Kostenlos

La principessa romanzo

Text
Autor:
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Ella si era appoggiata col gomito a una delle estremità della mensola, in malachita, del caminetto, e agitava una gamba, il cui movimento, quasi febbrile, si vedeva sotto l’ampia pelliccia di martora, in cui si stringeva.

– D’ora innanzi, – riprese il principe, – noi vivremo assolutamente separati.... Cesserà fra noi ogni intimo rapporto.... Lascio a voi tutto il primo piano del palazzo: io abiterò al pian terreno.... Pranzeremo insieme: riceveremo insieme, qui al primo piano, le sere in cui diamo i nostri balli: vi accompagnerò io alle feste, a’ teatri, alle passeggiate.... Vi lascerò qui tutta la massima libertà: e guai a voi, se ne abusate.... Così avrete la separazione invocata.... E questi miei ordini sono irrevocabili! – disse il principe con la più cupa risolutezza.

Enrica singhiozzava: questa volta sinceramente.

Volle accostarsi al principe: egli la respinse, e le disse: – Siete una donna molto triste e molto pericolosa.... Farete o avrete fatto molto male: ma ricordatevi che nel mondo vi sono compensazioni inevitabili: troverete chi saprà darvi il vostro castigo: non sempre s’incontrano vittime rassegnate.

Parve a Enrica, in quell’istante, veder affacciarsi dalla porta la pallida fisonomia di Roberto: e dette un grido.

Ma la porta era stata aperta e rinchiusa dal principe, ch’era uscito per andar a conferire col suo maggiordomo circa la nuova disposizione degli appartamenti, a cui cercava un pretesto.

Enrica, rimasta sola, si gettò sul sofà, la testa sprofondata in uno dei morbidi cuscini, e pianse. Non aveva mai pianto lacrime sì vere e sì abbondanti. Il cuore le diceva che quel distacco dal principe le sarebbe fatale: che lasciata padrona di sè avrebbe scivolato chi sa in quali abissi: e poi, ora che il principe l’abbandonava, essa, volubile, bizzarrissima, s’accendeva d’una folle passione per lui.

Morto il padre, abbandonata dal principe, si sentiva sola nel mondo: sola, se non co’ suoi rimorsi, co’ pensieri non lieti delle cose malvagie da lei poste in atto.

Col tempo, il ricordo di Roberto ch’ella credeva aver cancellato per sempre dal cuore, vi si ravvivava.

Provava spesso una inquietudine, una smania inesplicabili: non pigliava sonno, non trovava in nulla diletto: avea da opporre a tutto, da censurar tutto, profanava ciò ch’è più sacro, bruttava ciò ch’è più bello: la vita amarissima di chi ha trasgredito le grandi leggi morali, inviolabili della coscienza.

S’era fitta in capo un’idea sin da quella memorabil mattina: riconquistar la grazia del principe.

E, nel corso di anni, vi era riuscita. Il principe ormai la trattava con benevolenza paterna: con una affabilità indulgente e un po’ motteggiatrice.

S’era formata fra loro come una certa tregua: vivevano abbastanza in pace: la principessa, tutta intesa al riconquistare; il principe sempre attento, perchè temeva d’insidie, e per provvedere, senza por tempo in mezzo, nel caso di pericoli.

In tale condizione noi li abbiamo trovati, insieme col nostro lettore, una mattina seduti a un tavolino, prendendo il tè, nel salotto della principessa.

Qual differenza tra questa mattina e l’altra da noi dianzi descritta! Allora il principe amava, stimava a bastanza la moglie: or non avea più per lei nè affetto, nè fiducia.

Anche il salotto non era lo stesso: quello ove si era svolta la disgustosissima scena era un salotto verde, con grandi fiori rossastri, nelle pareti, tappezzate di seta: questo era un salotto, in cui le pareti, i mobili, erano coperti di seta azzurra, splendente, con fiorellini bianchi, di mughetto, a rari intervalli.

La principessa, il principe si può dire vivessero ormai in ottimi rapporti, e quasi cordiali, siccome abbiamo avuto modo di rilevare dal dialogo riferito nel principio di questo capitolo.

