia e la mise accanto al foglietto in maniera tale che Jolie avrebbe visto il messaggio. Sapeva che non avrebbe frainteso quel gesto e sapeva anche che il suo aiuto le avrebbe fatto piacere; sperava che in questo modo la loro amicizia sarebbe stata più forte e immaginava anche che Jolie sarebbe stata contentissima di poter portare i libri al figlio. Libri veri.

* * *

Jane uscì dal liceo pensando a come poteva essere andato il test di matematica. Cercò di ripercorrere tutti i passaggi che aveva fatto e i risultati che erano usciti alla fine degli esercizi e non le sembrò di aver commesso gravi errori. Si sforzò di focalizzare l’attenzione sul terzo esercizio, quello più difficile, ma non fece in tempo a terminare la sua analisi che Ashley le sbarrò la strada; le braccia conserte e l’aria infuriata fecero capire a Jane che ce l’aveva con lei: il sangue divenne lava.

Cercò di evitarla, ma si era già capito cosa stava per succedere. Ashley avanzò impaziente verso di lei.

“Allora brutta troia, cosa hai da dire a tua discolpa?” la voce era troppo calma, troppo sicura. I suoi occhi flagellavano quelli della povera ragazza. Dentro, quella lava, diventava sempre più densa e incandescente.

“Ashley, non è stata colpa mia” disse Jane con un filo di voce.

Durante il test, dopo vari tentativi della reginetta di chiedere a Jane i risultati degli esercizi, la professoressa Fitcher aveva spostato di banco Ashley allontanandola dall’unica persona che l’avrebbe potuta aiutare.

“Non mi hai aiutata quando te l’ho chiesto, la devi pagare!”

L’ultima parola della frase fu pronunciata talmente forte che riuscì a rapire l’attenzione di molti ragazzi. Si formò il solito cerchio. Stessa scena, stesse facce.

“Ma era senza voto, e poi io....” non ci fu il tempo materiale per finire la frase. Partì uno schiaffo talmente forte che la faccia di Jane si girò di scatto verso destra a una velocità incredibile. Gli studenti intorno esultarono gridando come forsennati. La ragazza più sexy in azione mentre ne dava di santa ragione alla più secchiona dell’istituto.

Jane, a testa bassa, mise la sua mano sulla guancia colpita come per ridurre il dolore.

“Questo è solo l’inizio” gridò Ashley con tutto il fiato che aveva in gola. Le sue amiche, appena capirono che con Jane avrebbero vinto di sicuro, decisero di aiutarla immobilizzando la sua avversaria. Ashley le si avvicinò e iniziò a schiaffeggiarla ripetutamente. Era esagerata la violenza che metteva in quei colpi. Le amiche che la tenevano non potevano non ridere. Dagli schiaffi e dai pugni, Ashley passò ai calci. Gliene diede uno in pancia talmente forte che Jane cadde a terra liberandosi dalla stretta delle ragazze. Nessuno interveniva. Jane era a terra intimorita. Sentiva dolore ovunque. Ashley si avvicinò e le assestò l’ultimo calcio su una gamba, poi le sputò addosso.

“Sei una perdente!”

Si sistemò i capelli scompigliati e si allontanò con le amiche.

Jane rimase qualche minuto sull’asfalto dolorante e sola.

* * *

Era passata una settimana da quel traumatico scontro fuori dalla scuola.

Per sette giorni Jane rimase a letto con dolori acuti e martellanti che partivano dalla pancia fino ad arrivarle in testa e nonostante le condizioni della figlia, il signor Gary non se ne preoccupò più di tanto: era sempre fuori casa e durante quei giorni non degnò Jane di un minimo di attenzione. Stranamente però, quella sera, il capofamiglia si accorse di qualcosa.

“Che cazzo hai fatto all’occhio destro?” lei abbassò lo sguardo verso la minestra fumante davanti a sé. Non aveva il coraggio di dirgli la verità.

“Sono caduta” rispose.

Il signor Gary, non appena sentì quella bugia, assestò un colpo fortissimo al tavolo facendo fuoriuscire qualche goccia di minestra dai piatti.

Ginger mangiava tranquillamente, come se fosse una normalissima chiacchierata tra padre e figlia.

