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La principessa romanzo

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L’aveva affidata a Domenico e mandata per lui in luogo sicuro, fidando nella lealtà, nella onestà di esso, nelle prove di simpatia, in ardui servigi che ne avea avuto.

Ma la sorte, come vedremo, disponeva altrimenti.

– Sì, – continuava Cristina, parlando, stravolta come una furia, alla sua padrona, nella camera di lei, – bisogna tener celato a Roberto ch’egli è padre.... altrimenti sarebbe impossibile il dissuaderlo, l’allontanarlo....

Ma, per le ragioni che sa il lettore, ciò non quietava le angoscie di Enrica.

– Sei ben certa, – domandò languidamente, – che la bambina sarà stata condotta con ogni cura e sarà trattata con vero amore?

– Oh, per questo! – rispose ipocritamente Cristina, il cui pensiero volava sempre a’ futuri guadagni, alla potenza che avrebbe acquistato sull’animo della padrona, giovandosi di tal segreto, e non contava punto sul forte carattere di lei.

Enrica piangeva, di quel pianto spasmodico, proprio de’ malvagi, degli altezzosi, stretti dalla disperazione....

Il pianto la scoteva tutta: e, ad un tratto, come concludendo una serie di pensieri che la crucciavano, sospirò:

– È impossibile.... impossibile.... confessar tutto a mio padre!

E, alzandosi, divenuta ormai, per le smanie, i delirii, le sofferenze, quasi simile a uno spettro nella fisonomia, guardandosi tutta in un grande specchio, disse con uno de’ suoi ghigni feroci:

– E, poi, per un istante di oblio… per la violenza di un mascalzone… io non voglio rinunziare al mio bell’avvenire.... Se la vita di costui è d’ostacolo alla mia, può essere annientata....

E si gettò fra le braccia di Cristina, ben degna di comprendere un tale pensiero.

Udirono un rumore alla finestra: un colpo secco, come se vi fosse stata lanciata una pietruzza.

La pietruzza, infatti, era ricaduta sulla terrazza nella quale si trovava il duca.

Il lume si era spento nel salotto e il duca che, sin allora, era rimasto meditabondo, si scosse, fece alcuni passi: e subito udì un fruscìo di foglie.

– Chi va là?… – gridò il duca.

Qualcuno correva nel parco.

I cani latravano.

E di lì a poco si udì uno sparo.

Il duca continuava a gridare;

– Chi va là?… Chi va là?…

Comparve sotto la terrazza una guardia con la lanterna.

– Eccellenza, – disse costui, – un uomo è entrato nel parco… l’ho inseguito… gli ho fatto fuoco contro… ma egli, per gli alberi, si è arrampicato, non so come, in vetta al muro in fondo al parco, e si è gettato di là com’uno scoiattolo.... Dev’essere certo un uomo del paese… La porticina è chiusa a chiave… non ho potuto inseguirlo. Ho raccolto a piè del muro, donde s’è gettato, un bottone nuovo che luccicava: un bottone di uniforme di marina.... E l’ha perduto, senza dubbio, l’uomo che fuggiva… poichè vi è un segno di sangue tuttora fresco.... Nel fuggire, egli si è forse squarciato le mani, a un vetro, a un arbusto.

– Vegliate, Emilio, – disse il duca, – non parlate con nessuno dell’accaduto, e domattina di buon’ora visiteremo insieme il parco: sapremo chi è il malandrino entrato qui, e con quale scopo....

Il duca richiuse, molto pensoso, la finestra.

Il colpo di fucile, sparato dalla guardia in fondo al parco, non aveva svegliato nessuno degli invitati. I servitori forse l’avevano udito, ma senza farvi caso. Emilio sparava a volte il suo schioppo, di notte, per semplice precauzione, perchè si capisse da’ malvagi che egli vigilava.

Le due donne, Enrica e Cristina, dopo la pietruzza gettata sulla finestra, avevano udito tutto: le parole della guardia e quelle del duca.

– È lui, – aveva detto Enrica a Cristina, tremando, mentre se ne stavano con l’orecchio teso, accostate alle imposte della finestra.

– Quale ardire… tentare di venir qui… a questa ora… e a che scopo.... E a costo di essere ucciso come un ladro....

