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La principessa romanzo

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La principessa, senza dir verbo, corse a raccorre tutte le sue vesti; in pochi istanti finì d’acconciarsi. A un tratto il Weill-Myot se la vide dinanzi tutta minacciosa. Essa avea preso una pistola carica, dalla guaina in cui era infilata, in un angolo dello studio, e la puntava al petto del Weill-Myot. Questi raccapricciava d’orrore: domandava grazia.

– Vedete che una donna napoletana, – disse la principessa con piglio fra disperato e trionfante, – può ben vincere un.... americano! Ma non temete: io vi farò la grazia, che mi domandate: vi farò grazia della vita: essa dev’essere un giorno per voi il massimo de’ tormenti.... – E andò, con gran sangue freddo, a rimettere la pistola donde l’avea tolta. – Se con quell’arma alla gola, io vi avessi ora chiesto il milione, forse voi vi sareste trovato costretto a concedere alla violenza ciò che avete rifiutato alla mia irresistibil bellezza.... Irresistibile! Così un tempo io l’ho creduta! – e ruppe in singhiozzi.

Il Weill-Myot era già uscito dallo studio. Ella, inconscia di ciò che faceva, oppressa da un dolore che superava di gran lunga le sue forze, pur s’era fermata dinanzi al quadro di maggior dimensione, testè abbozzato dal pittore e vi contemplava la voluttuosa opulenza delle sue forme. Entrò di repente il Murcillo. Ella si scosse, come richiamata alla realtà. Il pittore le si volse subito con le parole del maggior rispetto, della più esaltata ammirazione.

La pregò di voler accettare un piccolissimo dono: meglio, un ricordo di lui. E le mostrava una testa di giovane greca: una testa ch’egli avea disegnato, colorito, studiando Diana, da lui conosciuta in casa del marchese di Trapani. Era provvidenza, o era un’insidia infernale che, proprio in quel punto supremo, fossero poste sotto gli occhi della principessa le sembianze di Diana, di sua figlia? Ella allontanò da sè con un gesto quella tela: con un gesto di ribrezzo, come se una sì soave, sì leggiadra immagine potesse ispirarle terrore. Nel vederla così nervosa, così confusa e trambasciata, il Murcillo immaginò che ella fosse pentita di ciò che avea fatto: temè volesse distruggere il quadro. Le domandò se provava rammarico di quello che avea compiuto poc’anzi, con termini molto cortesi e ritenuti. Essa si avviava per uscire.

– Ho fatto una cosa enorme! – disse al pittore, e gli passò dinanzi ratta, senza volgersi a salutarlo: uscì, prima ch’egli potesse accorrere ad accompagnarla.

– È pazza! è pazza! – ripeteva fra sè: e così spiegava la stranezza, che vi era stata nella condotta di lei.

Enrica era uscita, tenendo stretta in una mano la fialettina, offertale dal Weill-Myot. Gettatasi nella sua carrozza, dette ordine al cocchiere tornasse al palazzo. Per via incontrò Cristina, che facea cenni al cocchiere. Costui fermò i cavalli. Cristina si avvicinò alla portiera della carrozza. La principessa tirò giù il vetro e si sporse verso di lei per ascoltarla.

– Vostro marito – mormorò Cristina – sa tutto: sa che voi avevate sposato Roberto, che ne aveste una figliuola....

– Chi glielo ha detto?

– Gli ho venduto io il vostro segreto!

Enrica udì quelle parole come in un sogno. Le detter nel cuore soltanto pochi istanti dopo che Cristina l’ebbe pronunziate: quasi ne riudisse un’eco maligna. Cercò Cristina: essa si era dileguata. Non le mancava altro colpo: nulla in brevi ore le era stato risparmiato.

– A casa! – disse di nuovo al cocchiere con un tal tuono di voce ch’egli si domandò:

– Ma che può avere?… O sta per divenir pazza, o è malata!

Il cocchiere era poco rispettoso, ma imbroccava nel segno. Enrica era già pazza e malata. Salì in fretta le scale del palazzo, passò accanto ai servitori come un turbine, senza rispondere ai loro saluti: e entrò nelle sue stanze.