“Ascoltami brutta troietta” disse lui con voce calma e fredda, “a me non devi raccontare le stronzate, quello è un pugno e se te lo hanno dato significa che te le sei meritato”.

 

Era inutile ribattere o cercare il modo di farlo ragionare. Era pazzo.

Jane se ne rimase lì, a testa bassa, con le sue ‘colpe’ e la sua ingiusta sgridata giornaliera. Lei non poteva mettersi contro il padrone di casa, il padrone della sua vita e della sua libertà; ogni sua decisione era legge, ogni suo ordine non poteva essere discusso in alcun modo. Quando Gary assumeva atteggiamenti fortemente aggressivi, Jane si ripeteva in continuazione che quell’agitazione, quella rabbia che sembrava non finire mai e quella cattiveria, erano i risultati della morte di sua madre; non avendo più una moglie amorevole, servizievole e meravigliosa come lo era sempre stata lei, la bestia, secondo Jane, avrebbe perso completamente il lume della ragione, cercando quindi di crearsi un personaggio cattivo e temibile solo per farsi scudo davanti al mondo che lo guardava con aria di sfida, come se tutti lo volessero mettere sotto esame, per valutare giorno dopo giorno la sua resistenza ad una quotidianità difficile da vivere. Forse riusciva anche a capirlo; doveva essere dura scivolare tra le lenzuola di un letto vuoto e addormentarsi senza tenere la mano di nessuno, senza abbracciare la propria donna. Jane, prima che arrivasse Ginger, notava che la solitudine di Gary era presente in ogni momento della sua giornata. Ogni volta che veniva sgridata, senza farsi notare, cercava di annullare le sue parole e abbassare al minimo il volume dei suoi insulti e delle parolacce che avrebbe voluto lanciargli contro per concentrarsi solo nella lettura dei suoi occhi e cercare di capirne tutti i segreti. In tutti i modi affondava per brevi attimi il suo sguardo nel suo, ma quello che riusciva a vedere non era altro che la costituzione dell’occhio umano che conosceva già alla perfezione: la superficie esterna dell’occhio formata per il 93% dalla sclera, l’iride, la membrana vascolare, la pupilla, la quale permetteva alla bestia, come a qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra esente da tutti i tipi di malattie all’apparato visivo, di vedere grazie all’entrata della luce che essa lasciava passare all’interno del bulbo oculare. Si sarebbe dilatata in assenza di luce e si sarebbe ristretta se la luce fosse stata troppa: sapeva benissimo che quel processo si chiamava miosi e sapeva altre cose, altri nomi tecnici, altre informazioni, sapeva tutto tranne che leggere con l’anima quegl’occhi così interessanti. Cercava in ogni modo di chiamare con un nome specifico quella strana luce che le veniva mentre la sgridava, ma proprio non ci riusciva: voleva aggettivare il processo di metamorfosi che subiva il suo volto quando iniziava a sbraitare, ma non era capace; non sapeva neppure se lui fosse in grado di assumere altre espressioni facciali, come la più semplice che la natura avesse mai potuto inventare, ma anche la più complessa e difficile da compiere per l’uomo: il sorriso.

Era per questo che cercava di giustificare i suoi atteggiamenti isterici, dai modi bruschi che aveva di trattarla, anche se poi, per come si comportava, di giustificazioni proprio non ce n’erano.

* * *

Jane indossò un pesante cappotto, il cappello e i guanti di lana. Mentre raggiungeva la scuola, pensava che avrebbe preferito un’imminente disgrazia piuttosto che un altro incontro con Ashley; quando arrivò davanti al liceo la sua mente le proiettò i terribili attimi che le aveva fatto passare la reginetta della scuola insieme alle sue amiche. Sperava con tutta se stessa di non incontrarla mai più, sperava che si fosse trasferita per sempre in un’altra città, ma sapeva benissimo che le sue speranze infondate non sarebbero mai potute diventare realtà, così sperò solo nella sua assenza. Le faceva male ancora la parte destra del torace e se quella mattina Ashley l’avesse picchiata di nuovo, sarebbero arrivati altri dolori atroci da sopportare.