Il principe scherzava volentieri nelle domande che faceva alla principessa sulle sue speciali occupazioni, sull’impiego della sua giornata, sulle persone, uomini e donne, che vedea più di frequente.

Anche la principessa scherzava nelle sue risposte, e talvolta nelle sue domande.

Ma, l’uno e l’altra, sempre in tuono assai dolce.

Dopo lo screzio con la moglie, il principe si era mostrato molto assiduo in casa della duchessa Rignatelli, giovane vedova, e dama della Regina.

Nell’alta società napoletana si raccontava che il principe avea un tempo fatto molto la corte a una zia della duchessa, bellissima donna, sebbene un po’ matura, e che ora avea rivolto alla nipote i suoi omaggi.

Il carattere della giovane vedova era molto confacente a quello del principe.

Anch’essa era delicata, poetica, studiosa, musicista, innamorata d’ogni arte: e, malgrado la sua delicatezza, coraggiosa, anzi intrepida.

La relazione fra il principe e la gentildonna non era più un mistero per tutta Napoli; e naturalmente anche la principessa ne avea udito parlare, e sovente, e magari con esagerazioni, da’ suoi corteggiatori.

Ella avea ben capito fin dalle prime che fra quei due, sì affini nella bontà della indole, nella elevatezza degli ideali, vi dovea essere una corrispondenza di animi, profonda, esaltata.

Siccome era fierissima, non avea mai voluto mostrarsene gelosa.

Ricevea la duchessa, le rendea puntualmente le sue visite, l’abbracciava, la baciava al cospetto delle amiche; con ciò intendeva gratuirsi il principe.

Egli non avrebbe tollerato, con la singolar buona fede la quale è in ogni uomo, che la moglie facesse ciò che egli pur faceva senza molto ritegno: ed era pronto a punire ogni scandalo, anche col più grave rischio della sua vita.

La principessa lo sapeva: e adoperava molta prudenza.

In casa della duchessa il principe passava la miglior parte delle sue giornate, o delle sue serate. Leggevano insieme: insieme parlavano, discutevano, si eccitavano, a proposito d’un quadro, di una statua, dello spettacolo del San Carlo, della commedia nuova, udita la sera innanzi: insieme entravano nei comitati di carità: e tutti dicevano ch’era un peccato non si fossero conosciuti prima, e non si fossero sposati: perchè avrebbero formato una coppia davvero felice. Erano fatti l’uno per l’altro: questo pensavano tutti.

– Come sta Luisa? – domandò placidamente quella mattina la principessa al marito: e alludeva alla duchessa. – È un pezzo che non la vedete? – aggiunse con sguardi molto maliziosi.

– L’ho veduta iersera, – disse con molta franchezza il principe, – e la rivedrò oggi, per un affare assai importante.... Essa sta benissimo.... E anche ieri mi ha domandato di voi....

– È una cara creatura!… – interruppe Enrica con piglio distratto.

– Vi ricordate, Enrica, – osservò il principe, – di una brutta scena, avvenuta fra noi, anni or sono, in quel salotto… là.... – E il principe si rannuvolò un poco.

– Mi ricordo benissimo della vostra ferocia!… – Ed Enrica si era alzata per accostarsi al principe, che le fece cenno tornasse al suo posto.

– E bene… voi volevate allora ch’io tornassi nella diplomazia.... Io vidi in questa proposta un sentimento di slealtà… scusate.... Oggi sono risoluto di far ciò che voi mi consigliavate allora… dopo tanti anni, ho ricevuto di nuovo questo consiglio....

– Chi ve l’ha dato?… la duchessa, eh?…

– Appunto, – ribattè freddamente il principe, – la vostra amica Luisa.... Ho accettato dopo tanti anni il consiglio, poichè oggi le condizioni del mondo sono assolutamente mutate.... E che cambiamenti ancora avverranno!

Enrica gongolava: era essa, che aveva sobillato con abilità la duchessa per mezzo di un’altra sua amica a indurre il principe a partire.

– Poveri uomini! – pensava, guardando il principe di Caprenne: – come siete fanciulli, e che docili strumenti siete nelle nostre mani!