Sentì stringersele il cuore nel traversar que’ salotti ove avea ricevuto tante adorazioni, ove avea sentito mormorare attorno a sè tante dichiarazioni d’amore, ove avea ricevuto tanti fiori, tanti omaggi. Erano tutti adorni di ricordi della sua vita: qua e là un oggetto brillava, mandava faville a’ raggi del sole; le sembrava che ella rivedesse quelle mura, quei mobili, tutti que’ ricordi per l’ultima volta. Gettò sopra un sofà il suo cappello, i suoi guanti: e sedette a una piccola scrivania di ebano: i gomiti su la scrivania, le mani su le guancie, gli occhi immoti, guardando dinanzi a sè, ma senza veder nulla.... Volea raccogliere, con uno sforzo supremo, il pensiero che fuggiva dalla sua mente; volea scrivere una lettera. Un servitore bussava alla porta del salotto attiguo a quello in cui ella si trovava.

– Entrate! – ella disse, sebbene ciò le recasse grave disturbo. – Un signore domanda di parlare a Vostra Eccellenza.

– Chi è? – Le presentò il vassoio d’argento su cui era un biglietto di visita. Ella lesse: – Ingegnere Amoretti. – Ah, appunto lui! – ella pensò. – In questo estremo momento giunge opportuno. Fatelo passare nella sala grande.... fra pochi minuti sarò da lui. – Volea restare un po’ sola. Con le idee tumultuanti tornava su ciò che avea fatto. Il suo addio al mondo non era triste: ella avea lasciato un artista inebriato della sua bellezza: gli avea dato ispirazione per un capolavoro: il suo corpo vivrebbe all’ammirazione.

Sollevò la sua bella persona dalla sedia. Guardò contro luce la fialetta datale dal Weill-Myot; scosse il capo; pareva non le andasse a genio. Corse a uno stipo, prese un’altra fialetta, in cui era un liquido più chiaro, e la trangugiò senza riflettere un istante.

Andò nella sala ove avea fatto passar l’Amoretti. Egli era un po’ all’oscuro. Lo salutò: si sedette; egli la vide, con gli occhi sfavillanti, il volto accesissimo; e sedutasi, avea posto una gamba accavallata su l’altra. Era la creatura provocante, sensuale, che Roberto avea sempre conosciuto: la creatura per lui irresistibile, dominatrice.

Entrando nella sala, la principessa non avea veduto un uomo nascosto dietro una portiera di raso paonazzo, con ricami d’oro, sebbene gli fosse passata d’accanto, lo avesse quasi toccato con la sua veste.

– Signora – le disse l’Amoretti, assai a bassa voce – io dovevo incontrarvi nella casa di una certa Cristina....

– Una canaglia! – interruppe la principessa. – Una bassissima canaglia!

Roberto si era trattenuto a lungo col principe: a poco a poco i loro animi s’erano acquietati; era sorta fra loro una mutua simpatia; l’uno e l’altro, animi nobilissimi, aveano avuto a comune una sventura: quella di amare una donna che li avea resi, l’uno e l’altro, sì profondamente infelici. Roberto avea raccontato al principe, a filo a filo, tutta la sua storia; gli avea detto sin della figliuola nata da Enrica: e come ella vivesse.

La notizia della nascita di costei, del modo onde ella era stata rapita, il saper che era Diana, diventata rivale della propria madre, che le disputava anche il fidanzato, commossero più volte il principe sino alle lacrime.

Aveano fissato tra loro che Roberto parlerebbe a Enrica, mentre il principe si sarebbe tenuto nascosto in modo da udir ogni loro dialogo. Egli voleva l’estrema prova: non era ancor vinta al tutto la sua incertezza. Roberto si assentava pure un istante e correva a prender Diana, che avean lasciato allora allora negli appartamenti del principe.

– Principessa, – disse l’Amoretti con tuono di voce più alto, – io ho conosciuto un uomo da voi molto amato.

– Lo so, – replicava la principessa.

Nulla vi era in lei di strano: sembrava calmissima: e soltanto a Roberto pareva che lo guardasse come se volesse affascinarlo.

– Egli è morto molto rassegnato, e benedicendovi per quello che gli avevate fatto soffrire.