Non appena la campanella suonò, Jane varcò la soglia dell’aula, intenzionata a mettersi subito seduta al suo posto per ripassare, sfuggendo così al possibile incontro con Ashley, ma con sua grande sorpresa, appena entrata nell’aula, trovò l’ultima persona che avrebbe voluto vedere seduta al suo banco, all’ultima fila. Fu presa da una morsa di paura e non riuscì a pensare a cosa fare, a cosa dirle.

Ashley rimase ancora alcuni attimi al posto di Jane.

“Hai cambiato il modo di truccarti?” disse guardandole l’occhio ancora un po’ violaceo. “O è la nuova moda delle puttane come te?” socchiuse gli occhi, come per osservare ogni reazione della sua vittima. Non voleva perdersi neanche un attimo del terrore che Jane stava provando.

La classe era ancora vuota e i fasci di luce che entravano dalla finestra erano gli unici spettatori di quella conversazione.

“Ascoltami bene, te lo dirò con molta calma perché non ho nessuna voglia di alterarmi…” iniziò lei alzando il dito in aria.

Jane si sentì fortunata: qualsiasi cosa stesse dicendo, non sarebbe ricorsa alla violenza.

“Sperando che tu abbia capito la mia superiorità rispetto a te che non vali assolutamente niente, mi sembra giusto che tu abbia degli obblighi nei miei confronti” continuò Ashley.

“Non credo di…”

“Non fiatare. Non devi parlare con me. Mi dovrai portare sempre dei soldi, questo deve essere chiaro e devi ficcarti nel cervello che non dovrai mai saltare un giorno. Se avessi voglia di non venire a scuola per chissà quale cazzo di motivo, tu sei obbligata a venire lo stesso a darmi i soldi che mi devi e andartene di nuovo da dove sei venuta. C’è qualcosa che devo ripetere o hai afferrato il concetto?” domandò retoricamente.

Jane rimase sconcertata di fronte a quelle parole e non riuscì a controbattere. Moriva dalla voglia di darle uno schiaffo in piena faccia, ma il suo corpo risultava immobile come una statua di bronzo.

“Quanto hai dietro?” domandò di punto in bianco la reginetta. Jane mise una mano in tasca e tirò fuori tremante il suo portafogli.

“Due dollari” rispose con voce incerta.

“Non ci credo! Hai una villa, tuo padre è pieno di soldi e giri con due miseri dollari?”

“Non ho altro…”

“Sei patetica” rispose Ashley strappandole dalle mani le due banconote da un dollaro ciascuna.

“Spero che domani non farai la stessa figuraccia”.

Dopo le minacce, Ashley le diede un colpo sulle costole: Jane si piegò in avanti e strinse i denti per il dolore riuscendo a non gridare; respirava affannosamente e pregò il cielo che tutto finisse con quell’unico colpo.

La reginetta si mise al suo posto e aspettò, come se niente fosse, l’arrivo di Flores.

* * *

Sapeva benissimo che Ashley non scherzava.

Jane si chiese quante persone nel mondo avessero problemi di quel genere; quanti ragazzi si immischiassero in affari loschi, in giri di soldi sporchi e quanti di loro, come lei, dovessero del denaro a qualcuno. Il problema però era che Jane non aveva fatto niente per meritare quella punizione: il suo era un insensato obbligo imposto da una ragazzina prepotente e strafottente che riusciva nel più brillante dei modi a far valere le sue regole alle persone giuste. Jane era un’ottima preda. Pur di non avere guai era disposta a subire e Ashley questo lo aveva capito fin dall’inizio.

Appena entrò in casa salì al piano di sopra e meditò sul da farsi: doveva procurarsi ogni giorno un po’ di soldi; aprì con foga il tappo bianco del suo salvadanaio e di colpo volarono in aria solo alcuni spicci. Caddero rumorosamente sulla scrivania bianca e altri a terra; li contò tutti, ma non arrivavano nemmeno a tre dollari. Per un giorno si sarebbe salvata, ma il resto delle volte? Un pensiero le suggerì di provare a parlarci, magari se le avesse detto che il padre non le dava un soldo forse avrebbe capito e annullato la richiesta, ma era naturale che quella sarebbe rimasta una fantasia lontana e irrealizzabile.

Scese in cucina e si accorse di un bigliettino sul tavolo della cucina.

Ti lascio un foglietto, devo scappare:

il turno di oggi l’ho fatto stamattina

perché devo sbrigare faccende urgenti.