– È un gran male che il fucile di Emilio non lo abbia colto, – mormorò Enrica a denti stretti, sconvolta, – sarei stata libera....

Ci fu un breve silenzio: come se Cristina, la quale non peccava per eccesso di tenerezza, avesse avuto orrore di quella proposta.

– Se è stato trovato il bottone di uniforme… domani vi saranno ricerche.... Si scoprirà subito che è lui.... Che angoscia! Si crede egli, dunque, proprio molto desiderato?… Dovrò annunziare a mio padre, – continuava fra sè, – che sono la sposa del figliuolo di uno de’ suoi contadini… del figliuolo di Berto Jannacone?… Ah!… mai!

Ed Enrica spasimava, si contorceva: era sopraffatta da una forte, acutissima convulsione.

III

Il marchese Piero non aveva voluto trattenersi dal duca: e, allegando che gli urgeva tornar a casa a rivedere la moglie, e saper notizie sul grave stato di lei, si accomiatava dal cugino.

– Sono sicuro che avrete.... se già a quest’ora non l’avete.... un bel figliuolo maschio! – gli disse il duca.

Il marchese partì fra i lietissimi augurii di tutti gli invitati.

La sera era già molto innanzi, e il gentiluomo in una carrozzella, che guidava da sè, o, a meglio dire, il cui cavallo si guidava da sè, lasciavasi andare alla foga de’ suoi pensieri.

Rifletteva al grande avvenimento, che dovea compiersi per lui in quella notte, se non s’era compiuto: lo turbavano la certezza del disonore, della rovina, s’egli non fosse già padre, o non lo doventasse fra poche ore.

Allo svolto di una strada, sentì chiamarsi nel buio.

Trepidò.

Poi riconobbe la voce di un uomo molto destro, molto temuto in que’ luoghi: Marco Alboni, sul quale correvano tristi leggende; venuto dalla Marca, non si sapeva perchè, come non si sapeva di che vivesse, che arte esercitasse.

Era arrischiatissimo, soverchiatore; avea nervi d’acciaio.

Lo conoscevano tutti per un fido del marchese; mezzano delle dissipazioni di lui: adoprato dal gentiluomo in bassi servigi, di cui era sempre riuscito a ottenere la più larga rimunerazione.

Il marchese l’odiava e lo ricercava: lo fuggiva e gli era necessario: non l’avrebbe voluto vedere, ma gli era forza comportarlo: poichè tale è la lega che si forma di solito fra i tristi.

Marco, uscendo di dietro a un cespuglio, fermò il cavallo del marchese.

– Che c’è di nuovo? – domandò il gentiluomo che s’aspettava qualche importuna richiesta, e non era il momento in cui potesse soddisfarla. Poi gli balenò un’altra idea e domandò:

– Mia moglie?…

– Signor marchese, ho da dare a V. S. serie notizie, – disse con sicumèra Marco, – ci fermeremo qui in un casolare diroccato, che appartiene al duca, ed è a pochi passi, e parleremo a nostro agio.

Il marchese scese dalla carrozzella; Marco prese la briglia, e legava qualche minuto appresso il cavallo ad un albero.

Entrarono poi fra le rovine.

Nè l’uno nè l’altro si accorsero di un uomo, che vi stava appiattato, e che s’era tutto rannicchiato in sè, curvato, per sfuggire a ogni sguardo,

– La principessa ha partorito, – disse Marco, – ed è morta qualche minuto appresso.

– Ah! – esclamò il marchese, sinceramente addolorato.

Ma l’ansia de’ suoi interessi vinceva il dolore.

– E la creatura?… – domandò.

– Una bambina.... morta anch’essa.

– Marco! – dimmi il vero, – esclamò il marchese – e se questo è il vero, io sono risoluto a bruciarmi le cervelli fra queste rovine.... Un gentiluomo non può affrontar la miseria, il disonore.

Il colpo era doppio: morta la moglie, la figliuola, era pur morta per lui ogni speranza di eredità, di aiuti dalle ricche parenti della principessa.

– V’assicuro, – insistè Marco nel tuono più fermo, – che v’ho detto il vero.... assolutamente.

Il marchese raccapricciva e cadde accasciato su un mucchio di macerie.

Marco lo lasciò alcuni istanti alle sue sofferenze.