La principessa si era alzata, mormorando:

– La voce.... la voce.... – Avea preso per mano l’Amoretti, l’avea condotto di slancio presso la finestra: lo guardava e lo riguardava: – Il volto – disse – non è quello.... ma.... tu.... Ti riconosco alla voce.... e l’avrei riconosciuta fra mille.... sei Roberto.... Roberto, Roberto! – E se gli gettava al collo, si avvinghiava a lui. – Non mi parlare.... non imprecare.... non mi rimproverare.... non mi accusare… so che fui un mostro.... so che ho meritato da te i più atroci tormenti.... so che fui infame, traditrice.... abiettissima.... ma non mi dir nulla.... vieni là, là su quel divano.... lascia ch’io ti dia una prova suprema del mio amore.... prima che il mio cuore abbia cessato di battere.... Ti dedico gli ultimi, i più preziosi istanti della mia vita.... Voglio morire con un tuo bacio su le labbra.... Infine, tu sei il primo, l’unico uomo ch’io ho veramente amato..... Tu mi hai fatto conoscere il piacere.... tu mi hai perduta.... Prendimi adesso… sono sacra.... nessun altro mi avrà dopo di te....

Figurarsi il principe, che non poteva e non voleva ancora uscir dal suo nascondiglio. Egli la teneva per pazza in tal punto, e pazza la credette anche Roberto a quel parlare sconnesso. Lo trascinava verso il divano, e lo baciava.

Roberto sentiva riavvampare l’antica passione: si doleva sinceramente in tal punto d’aver consentito a far assistere il principe al suo abboccamento. Ora Enrica gli si abbandonava tutta su un braccio, come già in altro tempo. Ma, fortunatamente, egli ebbe subito onta di sè: gli tornarono altri pensieri: il pensiero della figlia, che era lì, a pochi passi da lui.

– Oh? tu vorresti ancor sedurmi, – disse Roberto inorridito, respingendo da sè Enrica, che cadde, o piombò, a dir meglio, sul divano. – Creatura perfida slealissima: vero demonio, che hai saputo avvelenare, distruggere tutta un’esistenza.... Tu mi hai accusato, calunniato, disonorato, condannato all’infamia, alle pene più inesorabili: e mi avevi condannato per tutta la vita: non è tuo merito, se ho rivisto la luce.... Tu avevi già saputo la mia morte, e te n’eri rallegrata.... lo so, lo so da Cristina....

– Perdona.... perdona, mio Roberto! – sclamava Enrica, tutta smaniante, e tendea le braccia verso di lui.

 

– Tu mi nascondesti perfino che mi avevi reso padre.... E avevi affidato a mani mercenarie la nostra creatura.... E ti rallegrasti anche per lei, quando sapesti ch’era morta....

– Questo no.... questo poi no.... ti giuro di no....

– Ma t’ingannarono.... non era morta.... Cristina l’aveva venduta....

– Eh, – gridò la principessa, facendo uno sforzo per sollevare la sua bella persona, e credendo subito a un inganno di Cristina.

– O l’aveva venduta o altri l’aveva rapita all’ubriaco, cui ella l’affidava....

– Dov’è ora questa cara creatura? – chiese singhiozzando la principessa. – Fa’ ch’io la veda.... ch’io la veda....

Ella rotolò sul tappeto; vi rimase irrigidita.

Il principe accorse al fianco di Roberto; la rialzarono; essa già perdeva ogni forza.

– Mia figlia.... mia figlia, – esclamava, – voglio vedere mia figlia.... Oh, il mio animo non mi aveva dunque ingannato.... Ho nutrito, un tempo, per lei sì grande affezione! – Parlava lenta, con frasi rotte da singhiozzi, la persona agitata da un tremito. – Mi sono avvelenata! – disse con terribile risolutezza. – Mi rimangono pochi istanti da vivere.... Ogni rimedio è inutile.... La vita sarebbe un supplizio....

Nè Roberto nè il principe credevano a ciò che diceva.

– È una delle sue solite menzogne, – mormorò il principe con durezza. – Ma questa volta preparatevi a morire.... tutti gli stratagemmi saranno vani.... morirete.... per mia mano!

– No! – gridò Roberto, – non morirà.

– E chi m’impedirà di attuare il mio pensiero?…

– Io.... io, che la difenderò!

I due uomini stavano per scagliarsi l’un contro l’altro, divenir di nuovo implacabili nemici.

Una schiuma sanguigna uscì dalla bocca di Enrica: ella stralunava gli occhi. Il suo pallore era cadaverico.

– Mia figlia.... mia figlia, – tornò a esclamare. – Oh, se avessi saputo che avevo una figlia, non mi sarebbe accaduto nulla di ciò che m’è accaduto.... e che ora espio!