Grazie infinite tu sai per cosa.

Ti auguro una buona giornata.

Jolie.

La sensazione di essere sola in casa, per tutto il pomeriggio, le provocò addosso una strana sensazione. Poteva fare quello che voleva senza essere vista.

Si preparò al volo un’insalata di pollo, mais, olive e carote, poi si lavò i denti. Si guardò allo specchio e si accorse di avere le palpebre più allargate del solito: si rese conto d’essere tesa, il suo corpo era irrigidito e la mente non faceva altro che pensare al problema da risolvere. Stavolta c’era davvero il rischio di passare guai seri con Ashley; sarebbe stata disposta a tutto pur di non essere una sua vittima. Girando a vuoto per il salone, ad un certo punto, fissò il mobile di ciliegio che prendeva una parete intera e più precisamente guardò l’ultimo sportello in basso a destra.

Aveva appena capito come procurarsi, senza problemi, i soldi che le servivano.

* * *

L'idea che le era venuta in mente non era delle migliori, ma l'urgenza della situazione la rendeva assolutamente necessaria.

Arrivata davanti alla credenza fece un grande respiro, chiuse un attimo gli occhi e si pentì da subito per quello che stava facendo. Stava sacrificando la sua filosofia, il suo modo di pensare e di essere, ma non poteva andare diversamente. Un gran peso sullo stomaco le rendeva difficilissimi i passi che la separavano dallo sportello marroncino della credenza. Guardò la piccola chiave che avrebbe dovuto girare, l'afferrò con due dita e non appena iniziò la rotazione verso destra, lo scatto della piccola serratura sembrò amplificarsi di un milione di volte. Il mondo intero, sentendo quello scatto così forte, si girò verso di lei con occhi feroci incolpandola da subito: Jane Madison aveva perso ogni grammo di dignità, solo girando quella chiave.

In casa regnava un sinistro silenzio che metteva paura. Tutto immobile, gli oggetti la guardavano e lei, a denti stretti, iniziò l'operazione: aprì lo sportello dell’armadio e infilò la mano cercando di schivare le due ventiquattrore del padre, alcuni raccoglitori di plastica nei quali teneva le bollette, un vaso, alcuni cd sparsi. Quando le sue dita toccarono la fredda superficie del salvadanaio di Gary cercò in tutti i modi di stringerlo e tirarlo a sé, ma era come intrappolato tra tutti gli altri oggetti che gli facevano da scudo. Forzò ancora di più, ma niente, sembrava cementificato. Si aiutò con l'altra mano e, serrando ancor di più la stretta, iniziò a fare forza fino a che riuscì finalmente a strappare via il salvadanaio del padre. Per la troppa foga, però, dal mobile scaraventò via anche tutti i documenti di Gary che si sparpagliarono disordinatamente a terra, il vaso si frantumò con un rumore sordo e anche il salvadanaio di coccio andò in mille pezzi liberando così centinaia di monete e decine di banconote.

Jane cadde all'indietro e vide il disastro. Fortunatamente, pensò, a casa non c'era nessuno e avrebbe potuto riordinare tutto con calma; più che per la rapina al padre, il vero danno era aver distrutto il prezioso vaso a cui la bestia era particolarmente legata. Vedendo i suoi residui a terra si ricordò di un giorno, anni prima, in cui Gary l’aveva sgridata pesantemente per aver urtato senza volere il tavolo e aver fatto vacillare il suo oggetto preferito.

“Prima che tu faccia altri danni, questo lo metto al sicuro” aveva detto lui nascondendo il vaso all'interno del mobile accanto al salvadanaio dove teneva i suoi risparmi. Non sapeva cosa inventarsi nel momento in cui Gary l'avrebbe scoperta.

Solo al pensiero le vennero i brividi.

Si sbrigò ad andare a prendere una busta dell’immondizia, ma passando davanti alla porta d’ingresso sentì girare una chiave dall'esterno e la porta, di scatto, si aprì.

Diversamente da ogni sabato, il padre rientrò a casa.

Con un incredibile anticipo.

* * *

“Papà!” esclamò sorpresa.