– Ma, – soggiunse, toccandolo in un braccio e mutando l’intonazione della voce, – la fortuna anche questa volta vi ha aiutato; voi siete il suo beniamino!

– Come? – rispose il marchese che singhiozzava.

– Ero in un’osteriuola, aperta da poco, ad alcune miglia di qui.... Entra un uomo, che nell’oscurità non ho riconosciuto e che ora sceso alla porta da una carrozza.... Si trattiene.... Beve, ribeve: comincia a parlare. Ne racconta di ogni sorta.... Poi dice che ha una bambina da condurre a balia e che gli è stata affidata con tante raccomandazioni. Un mistero! Io non aspetto altro: mi slancio fuori o, mentre l’ubriaco continua a bere, prendo la bambina.... Monto nella mia carrozzella e mi dirigo verso la casa di V. S.... N’ero venuto via poco innanzi con l’incarico di portarle avviso della catastrofe accaduta.... E pure, io non sapevo risolvermi. Una voce mi diceva che, indugiando, qualche cosa di propizio mi sarebbe occorso.... Se vedesse la sua casa.... I servitori sono tutti nel maggiore sbigottimento, spaventati; non osano far nulla, senza l’ordine di V. S. Superstiziosi verso i cadaveri, non sono più entrati nella camera della principessa, dopo che il medico forestiere è partito.... A proposito, egli mi ha consegnato una lettera per lei.... Ma, tornando alla principessa; essa è stata abbandonata, subito, dai servi impauriti.... Essi hanno gettato una gran quantità di fiori sul letto e hanno acceso attorno alcuni lumi. Io sono passato dalla porta del giardino, che ho trovata socchiusa. Ho potuto appoggiare una scala al balcone della camera della principessa.... Sono entrato.... Ho posto la bambina viva ov’era il cadavere dell’altra: o ho preso il cadavere con me.... Sono ridisceso con ogni cautela… in un attimo… poi sono salito nella carrozzella e ho fatto una corsa, che si sarebbe detto proprio il diavolo tenesse le guide.

La voce di Marco era divenuta sinistra.

– Sono arrivato, di nuovo all’osteriuola: c’era sempre fuori la gran carrozza nera: l’ho aperta; vi ho riposto il cadaverino della bambina: l’ubriaco dormiva steso su una panca dell’osteria e russava… russava. Ne deve aver bevuto molto nella giornata....

 

– Oh, – disse il marchese, – tu mi salvi.... Quanto ti dovrò… e tu sarai ricco....

– Sarò davvero! – pensava Marco, – nè tu potrai impedirmelo!

– Io ti dimostrerò in ogni modo la mia riconoscenza.... Ti debbo la vita: ti debbo di più: un nuovo avvenire.

– V. S. è proprio fortunato!

– Sì, nell’esser servito con tanta devozione e tanta intelligenza! – soggiunse il marchese che sentiva una schietta, sincera ammirazione per il fatto compiuto da Marco.

– Chi altri, non secondato come V. S. da una buona vena, – insisteva il finto servitore, – avrebbe potuto uscire in tal modo da una condizione sì terribile?

– La tua prudenza, la tua prontezza....

– Ma bisogna tener conto anche della accortezza di V. S. – questo diceva Marco ironicamente, – nel metter a parte di tutti i suoi segreti un uomo onesto come me… e affezionato! S’io non avessi saputo nulla delle speranze di V. S., dei pericoli che la minacciavano…,

– Oh, -.disse il marchese, – lasciami mi po’ di raccoglimento. La morte della principessa mi contrista… essa fa sempre buona per me… una martire....

E concedeva un vero rimpianto alla memoria della gentildonna.

– Ma ch’io possa far credere al mondo che ho una figlia… ecco l’idea da cui sono tutto ravvivato, ecco il punto da cui muove per me una vita, la quale avevo spesso sognato. Tutte le mie speranze risorgono col fatto da te compiuto. Ma chi sarà quella bambina: e quali saranno, fra poco, le sue avventure nel mondo?… Non ci diamo, per ora, pensiero di nulla, – disse il marchese cui tornava la sua solita spensieratezza, – per ora il meglio è assicurato.... Non mi resta che a rendere l’ultimo tributo di onore alla mia cara moglie.