– Partirete presto? – chiese Enrica, la quale facea ogni sforzo per rattenere un accento d’ironia.

– Assai presto....

– Anche questa duchessa, – diceva fra sè Enrica, – m’ha servito a qualche cosa.... Uomini, donne, sono tutti, almeno furono sin ad ora, strumenti della mia volontà!

Enrica andava ben lungi dal vero, attribuendo alla sua scaltrezza la nuova determinazione presa dal marito. La sua influenza su di esso era stata ben debole. Ma ne spiegheremo la cagione. In casa della duchessa si raccogliea il fiore de’ liberali napoletani. I più arditi erano nell’esilio o nelle prigioni: restavano uomini temperati, prudenti, se non eroici, a tener vive certe idee.

La duchessa avea avuto nella sua famiglia due parenti malvisi al governo dispotico per la generosità dei loro sentimenti di patrioti: e, benchè dama della Regina, non sdegnava che si discutessero al suo cospetto certe idee: anzi, del suo grado si era valsa più volte a mitigare le persecuzioni contro alcuni.

L’idea che si discuteva spesso tra’ più fidi, nelle conversazioni della duchessa, era quella di un’Italia unita, o sotto un re, o a repubblica: e c’era perfino fra quei gentiluomini, e fra’ non meno sapienti, chi vagheggiava una gran repubblica federale.

Il principe partecipava sempre a que’ colloqui.

Una sera il gruppo degli amici della duchessa, formato da una ventina degli uomini più geniali di Napoli, era quasi tutto riunito nel salotto di lei.

Il discorso era caduto sui soliti argomenti.

– Noi abbiamo un torto, – disse uno fra loro, uno tra’ più gran signori napoletani, – quello di tenerci troppo in disparte.... Perchè non cerchiamo d’aver mano negli affari del nostro paese?… Noi tutti ci sentiamo italiani e vogliamo che il concetto della nazione unita, forte, agguerrita contro tutti i suoi nemici, trionfi.... Credete che non si possa servire alla nostra causa, negli uffici della Corte, nelle alte cariche del Governo, nella diplomazia, quanto negli esilii e nelle prigioni?… I nostri cari martiri debbono esserci veneratissimi: dobbiamo ripensar sempre a coloro che soffrono per ciò che noi vogliamo: questo servirà sempre a temprarci il carattere.... ma, se noi non abbiamo la virtù d’incontrar il martirio, abbiamo almeno l’avvedutezza di operare secondo le nostre forze.... Non gioveremo meno....

 

Concordarono dunque di operare.

La duchessa li incoraggiava col suo dolcissimo sorriso.

Si spartirono gli uffici che aveano a cercar d’occupare.

Il principe affermò che sarebbe tornato di buon animo alla diplomazia.

Ripugnante dal tornarvi per sodisfar un capriccio della moglie, si esiliava, quasi lieto, da Napoli per compier un dovere.

La poetica affezione, ch’egli nutriva per la duchessa, lo avvalorava ne’ suoi proponimenti. Sapeva quanto il sagrifizio lo avrebbe nobilitato agli occhi di lei.

Ed Enrica? Essa, dopo un’affannosa ammirazione per il marito, era tornata alla sua vita indolente, bizzarra, irrequieta.

Di lei già si mormorava molto alla Corte: si buccinava tentasse la conquista del Re. Tutta Napoli ripetea questa voce, giustificata da qualche favore regale.

Superfluo dire che nessuno ne avea mai parlato al principe di Caprenne. Egli, alcuni mesi dopo la deliberazione presa in casa della duchessa, fu inviato ambasciatore presso una grande potenza.

Il posto era atto ai meriti del principe, ma importantissimo, desiderato quindi da molti: e si levò gran clamore, per questa nomina, che suscitò tutte le insidie. Subito fu ripetuto nei circoli dei salotti di Napoli: ne’ crocchi de’ maligni:

– Il Re si è voluto sbarazzar del marito.... L’ambasciata è un discreto compenso all’esilio da Napoli.

Invece il principe partiva col più alto concetto.