“Mi serve un numero!” sbraitò lui. Sembrava davvero indaffarato e frettoloso. Andò accanto al mobile su cui c’era il telefono di casa e, da un cassetto, tirò fuori un'agenda nera; la aprì e iniziò a cercare qualcosa di corsa, poi prese il cellulare e compose il numero che gli serviva.

 

“Cazzo, è inesistente! La stronza mi ha mentito!” gridò lui. Sbatté un pugno sul telefono e la cornetta cadde a terra per poi ciondolare a destra e a sinistra come un pendolo dai poteri ipnotici. Jane era immobile e pregava con tutta se stessa che andasse via in quel preciso istante. Mentre lui fissava la cornetta penzolante in cerca di una soluzione al suo urgente problema, Jane notò con terrore che un pezzo di vaso era a pochi centimetri dai suoi piedi. Staccò subito lo sguardo da lì e cercò d'intrattenere la bestia calpestando il piccolo frammento.

“Cos'è successo?” domandò con voce tremante cercando di distrarlo.

“Ti prego stai zitta! Ti prego, Jane non intrometterti, ci manchi solo tu!” disse lui alzando entrambe le mani in aria. Iniziò a gironzolare nell'atrio, si avvicinò alla porta d'ingresso e per un attimo Jane credette che se ne stesse andando, invece tornò indietro, fino alla sua agenda. Controllò altri numeri e ne chiamò un altro.

“Manca la cubista! Manca la cubista! Sto cercando il bigliettino con l'altro numero, ma non lo trovo” sbraitò a un suo collega.

“Non doveva solo ballare! Lo sai che avrebbe dovuto intrattenere Rütger Hoffmann!”

Gary cercava di stare calmo, ma proprio non ce la faceva. La cravatta sembrava strangolarlo tanto era rosso in faccia.

Quando Ginger si attaccò al clacson chiamandolo, Jane la ringraziò con tutto il cuore. Mai prima di allora le aveva voluto così bene.

“Dai, sbrigati! Siamo in ritardo!” gridò lei con voce stridula.

“Arrivo, non suonare quel maledetto coso!” Gary prese l'agenda e la tirò a terra bestemmiando: dalle pagine ingiallite uscirono tre bigliettini bianchi. Gary guardandoli si accigliò e ne raccolse due. Li lesse e cercò di fare mente locale. No. Non erano quelli che cercava.

Jane sapeva che la sua fine stava per arrivare.

Il terzo bigliettino era finito accanto a un altro pezzetto di vaso che era sfuggito all’attenzione della ragazza.

Gary si accucciò afferrando il biglietto e il residuo di coccio.

“Questo è il numero che cercavo”.

Jane chiuse gli occhi.

“Ma questo cos'è?” tuonò la bestia mostrando a Jane il quadratino di ceramica.

Gli occhi della bestia fulminarono quelli della ragazza ormai presa dal panico. In nessun angolo della sua anima era rimasto un solo briciolo di coraggio.

Gary abbassò ancor di più la voce e disse: “Spero per te che tu non abbia rotto il…”

Dall'espressione terrorizzata della figlia, la bestia capì. Con uno scatto si girò e con lunghe falcate raggiunse il salone; il pavimento ricoperto di cocci di ceramica e di soldi fu per lui una coltellata conficcata in petto. Con dolore e rabbia poté constatare che non solo era andato in frantumi il suo adorato vaso, ma anche il salvadanaio in cui metteva i suoi risparmi.

Rimase ancora qualche manciata di secondi in quello stato di shock, fissava il pavimento e non disse nulla nemmeno quando Ginger riprese a suonare insistentemente il clacson, tortura sonora a cui era intollerante.

Strappò il bigliettino che finalmente aveva trovato e si rivolse alla figlia con un misterioso sorriso mentre lasciava cadere i piccoli pezzetti di carta che, con giravolte disordinate, precipitavano a terra.

“Avevo un problema al pub” disse lui calmo, “ma tu puoi essere la soluzione”.

Jane non riusciva davvero a capire cosa intendesse.

“Papà posso spiegarti, non è come pensi…” cercò di essere convincente, ma la voce debole la tradì.

“Non devi giustificarti piccola mia, possono succedere queste cose, no?” Gary era troppo calmo, pensò Jane: cosa stava tramando?

“Facciamo così” concluse lui, “se stasera vieni al pub e mi aiuti a sbrigare delle semplici faccende, giuro che non ti strangolerò con la cinta dei pantaloni. Va bene, piccola bambina di papà?”