Si alzò, assai soddisfatto, dal mucchio di macerie sul quale era caduto sì sconsolato.

Ora gli pareva esser altr’uomo.

– Mi hai detto, – esclamò, rivolto a Marco, – che il dottore Krag ti aveva dato per me una lettera.... Egli è partito?

– Un telegramma l’aveva richiamato sin da ieri a Vienna per una cura importante.... Di più, il dottore deve prender parte a una spedizione scientifica, che si reca in Asia e vi si tratterrà varii anni.

Mia moglie volle questo medico ad ogni costo.... Egli ha già ricevuto, prima di muoversi da Vienna, una somma cospicua: farà intendere che vuole dell’altro.... Dammi la lettera.... La leggerò con comodo.

– Eccoci a un altro punto serio, – disse con piglio solenne Marco e, nel tempo stesso, toccava familiarmente in un braccio il marchese, anzi glielo stringeva in modo da rinnovargli l’idea della sua forza erculea. – Io dirò a V. S. una cosa, che non le parrà strana.... Noi siamo associati in un’impresa commerciale!.. Il capitale vivo è rappresentato da una bambina.... Chi lo ha fornito? E che dobbiamo sfruttare con questo capitale?… I milioni delle parenti della defunta principessa....

E Marco si tolse il cappello in segno di rispetto.

– Ora, io sono particolarmente interessato in questo affare; non posso permettere che il signor marchese.... che V. S… dissipi la mia parte; o possa negarmela. Io ho usato, dunque, di un mio diritto di socio in affari: la ditta è; marchese Piero di Trapani e Marco Alboni. Non se n’esce!

E le sue dita stringevano come tanaglie il braccio del marchese.

L’uomo nascosto tra le rovine non udiva queste ultime parole perchè, nel pronunziarle; i due si erano spinti un po’ innanzi nel casolare.

– Ho usato, dunque, – proseguiva Marco, – del mio diritto. Ho aperto la lettera del dottore....

– Eh! – sfuggì detto al marchese.

– Sì, sì; e la lessi accuratamente.... Il dottore Krag vi annunzia la morte della principessa e della vostra bambina. Di quest’ultima descrive alcuni segni particolari: nota alcune gravi imperfezioni con cui era nata: indica le ragioni irrefragabili della sua morte.... Vi è poi qualche altra cosa.... Questa lettera è, insomma, la garanzia che, negli affari della ditta, marchese di Trapani e Marco Alboni, la parte di questo ultimo sarà rispettata.

Io voglio esser ricco, fra pochi anni, – disse in tono reciso Marco, – al pari di voi: se occorre, più di voi!

– Ebbene, tu potrai far nascere i sospetti di una sostituzione di creatura: potrai nuocere a’ miei interessi: potrai far sì che coloro, a cui la bambina fu rapita, e che l’ebbero sostituita con un piccolo cadavere, si risveglino, e vengano contro di me....

L’uomo nascosto strisciava fra le rovine come un rettile e facea sforzi incredibili per poter avvicinarsi a’ due, senza che essi s’avvedessero della sua presenza.

E udì benissimo queste parole proferite dal marchese:

– Ma io ho sempre saputo custodire un altro segreto.... Io ti ho molto perdonato.... Non ho propalato che tu non ti chiami Marco Alboni, bensì Jacopo Scovatto e che sei stato condannato in Ancona a undici anni di casa di forza per una grassazione contro due operai, padri di famiglia.... Non ho mai propalato che tu sei fuggito; e ti rimangono a scontare alcuni anni della tua pena.

– Anche di questo bisogna tener conto, – interruppe, pensoso, Marco. – Però la lettera io non la restituisco.... I rischi della associazione così sono eguali. Tutt’e due abbiamo interesse a stare uniti....

E, a poco a poco, chiacchierando, si allontanarono.

L’uomo, sino allora nascosto, uscì dalle rovine. Aveva saputo abbastanza.

IV

Il giorno appresso continuarono le feste nel parco del duca.

Enrica, mentre la mattina era nella serra, avea ricevuto una lettera, gettata nel grembo di lei da un fanciullo, che s’era poi dato a correre come un capriolo.

Sulle prime Enrica fu tentata di buttar via quella lettera senza aprirla: ma un forte presentimento la vinse.