– Fra quaranta, cinquant’anni, – egli avea detto a’ suoi amici, – il concetto che c’ispira sarà attuato: per quello che io intendo nella storia, nella ragione di Stato, e che posso inferirne, fra quaranta, cinquant’anni, l’Italia sarà unita dalle alpi al mare.... Dedichiamo la vita a uno scopo tanto sublime.... Noi non lo vedremo effettuato.... forse: ma l’incessante pensiero di esso ci avrà sostenuto, ci avrà nobilitato la vita, consolato di molte afflizioni, sollevato su molte frivolezze....

Con tali concetti egli partiva, ma non veniva a svelarli alla moglie, che sapea non avrebbe potuto intenderli, nè forse li avrebbe tenuti segreti.

Egli si accingeva a un’opera molto ardua: compiere una missione liberale, nella qualità di rappresentante di un despota, e d’uno di que’ despoti che, nel nostro secolo, un uomo illustre per ingegno e scienza di Stato chiamò: negazione di Dio!

Il principe era venuto a dar alla moglie l’annunzio della sua vicina partenza, a darle le sue istruzioni, contenute in poche e fredde parole.

La principessa non riuscì del tutto a nasconder la sua gioia.

Essa veramente aspirava a avere alla Corte un posto più ragguardevole, una maggior considerazione; glielo assicurava ora il suo grado d’ambasciatrice. Le piaceva mostrarsi vicina al Re: tendeva a impadronirsi del cuore di lui, e si vedrà quanto ciò dovea costarle. Nel parlare col principe, già s’inebriava della sua appagata ambizione. Nè al principe sfuggiva l’esaltamento di lei. Egli le avea ripetuto le istruzioni datele qualche anno innanzi, allorchè, appunto a causa del suo ritorno nella diplomazia, era sorto fra loro sì vivo dissapore.

Ma il colloquio tra marito e moglie, che procedeva affabile, in forma molto cortese, tutti e due ritenendo ciascuno in sè la parte più viva de’ loro sentimenti, fu interrotto.

Un servo bussava alla porta.

– Entrate! – disse la principessa.

Il servo annunzio che una donna domandava di S. E. la principessa.

Enrica subito impallidì.

– Fatela passare nella sala dove ricevo, – rispose la principessa molto turbata.

Poi, come pentendosi, aggiunse:

– No: no: che aspetti nell’anticamera.

Il principe capì che c’era qualche cosa di tenebroso: qualche cosa, per lo meno, che a lui si voleva tener celato.

Si alzò, un po’ rigido, dicendo alla moglie:

– Se me lo permettete, tornerò a farvi una visita stasera – e si accomiatò molto cerimonioso.

Nell’anticamera si abbattè in una donna alta, magrissima, che portava un fitto velo sul volto, e che era vestita molto dimessa e di panni molto scuri: a guardarla, potea sembrare una di quelle squallide beghine, che frequentano sempre le chiese per domandarvi elemosine: e potea pur sembrare qualche cosa di peggio.

– Che può aver che fare mia moglie con donne di tal genere, – pensò il principe, – e a quest’ora?

Non volle però spinger oltre le sue investigazioni.

Enrica, uscito il principe, avea preso un albo, e mostrava di gettarvi gli occhi, di sfogliarlo, tanto perchè il servitore, che dovea lì accompagnare la donna, la trovasse, in apparenza, indifferente.

Quando il servitore ebbe richiuso l’uscio, la donna, sopravvenuta, senza mettersi a sedere, e senza che la principessa ve l’invitasse, alzò il velo, e apparve la sua faccia scialba, giallastra, ossuta com’era tutta la sua persona.

La principessa, senza neppur guardarla, poichè, al solo annunzio e alla fisonomia del servitore, avea indovinato chi era, gettando l’albo lontano da sè, in modo che infranse una graziosa statuetta di Sassonia, cominciò ad inveire in tuono di voce sommesso, ma terribile:

– Da quando sei arrivata a Napoli?… Ti avevo detto di non metter mai più qui il piede.... Non sono venuta io in tutti i tuguri, in tutte le straducole ove t’è piaciuto darmi appuntamenti?