– Vi farò veder Diana, – disse Roberto concitatissimo; – ma, ad un patto, che essa non debba sapere che voi siete sua madre....

Con un cenno del capo assentì.

Roberto volò a prender Diana e tornò in pochi istanti. Già l’avea avvisata che la principessa stava per morire, e voleva riconciliarsi con lei.

Diana entrò, si gettò in ginocchio dinanzi alla principessa e le baciò una mano. Essa era già tutta contraffatta.

– Caro angiolo! – mormorò, e volle far uno sforzo per baciarla in fronte.

Mentr’era rimasta sola col marito, non avea detto verbo. Al cospetto di Diana prese una mano di Roberto e una del principe con le sue e bisbigliò: – Perdonatemi! – E guardando negli occhi i due uomini, dette un grido straziante e ricadde, poichè niuno pensava a sorreggerla. La sua agonia durò alcuni minuti. Un raggio di sole era venuto a posarsi sulla sua testa; e rendea orrido il pallore, spaventosa la contrazione della fisonomia.

Il principe stava immobile, come una statua, quasi fosse privo d’ogni sentimento; Diana piangeva a dirotto; due grosse lacrime rigavano le guancie di Roberto. Egli era il solo al mondo nel cui cuore fosse rimasto un palpito d’affetto per quella creatura.

In tale ora il Weill-Myot, chiamato a sè il suo primo commesso, gli ordinava:

– Si facciano rimettere valori per due milioni a Hooker e Cocker in Australia.... intendo partecipare alla loro impresa.

– Con due milioni?… Ma è un’impresa rischiosa....

– E che m’importa di rischi?… Se si perdono due milioni noi non moriremo. Non lo credete?

Il commesso s’inchinò: andò ad eseguir gli ordini.

Pochi mesi dopo, Diana sposava il Venosa. Furon felici ed ebbero molti figli, com’è scritto in fine a certe novelle.

Diana, ricevuta l’eredità delle ricche parenti del marchese, la donava a lui: sebbene, dopo la spiegazione ch’egli avea avuto con Roberto, ella non consentisse a veder più l’uomo che avea sì ignobilmente speculato su di essa.

Marco Alboni sposò la grassa contessina: si ritirò in Sicilia, in un piccolo Comune di campagna, ove è consultato, rispettato, ha in chiesa la sua panca con il suo nome: visse anni: poi morì, già che è destino che tutti moiano, anche i bricconi più fortunati.

Il principe, lasciato Napoli, si recò a Parigi, e invecchiò in una vita di dissolutezze.

Qualche anno dopo la morte della principessa, Cristina, stringendosi al suo cacciatore, che avea sposato, gli diceva, mentre parlavano della loro antica padrona:

– Gliel’avevo detto che doveva esser mia vittima, che volevo vendicarmi di lei.... Ti ricordi, quando le feci pagare il nostro viaggio, che fu quasi una luna di miele?… Ma essa meritava un castigo: avea troppo tradito: e noi ci amiamo, non è vero, e ci ameremo sempre, per esser più felici....

Roberto avea consentito di vivere con Diana e il Venosa. Ma passava il più del tempo, anche nel cuor dell’inverno, solitario in una villa del Venosa. Andava spesso nella cappella di Mondrone, di cui i campi e lo splendido parco erano stati venduti ad altri proprietari, e ripensava al giorno in cui v’era entrato per sposare Enrica innanzi al vecchio abate. E spesso se ne andava su la tomba di lei: e si dicea melanconico:

– Non sono stato avventurato, ma è l’unica donna ch’io abbia amata: l’unica, che abbia fatto battere il mio cuore.... Essa mi rammenta le più cocenti sofferenze, i più grandi martirii: ma mi rammenta altresì le sole giornate d’amore, che abbiano illuminato la mia vita!

E sino a che visse tenne fede a questo amore sciagurato, ma inestinguibile. Allorchè, nel supremo momento della sua dipartita dal mondo, la figlia lo assisteva, egli, riguardando or Diana, ora un ritratto della principessa, a lui vicino, memore della virtù dell’immenso sagrifizio da lui compiuto, mormorava, quasi in un’estasi ineffabile:

– Ho amato! ho amato! – E il suo gran cuore si spezzava in un ultimo impeto d’affetto, nella appassionata concitazione delle rimembranze.

FINE

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