La lettera era di Roberto Jannacone; egli le annunziava il suo ritorno; le dava convegno nel luogo più inaccesso del parco.

In quel luogo eravi un altissimo precipizio formato da due pareti rocciose, o in fondo di esse gorgogliava il mare.

Era stato gettato un ponte da una parete all’altra; un piccolo ponte di ferro leggero con bassa spalliera.

Molti e molti, a non dir presso che tutti, aveano paura di passar da quel ponte e preferivano di pigliar i viottoli più lunghi per arrivar dove voleano, anzi che andar da un luogo sul quale v’erano tante superstizioni.

Come luogo di convegno era scelto benissimo; nessuno avrebbe disturbato i due nel loro colloquio.

A Enrica, nel legger quella lettera, che conteneva espressioni di tanto amore, ed era nel tempo stesso sì imperiosa, avvampò il volto di sdegno.

Costui la credea proprio cosa sua; non nutriva ormai il menomo dubbio su’ suoi diritti.

Ciò irritava la superbia di lei.

Parlò con Cristina e deliberò di andare al convegno; risoluta a ingannarlo, a perderlo, se occorresse, a far tutto, pur ch’egli rinunziasse a lei. L’altro vi si recava invece con l’animo che, magari il mondo dovesse perire, egli non avrebbe rinunziato ad essa.

Mentre le feste continuavano nel parco, Enrica e Roberto si trovarono presso il ponte, che era chiamato dell’Inferno: attorno a loro erano boschetti di alberi.

Si rivedevano dopo molti mesi.

Roberto era cresciuto di forza e di bellezza: aveva acquistato una certa eleganza.

Appena scorse Enrica, le mosse incontro tutto baldanzoso e soddisfatto.

Ma fu sorpreso di trovar Enrica in tale stato di abbattimento, d’aspetto sì cagionevole: sì fredda e altera.

Le parole d’entusiasmo gli si gelarono sul labbro,

Enrica si reggeva appena in piedi.

Senza quel convegno, ella si sarebbe già coricata.

– È questa l’accoglienza che mi fai, – disse il figlio di Cicillo Jannacone, – dopo una separazione sì lunga.... Non ti ricordi ciò che mi dicesti nel momento della mia partenza?…

– Mi resta poco da vivere, Roberto, – incominciò, dissimulando, Enrica. – Io non posso più esser la moglie d’alcuno: sono gravemente ammalata. Mi ami tu?

– E me lo domandi? non v’è amore più forte. più tenero, più appassionato del mio. In tutti questi mesi non ho cessato di pensare a te un solo istante: il mio cuore ha sempre palpitato a’ ricordi della nostra affezione.

– E bene: io ti domando una gran prova di amore.

– E io sarò felice di dartela, io che non voglio ormai più separarmi da te, o che spero ottenere tu mi segua ne’ miei viaggi.... Fra poco io sarò ricco, già sono stimato, e ho un grado di cui ognuno può tenersi onorato.... Non sono più soltanto il misero figliuolo d’un contadino del duca.... Ma hai parlato al duca, a tuo padre, del nostro matrimonio?

Enrica si mordeva le labbra.

– Ho detto che aspetto da te una gran prova d’amore.

– Potevi rispondermi se hai parlato al duca del nostro matrimonio.... Tu comprendi la mia impazienza.... Quanto a darti prove d’amore, allorchè tu sii mia moglie in faccia al mondo, tu sai già non ve n’ha alcuna che mi potesse sembrar troppo grande.... Hai parlato, dunque, a tuo padre?

– Mio padre è tornato soltanto ieri....

– E tu avresti già dovuto parlargliene.

Enrica tremava, non sappiamo se di rabbia, di commozione, di sofferenza.

– Stanotte io ero entrato nel parco per l’impazienza di riveder questi luoghi, di farmi udire da te, di mostrarti ch’io non poteva occuparmi, se non di te.... Ho corso rischio di essere ucciso come un ladro… e tu sei così indifferente.... Ma non hai coraggio di parlare a tuo padre? Gli parlerò io stesso....