– Mi era impossibile d’aspettare, però son venuta a vedervi.... Un tempo non eravate così sdegnosa verso di me.... Ora mi scaccereste volentieri.... se poteste: un tempo non sapevate stare senza di me. A chi avete confidato tutti i vostri segreti? E chi ve li ha custoditi con più gelosia?… Riflettete bene: quanto siete ingrata!

E la donna sedette con molta familiarità su una poltrona di raso, color crema. E la stoffa nitida, splendidissima, facea singolar contrasto con quella sì misera e frusta dell’abito di lei.

In questa donna, che parlava con tal burbanza alla principessa, il lettore avrà facilmente riconosciuto Cristina Braco.

Enrica avea creduto operar con avvedutezza, licenziandola dal suo servizio non sì tosto furon fissate le nozze fra il principe Gorreso di Caprenne e lei. Le dette una ragguardevolissima somma, e le raccomandò di nuovo la bambina, ch’ella credeva avesse sempre in custodia.

Per un pezzo, Enrica non vide più Cristina: un giorno la incontrò di nuovo nel parco di Mondrone.

– Che fai tu qui? – le domandò altezzosa la principessa.

– Sono al servizio dell’abate Perricone, – rispose l’altra con protervia.

L’abate Perricone era il prete che officiava nella cappella del parco, e che reggea la parrocchia di Mondrone con virtù esemplare.

Cristina avea facilmente acquistato molto dominio sull’animo del vecchio, quasi decrepito sacerdote, staccato da ogni interesse mondano: lieto che altri, di volontà risoluta, assumesse per lui tutte le cure materiali della sua casa.

Un altro motivo avea spinto Cristina a tornare in que’ dintorni: il desiderio di star vicino al bel guardacaccia ch’ella amava sempre, con tarda, ma pur ostinata e infuocata passione.

Cristina sfaccendava, comandava, disponeva tutto a suo talento nel presbitero. Un giorno d’estate, nel pomeriggio, per distrarsi dal gran caldo che l’opprimeva, era salita nell’archivio della parrocchia, una stanzetta che dava in una corticella quasi scura, e sempre riparata dal sole.

S’era messa a spolverar le filze di carte, poi a leggiucchiare qua e là certi documenti: battesimi, matrimoni, atti di morte di persone da lei conosciute.

A un tratto il suo volto s’illuminò di un sorriso sinistro; torse la sua larga bocca, dalle labbra pendenti, ad un ghigno: avea letto i nomi di Enrica e di Roberto.... la ragguagliata dichiarazione del loro matrimonio.

Ah, essi gliene aveano fatto un mistero!

E Cristina rimise al posto la filza, sicura che avrebbe sempre potuto prendere quel documento, allorchè le fosse occorso.

Pensò poi aggiungerne un altro che sarebbe stato prezioso: l’atto di nascita della bambina, appartenente a Enrica e a Roberto.

Una sera, dopo che il vecchio prete ebbe finito la sua parca cena, gettò un’occhiata su Cristina, cosa che facea ben di vado.

Gli parve un po’ turbata, e si accorse che cercava ogni pretesto, raccogliendo or un oggetto, or un altro, sulla tavola per non allontanarsi da lui.

– Che avete stasera? – le domandò il brav’uomo.

Ella rispose con uno scoppio di pianto.

Avea imparato da Enrica il segreto del piangere a suo grado.

Si buttò in ginocchio a’ piedi del prete: gli disse, singhiozzando, che ella avea sull’animo un gran peso.

Il buon prete si lasciava commuovere.

– Sei tu dunque caduta in un fallo molto grave? – la richiese quasi paternamente.

– Oh, io credo aver partecipato a un delitto!…

Il vecchio rimase esterrefatto. Avea nella sua casa, una delinquente! Si alzò come se volesse evitarne il contatto.

Ella si trascinava carponi dietro a lui, supplicandolo ad ascoltarla: il rimorso la divorava, – così diceva, – le urgeva da lui un consiglio.

E gli raccontò il fatto della bambina. Ella vi sosteneva un’ottima parte; non già di suggeritrice, di complice, ma di vittima: i signori comandano, bisogna obbedire, – essa diceva, – o altrimenti restar senza pane. Avea pagato con sì lungo pentimento e con sì forti rimorsi questa sua cieca obbedienza! E la persona, per la quale avea rischiato la salute dell’anima, come l’avea compensata? Cacciandola dal suo servizio!