Quel sorriso stampato in faccia e quell'aria tremendamente misteriosa terrorizzarono la ragazza.

“Se potessi aiutarti, lo farei volentieri” disse lei.

“Perfetto, allora adesso vai a cambiarti così da raggiungerci in macchina” disse Gary congedandosi. Poi, voltandosi, la fulminò di nuovo.

“Mamma Ginger ci aspetta”.

* * *

Il sole stava calando e il cielo si era imbrunito.

Jane vedeva sfrecciare il paesaggio dal suo finestrino. Rifletteva guardando la gente, le case, le macchine parcheggiate.

Dopo una silenziosissima ora di viaggio finalmente si trovarono davanti al pub di cui aveva sentito tanto parlare senza essere mai stata invitata a visitarlo.

Jane fissò l’insegna rosa del locale ancora spenta: Gary’s Night Club. La scritta non faceva altro che confermare quello che sospettava da tempo: non era un semplice ‘pub’, come lo chiamava lui, ma si trattava di un vero night club situato in periferia, lontano da casa, dal centro e da occhi indiscreti.

Appena entrati si notavano subito i grandi cubi dove avrebbero dovuto ballare le tre ipotetiche ballerine con tanto di pali d’acciaio per la pole dance, tavolini che sarebbero serviti per champagne, aperitivi e stuzzichini da sgranocchiare mentre ci si godeva lo spettacolo erotico. Il resto del locale era occupato da sedie in pelle scura e divanetti riservati probabilmente ai clienti abituali che pagavano il privé.

Il locale, inoltre, era tappezzato di fotografie porno in alta definizione: donne nude su motociclette, abbracciate a uomini senza né indumenti né volti espressivi, teneri o rassicuranti. Altre rappresentazioni accattivanti e volgari erano situate su tutte le pareti.

Jane rimase colpita dall’eleganza e dal lusso sfrenato con il quale era stato arredato il night. Suo padre era un uomo rozzo e ignorante, scontroso e sempre di malumore e si domandò come avesse fatto a rendere quel locale così chic.

Si avvicinò a una delle tante fotografie appese alle pareti e notò che persino le cornici erano decorate alla massima potenza: addirittura, sulla testa di ogni chiodo utilizzato per reggere i quadri, era inciso un volto in miniatura di una donna con gli occhi chiusi che teneva in testa una corona di fiori.

Le sedie, così come i divanetti, sembravano comodissime, soprattutto quelle in prima fila, che somigliavano a vere e proprie poltrone. Posti riservati a pochi eletti.

Jane avrebbe voluto sapere molto di più su quel night, ma il padre le aveva detto che lo avrebbe dovuto aiutare solo in alcune semplici faccende e poi l’avrebbe riportata a casa, quindi non avrebbe potuto assistere al grande spettacolo che si teneva ogni sabato sera.

O almeno così credeva.

* * *

Tre ragazzi e due ragazze entrano nel night.

“Ecco i miei figliuoli!” esclamò Gary alzando al cielo la bottiglia che aveva appena stappato. Le ragazze si scambiarono un’occhiata e abbassarono entrambe il capo. I maschi strinsero i denti e lo guardarono con occhi gelidi. I loro visi erano immobili, come paralizzati sotto lo sguardo del grande capo. Dopo averlo salutato ed essersi cambiati in quello che sembrava uno spogliatoio comune, le ragazze, armate di scopa, si accinsero a togliere tutta la sporcizia che c’era sui pavimenti mentre gli altri, muniti di stracci e disinfettanti, cominciarono a pulire i tavolini.

“Bravi i miei ragazzi, questo locale andrebbe a puttane senza di voi!” Scoppiò a ridere per la sua formidabile battuta. Non poteva sceglierne una migliore. Jane se ne stava in piedi vicino al bancone del bar a osservare silenziosamente quei ragazzi che lavoravano. Gary passava tra di loro, li controllava, li incitava ad andare più veloci dato che l’ora di cena si avvicinava e la clientela sarebbe arrivata poco dopo mentre lui si limitava a bere e a gironzolare come un nullafacente. Prima scambiò qualche occhiata con la figlia, poi le impose di andarsene nel suo “studio”.