– Oh, impossibile! – esclamò Enrica inorridita. – Vi sarebbe fra te e lui una scena tremenda: come potrebbe egli perdonare a te suo servitore.... – Enrica fece spiccare la parola, – -di aver abusato d’ogni sua generosità verso la tua famiglia, di aver osato ciò che hai osato?..

Roberto si sentiva, come schiaffeggiato da quelle parole.

Ma era anch’egli d’animo altero.

– Bisognava pensarci prima! – rispose risoluto. – Che tu non credessi io fossi uno di questi vagheggini imbecilli, che voialtre donne del bel mondo burlate a piacer vostro e cuoprite di ridicolo.... Enrica, io sono pronto a dare per te tutto il mio sangue, a goccia a goccia; sono pronto, se occorre, a seppellirmi vivo, a entrare in una tomba con te, per sfuggire ogni contrarietà… ma cederti ad altri, rinunziare al mio diritto… mai. Sai ch’io t’ho conquistata.... Tu mi costi umiliazioni, oltraggi, ingiurie d’ogni maniera, prima del nostro amore; dopo, ansie crudeli, notti insonni, il sacrificio di tutto me stesso a un solo scopo.... Tu sei la mia idea fissa… sei la sola cosa che desidero, che amo, che voglio possedere; ogni ostacolo che mi si opponga, se non potrò sormontarlo, lo spezzerò....

La sua veemenza faceva paura.

Protese un braccio per stringer la vita di Enrica....

Essa schivò quella carezza.

– Non ti riconosco! – mormorò Roberto pallidissimo. – A bordo, nelle mie notti insonni, vedevo spesso uno spettro, un cadavere, con una gran ferita, tutto sangue… Enrica, – disse Roberto angosciato e come fuori di sè, – tu vuoi la mia rovina: sento che qualche cosa di terribile si prepara.

Enrica provava un’interna soddisfazione di quelle parole; sembrava che esse corrispondessero a certi suoi perfidi disegni.

– No; essa riprese, simulando molta mansuetudine, – non bisogna andar a questi eccessi. Dobbiamo ragionar più freddamente. Che amore è il tuo, se non può sopportar un piccolo indugio? Parlando a mio padre, in momento inopportuno, io posso guastar tutto e in modo irrimediabile.... Che ne parli tu, non v’è, ripeto, neppur da pensarci. Egli potrebbe chiuder me in un convento: e chi sa in qual parte d’Europa seppellirmi per tutta la mia vita, chi sa dove, senza che tu sapessi più nulla di me: e contro di te che non potrebbe fare? Il duca non ti concederebbe mai l’onore di un duello: ti vorrebbe trattar di certo come un malfattore… e, se ben pensi, la tua condotta giustificherebbe… forse… a sua severità.

Roberto sentiva la febbre: le tempie gli martellavano: il sangue gli bolliva come lava nelle vene.

Pure egli ebbe ancora la forza di contenersi.

– Enrica, – disse, rattenendo la sua indignazione, – io ti trovo molto cambiata.... Io mi aspettavo un’accoglienza entusiastica, da innamorati: io avevo avuto la debolezza – la parola gli sfuggì – di credere alle tue promesse: ora mi vedo dinanzi una donna che pare si vergogni di me, arrossisca della nostra passione, abbia distrutto nel cuor suo le memorie del nostro amore....

– T’inganni, – riprese la giovane. – Già vedi come io soffro: e tu con queste violenze accresci il mio martirio.

– Violenze? – interruppe Roberto, che credeva esser riuscito, con sforzo sovrumano, a serbare la calma. – No, io non sono violento: no, io sono innamorato, appassionato, io ti adoro sino alla frenesia: io non posso più separarmi, più staccarmi da te: io debbo passar tutta tutta la mia vita a’ tuoi piedi, obbedendoti come uno schiavo, indovinando ogni tuo cenno, ogni tuo desiderio, ogni tuo ordine; io posso, se vuoi, inalzarmi nell’onore, ne’ gradi, migliorarmi con lo studio: sento che avrò la volontà, la forza, per piacer a te, di giungere molto in alto: ma se tu credi altrimenti, se la mia vita dev’esser tutta assorta in un amore sensuale, in un amore di fuoco per te, se io debbo essere il docile strumento d’ogni tuo capriccio, il tuo ludibrio; il trastullo d’ogni tua fantasia, io son pronto anche a questa esistenza, che ad altri potrà parer vile: io ti sacrificherò, se occorra, l’onore, la dignità: io lascerò si dicano di me i maggiori vilipendii: che tu mi hai comprato, che mi satolli come una bestia che ti dà piacere: tutto sopporterò: rinunzierò a’ beni maggiori, all’amicizia, alla stima: solo il mio istinto, il mio cuore, i miei sensi, non consentiranno mai… ch’io ti ceda ad altri, che mi separi da te… No, no! Maledizione! guai a chi s’interponesse fra noi!