Tacque della fine che avea fatto la bambina: aggiungendo, con arte, che a lei era stato tolto di poter investigare ciò che ne fosse avvenuto.

Il parroco la racconsolò; ella non avea fatto ciò per lucro....

– Questo no, davvero!… – interrompeva Cristina.

Era stata spinta a operar in quel modo dalla volontà de’ suoi padroni; essi ne sarebbero dinanzi a Dio mallevadori.... La sincerità del pentimento che vedea in lei essergli garanzia che il cielo già le avea perdonato....

Poi Cristina si accorse che il prete, com’ella aveva voluto, stendeva dichiarazione della nascita della bambina, notando il giorno e l’ora, e affermandola nata dalla duchessa Enrica, e da Roberto Jannacone.

Il prete avea gran soggezione d’Enrica e ricavava da lei vistoso utile, in proporzione de’ suoi desiderii: però ammonì Cristina di tener in sè ormai questo segreto: di non ne far motto sin che vivesse. Nella divulgazione dello scandalo sarebbe stato il massimo peccato.

E il vecchio sacerdote si assorse in preghiera, nel riflettere a’ guai del mondo, a’ castighi, che, presto o tardi, trae con sè la sfrenatezza delle passioni.

Pensava a Roberto, in fondo a un durissimo carcere; a Enrica, tutt’altro che felice, poichè egli le leggeva bene nell’animo, e immaginava i tormenti a cui dovea essere in preda pel timore che qualche cosa del suo passato trapelasse.

Roberto era morto civilmente per la sua condanna a vita, ed egli pensava che la duchessa, giovanissima, avesse avuto bene il diritto di contrarre un regolare matrimonio.

Del resto l’abate si rimetteva a ciò che avean fatto i suoi predecessori.

Si era pur chiesto in cuor suo, che sarà avvenuto della bambina?

Non nutriva risentimento contro Enrica: dovea ammettere ch’avesse confessato tutto al principe e ch’egli le avesse perdonato.

E, infatti, come abbiamo rilevato da un dialogo fra il principe e Enrica, essa gli avea tocco di un certo trascorso della sua prima giovinezza, ed egli, nel bollore del suo farnetico per lei, l’avea assoluta.... Ma la confessione consisteva in una storiella romantica, quasi anodina, ch’ogni uomo di cuore, innamorato, o meglio appassionato, e senza pregiudizi, avrebbe perdonato di leggeri.

Cristina Braco era ormai l’arbitra del segreto: la sola persona che pensasse a sfruttarlo, e arditamente. I due documenti, che si serbavano nel presbitero, caduti in sua mano, erano armi terribili.

Enrica non respirava più. Le esigenze di questa donna abietta andavano sempre aumentando.

Essa era nata d’una famiglia di contadini, molto numerosa e povera, sebbene un tempo avessero avuto terre del loro e menato vita prospera.

Volea, prima di tutto, che la sua famiglia rifiorisse nell’antico stato: poi ella stessa, serbando apparenze di umiltà, volea vivere in lusso; non basta: essa provvedeva al bel guardacaccia, alla famiglia di lui, che profittava, senza rammarico, di quelle lautezze offertele solo perchè un de’ suoi sapea tener vivo, inattutito un amor di donna assai attempata.

Nel vedersi comparir dinanzi Cristina un’altra volta, e con quella improntitudine, dopo che l’avea largamente sovvenuta due giorni innanzi, Enrica perdette la pazienza.

 

– Sta bene – disse – ch’io ho ordinato a’ miei servitori di non scacciarti, quando ti presenti; ma tu abusi.... Vieni qui in ore insolite; non ti dai neppur la pena di vestir un abito che possa illudere sulla tua condizione: non hai neppure il pensiero di fingerti una sarta, una pettinatrice, una maestra di ballo, o di musica, che venga a darmi lezioni.... No: entri qui: vieni, vai, come se tu fossi in casa tua: come se tu studiassi ogni mezzo per compromettermi....