 

E Roberto singhiozzava come un fanciullo.

Avrebbe destato commozione in chiunque veder piangere in tal modo quell’uomo sì forte, sì prestante, sì altero.

Enrica stropicciava le foglie rosee, che cadevano da’ fiori di un albero sul suo abito bianco.

Essa le distruggeva indifferente, come distruggeva le rosee illusioni di Roberto.

– Ritorno – continuava Roberto – dopo un lungo viaggio: cerco parlarti: tu ti presenti come una padrona, come una signora dinanzi al suo servo, non come una sposa innanzi all’uomo che ha davanti a Dio su di lei il massimo tra i diritti.... Poichè il padrone qui sono io! – disse Roberto in uno de’ suoi impeti selvaggi, – e accerchiandole il collo, la accostò a sè, con una stretta di ferro, di quelle che Enrica già conosceva, e la baciò lungamente, da vero padrone di lei, sulle labbra.

Essa tremava: era divenuta in volto bianca come il suo abito: quel bacio di fuoco l’avea subito richiamata ad altre sensazioni e altre idee: ma incontanente il suo orgoglio le attuti.

– Dianzi ho cercato abbracciarti… – insisteva Roberto, -, e tu mi hai sfuggito, e vuoi ch’io sia calmo!

La scena andava troppo in lungo.

Enrica cominciava ad esser inquieta: non sapea più come tener a bada quell’innamorato sì pieno di foga.

Giungevano fino a loro i suoni e le grida di coloro che pigliavan parte alla festa nel parco: ma verso quel punto, com’abbiamo detto, nessuno mai si avvicinava.

A’ loro piedi s’inabissava il precipizio, mugghiava il mare.

Enrica avea preparato un tranello, degno del suo animo raffinatamente perverso, e ora trepidava un poco sulla riuscita di esso.

Ella avea detto, con diabolica perfidia, al suo corteggiatore, il conte di Squirace, che, a una cert’ora, ella sarebbe stata presso il ponte che traversava il precipizio.

– Oh! – avea esclamato il bellimbusto, e avea fatto intendere che ve l’avrebbe presto raggiunta.

Il vanaglorioso credeva ad un convegno d’amore. Enrica gli aveva insinuato:

– Se, per caso, io parlassi con altra persona, non vi mostrate: nascondetevi in uno de’ boschetti: però, se vi accorgeste che io avessi bisogno di aiuto, accorrete a difendermi....

Vedrà il lettore qual era il terribile disegno di Enrica e di quali risoluzioni ella avesse l’animo capace.

In fatti, il conte si avvicinava, tutto baldanzoso: uno scudiscio in mano: una gardenia all’occhiello.

Udì la voce di Roberto, e si nascose, com’Enrica gli aveva indicato.

Roberto si era inginocchiato dinanzi alla giovane e le diceva:

– Un’altra cosa mi ha colpito: il trovarti così accasciata, così disfatta. Qual è il motivo?… Che cosa ha logorato una parte della tua floridezza?

Enrica mostrava che quelle osservazioni la annoiassero.

– Ma tu sei sempre bella, anche così, – aggiunse l’innamorato, che l’attirava a sè, le premea la vita, i ginocchi: e lo invadeva un fremito al sentire, sotto l’abito leggerissimo indossato da Enrica, non ostante il pallore e la stanchezza del volto, molto più della sua floridezza ch’egli non avrebbe pensato.

– Però vorrei sapere il motivo perchè sei sì affranta e sì debole… – continuava.