– La bambina è malata.... – interruppe Cristina con la sua solita menzogna, poichè non avea ancor scoperto il vero ad Enrica, ma si preparava a svelarglielo, – e di una malattia che sembra mortale.... Ci vogliono molte spese: la gente che l’ha in custodia, sono gente poverissima, come vi ho detto altre volte, sono tutti occupati ad assisterla, trascurano le proprie faccende, non hanno pane.... E io? io ho bisogno da voi del massimo favore.... Mi è capitato di ricomprare alcuni campicelli, già appartenuti al mio povero babbo, morto pazzo pel dolore, dacchè glieli tolsero.... Mi occorrono quindicimila lire....

– E ne hai avute già, entro due settimane, ottomila.

– Sono le ultime, che vi domando.... salvo urgenti bisogni.

– È impossibile! – esclamò Enrica. – Non ho tutto questo danaro a mia disposizione: ti ho dato in undici anni vesti, denari, oggetti d’ogni specie per un immenso valore.... E tu abusi, abusi sempre di me.... sei sempre più povera.... a ascoltarti! Che hai fatto per gettar via tutto questo denaro?

– Non ho bisogno di rendervene conto! – rispose asciutta Cristina.

Così la principessa si vedeva trattata dalla sua antica cameriera.

Volea darle uno schiaffo, gettarle in viso il bicchier d’argento, ch’avea vicino, ma si ritenne. Cristina, la sua antica compagna e consigliera di dissolutezze, la sua maestra e complice di piaceri, serbava sempre un grande imperio su di essa.

Costei e il marito, dopo la scena di collera avvenuta tra loro ne’ primordii del matrimonio, eran le sole persone a cui non osasse apertamente ribellarsi.

– Non ti darò un picciolo! – le disse, digrignando i denti e battendo i pugni sul tavolino.

Non osò fare, o proferire di più.

– Non tollero d’essere insultata! – riprese Cristina; e si alzò dignitosa, stecchita, avviandosi verso la porta.

La principessa volea richiamarla, ma il suo orgoglio la vinse: erano due caparbietà, due cupidigie, l’una di piaceri, l’altra di denaro e di dissolutezza, che si urtavano insieme.

Enrica sapeva ch’ella doveva soccombere anche in quel frangente: dovea cedere come v’era stata costretta altre volte.

Cristina era scomparsa: e, per varie ore, la principessa stette ad aspettare qual nuovo, crudele espediente avrebbe posto in opera per astringerla a sottomettersi al suo nuovo ricatto.

Verso le quattro del pomeriggio, mentre la principessa scendeva le scale del suo palazzo, tutta sfarzosamente abbigliata, per andare alla riviera di Chiaia s’accorse che un groom le presentava una lettera su un vassoio d’argento.

Essa prese la lettera, senza guardarla, entrò in carrozza e, allorchè i cavalli si furono mossi, ruppe la busta.

Subito fu colta da una grande indignazione, da un indicibile terrore.

Era una lettera scritta da Cristina, ma essa avea del tutto contrafatto la sua calligrafia in modo che non fosse da alcuno riconoscibile.

Ed ecco la lettera:

“La persona, che ha avuto l’onore d’invitare stamani V. S. a incominciar la giornata con un’opera buona, e che n’ebbe una ripulsa sì dura, vuol tentare ancora la generosità d’animo, che altre volte ha sperimentato in V. S. C’è in Napoli una gran dama, la quale si trova in un bruttissimo caso: un caso di bigamia. Essa avrebbe due mariti: uno nell’ergastolo, condannato per assassinio: l’altro.... ambasciatore. V’è una creatura, bisognosa di denaro, ridotta alla disperazione, che vorrebbe sfruttare questo segreto. Ci sarebbe da far un bel chiasso nella stampa europea, se la gran dama fosse citata in giudizio: e se il fatto soltanto si propalasse. Compiendo l’opera buona, consigliata stamani a V. S. dalla persona che accoglieste sì duramente, lo scandalo sarebbe evitato, e la gran dama, vostra intima amica, sarebbe salva.

“La infelice creatura, per la quale supplico V. E. è in possesso di due documenti: uno de’ quali prova il matrimonio della gran dama con l’assassino: e l’altro che la gran dama avea avuto da esso, prima di sposare l’ambasciatore, una bambina, che ha sempre nascosto a tutti, anche al povero padre, facendola trafugare....”