Enrica cercava allontanarlo da sè: e finalmente gli disse, tanto per guadagnar tempo, e perchè realmente ciò voleva, in estremo, alla disperata, se altro partito non riuscisse:

– Ecco qual è il mio pensiero. Tu devi ripartir subito… e per un lungo viaggio. Fa di star lontano ancora da questi luoghi tre, quattro anni, di crescere in grado, in fortuna.... Io aspetterò.... Lascia che si parli di te, di ciò che farai: mio padre ne avrà certo compiacenza. Egli, se può esser rigoroso, intrattabile su certi punti, è poi abituato a considerare tutti i suoi servitori come della sua famiglia… – aggiunse con qualche sprezzo. – E chi sa non perdoni, quando la sua collera abbia anni per raffreddarsi.

Non stiamo a dire se Roberto fosse turbato.

– Io sono già tua sposa dinanzi a Dio, – continuò la dissimulatrice, – lo sarò un giorno dinanzi a tutti.... In questi anni saprò trovar un momento propizio per parlar a mio padre; mi getterò a’ suoi piedi: gli racconterò ciò che fu: ch’io ti scelsi, non già che tu mi prendesti a forza....

– Basta, Enrica, – esclamò Roberto con voce concitata, vibrante di rabbia, di passione, di disgusto. – Ho tutto capito in un istante.... Tu sei una traditrice....

E i suoi occhi corruscavano: e le sue mani or si accostavan verso Enrica, or egli le ritraeva come inorridito.

– Tu vuoi perdermi: tu speri che in tre, quattro anni, io, che esco ora per miracolo da un naufragio, possa lasciar la vita.... Oh!…

E, scorgendo che Enrica non faceva alcun energico segno di diniego:

– Creatura perversa, – continuò, – sento che tu farai la rovina di me e de’ miei.... E l’ho più volte sentito nella mia solitudine.... Già, fin dal principio, fin da’ giorni delle nostre ebbrezze, la tua bellezza, la tua avidità del piacere, la crudeltà che avevi spiegato contro di me, mi facevan paura....

Avea i capelli irti, il sudore gli grondava dalla fronte, si muoveva com’un uomo che non sa più dominarsi.

– Senti, – disse, prendendo Enrica per le mani e costringendola ad alzarsi, – io potrei farti cadere in ginocchio: poichè tu sei qui davanti al tuo vero signore: all’uomo che ti ha posseduta e che ti vuole possedere per sempre.... Ciò è irrevocabile!… Non ho più la mia ragione: tu me l’hai tolta: sono in preda a una vertigine tremenda.... Nella mia famiglia abbiamo nelle vene le fiamme del vulcano: e, in questo punto, vedi, mi salgono al cervello.... Io ti faccio ormai due proposte: le uniche ch’io possa e voglia farti nell’estremo cui siamo giunti: o tu ti risolvi a partir subito con me… so una strada che ci menerà in un attimo fuori del parco… ti alzerò io sulle mie braccia sopra un muro… e fuggiremo senza che nessuno ci veda.... Usciremo dai possessi del duca: ti porterò subito palesemente a Napoli… come mia moglie… e vi saremo in poche ore. Tu entrerai in una casa, ove è preparata la camera nuziale.... E il duca verrà là, se vuole e se crede, a strapparti dalle mie braccia.... Vedremo!… Acconsenti?…

Enrica non avea più parole; cercava con occhi furenti l’aiuto, aspettato: dentro di sè scherniva quell’uomo forte, entusiasta, che pur, ella confidava, dovesse esser vittima degl’intrighi preparati da una debole donna. E Roberto lesse ne’ suoi sguardi quel furore e quella fredda malignità.

– Non acconsenti? – esclamò con voce cupa, e scuotendola con una stretta vigorosa. – E bene… ci getteremo tutt’e due in quell’abisso, – e la trascinava verso il ponte, – il mare c’inghiottirà: inghiottirà la mia immensa passione, la tua ferocia, il tuo tradimento.... Ti concedo soltanto due minuti di tempo per dir la tua scelta!… Creatura sleale.... Io ti punirò del male che avresti potuto fare a tanti....

– E chi vi dà questo diritto di punire? – gridò il conte di Squirace, facendosi innanzi, e agitando lo scudiscio che aveva in mano. – Con qual diritto avete osato alzar gli occhi sino alla duchessa, voi, il figlio d’un suo villano?… Ho tutto udito, Roberto Jannacone!

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