E mentre nel suo coupé, foderato di velluto nero, circondato di limpidi cristalli, tutti chiusi in quel punto, da’ tre lati, la principessa leggeva quell’immondo pezzo di carta, passavano in altri coupés le sue amiche, tutte elegantissime, raggianti, e avveniva un vivace scambio di saluti con le dita inguantate, e di sorrisi.

Che distanza dal mondo in cui viveva a quello in cui avrebbe potuto precipitare!

Da un lato, essa era legata con le più nobili famiglie, con la più pura aristocrazia napoletana: avea aderenze e splendeva alla Corte: dall’altro lato erano i suoi vincoli con un uomo condannato per assassinio, eran le sue calunnie, le sue false delazioni, le sue perfidie, le sue intime relazioni con una donna di basso affare, la quale poteva a sua posta disporre dell’avvenire di lei. In tale stato pieno di angustie l’avea gettata la assoluta mancanza di coscienza.

Il contrasto, che era fra le due parti della sua vita, la turbava, mentre, tenendo in mano quella lettera, passava per le più belle strade di Napoli, e ogni tanto alzava il capo, sorrideva, per rispondere ai sorrisi che le inviavano le gentildonne sue amiche da’ loro equipaggi, a saluti ossequiosi fattile da’ molti signori, ch’ella man mano veniva incontrando.

Nella lettera v’era anche un poscritto e il poscritto diceva:

“Si vuoi risparmiare a S. E. la fatica d’una lunga risposta. Oggi stesso V. E. giungendo a Mergellina vedrà una mendicante avvicinarsi alla sua carrozza. V. E. potrà scambiar due parole con questa mendicante: e dirle come la persona, la quale ora scrive, potrà ottenere quanto domanda, a evitare scandali, che sarebbero per tutti spiacevolissimi.”

In questa lettera c’erano intere la crudele ipocrisia, la maligna ironia di Cristina: le qualità in cui essa era stata maestra ad Enrica.

La principessa fremeva di sdegno: le sue belle labbra eran tremanti.

Riflettè un poco: quindi dette un ordine al cocchiere e si raccolse, tutta pensosa, in un canto del coupé, tenendo sempre in mano la lettera.

Il coupé si fermava a Mergellina. La principessa si scosse: fin allora era rimasta talmente assorta nei suoi pensieri da non veder nulla intorno a sè: da non aver più neppure la sensazione del movimento che facea la carrozza.

Una mendicante si accostò subito alla portiera sinistra: la principessa si tolse dalla cintura un borsello di seta rossa, con ghiande d’oro, ne cavò alcune piccole monete e ponendole nella mano della mendicante, le bisbigliò:

– Tra quattro giorni, la mattina, alle sette, in questo punto: io sarò a piedi: la carrozza mi seguiterà a una certa distanza: tu mostrerai offrirmi de’ fiori.

La principessa avea pronunziato tali parole, con gesti, con sguardi, con un’intonazione come se la donna che le era dinanzi avesse dovuto, da un istante all’altro, esser annichilita dalla sua collera.

La mendicante si allontanò, con la rapidità d’un trar di sasso: forse anch’ella era aspettata da una carrozza ove entrava in gran fretta.

Superfluo dire al lettore che colei, la quale avea preso abiti e fisonomia di mendicante, non era altri che Cristina.

Mentre risaliva nella carrozza, un riso diabolico scontorceva la sua larga bocca.

Ma ora ad un altro personaggio.

Si era, da poco, stabilito in Napoli un banchiere americano. Egli vi faceva grandissimi affari: si occupava del commercio marittimo: imprendeva esportazioni, a quel tempo, da nessun altro tentate. L’oro riempiva i suoi forzieri: gli si attribuivano ricchezze favolose. L’aristocrazia napoletana lo avea accolto benissimo: e, a poco a poco, egli n’era divenuto quasi il beniamino. Avea saputo render abilmente grandi servizi a tre o quattro persone, che l’aveano pagato col fargli strada nel bel mondo.

Weitere Bücher von diesem Autor