Kostenlos

La principessa romanzo

Text
Autor:
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

XVIII

Come abbiamo detto, il principe non vedea la moglie da oltre una settimana. Avea schivato ogni incontro con lei; e a ciò lo sospingeva quella incertezza di cui non poteva guarirsi. Anche ora, mentre parlava con l’Amoretti, lo confondeva la perplessità su quello che dovea fare; non riusciva a dirsi aperto, risoluto il contegno, che dovea seguire, e con la moglie e con lo Jannacone, sebbene già in poche ore si fosse appigliato alle più varie e alle più severe determinazioni.

La principessa era inquietissima: s’era accorta che il marito la sfuggiva, e non osava affrontarlo. Non sapea più come liberarsi da gravi impegni di denaro che aveva contratti; e sentiva un malessere continuo; si stordiva in ogni modo per sfuggir al pensiero, che tornava sempre a crucciarla: quello di una catastrofe immensa, irreparabile. La mattina di tal giorno era uscita a cavallo, e s’era avviata verso Castellamare. A un tratto udì lo scalpitìo di un altro cavallo, che correva dietro il suo; poi le parve udir mormorare il suo nome; si volse e riconobbe il bel giovane, che serviva di primo commesso al Weill-Myot.

– Principessa, – egli disse, accostando il suo cavallo a quello di lei e scoprendosi il capo in atto molto ossequioso, – era sicuro di trovarvi qui.... nella vostra solita passeggiata.... Ho da dirvi cose molto gravi e.... funeste.

Le guancie della principessa, già rosse per la corsa, per la pungente aria mattutina, si fecero d’un incarnato più vivo.

– Avete ricevuto un mio biglietto ieri l’altro? – domandò ipocritamente il giovane.

– No, – rispose la principessa.

– Ora comprendo perchè non abbiamo risposta.... Oggi sono in scadenza i pagamenti di qualche centinaio di migliaia di lire per conto vostro.... Le avete?

– No.... no.... io non sapeva nulla! – rispose la principessa con voce concitata. – Mi cogliete all’improvviso: io non ho più denari: ho appena cinque, sei mila lire....

– I vostri gioielli?

– Ah! – La principessa fece un ghigno di scherno....

– Tutti.... tutti?… – chiese il giovane, come se avesse già compreso l’espressione della fisonomia di lei. – A proposito, debbo dirvi che vostro marito sa dei gioielli falsi, che voi avete mutato coi veri.... Ma io credeva si trattasse soltanto di alcuni....

– Mio marito sa?…

Aveano fermato i cavalli in luogo remoto, e favellavano, senza scender di sella. Era strano il colloquio sì intimo di que’ due a cavallo: colloquio, che dovea decidere della vita di Enrica.

– Vi assicuro che vostro marito sa tutto....

– Sta bene, – disse la principessa, – provvederò....

– Ma urge il provvedere: pensate che c’è una cambiale in cui voi, in un istante di sovraeccitazione, e credendo poterla ricuperare e stracciare qualche ora dopo, avete falsificato la firma del Re.

Enrica trasalì.

– Ho capito, ho capito.... – Con la sua corruzione, con la sua perfidia già avea pensato una cosa orribile, e in un istante: darsi finalmente al Weill-Myot, contentar il suo orgoglio, soddisfare la sua passione: per possederla egli avrebbe certo tutto sagriticato: e per lui il darle un milione, e più, non era un sagrifizio. Accomiatò il giovane con uno de’ suoi gesti imperiosi. Egli si accinse a voltare il suo cavallo, mentre le ripeteva:

– È oggi l’ultimo giorno: o pagare, o una rovina inevitabile.... Noi non possiamo trattener più i vostri creditori!

Ella tornò indietro pian piano, lasciando le briglie lente, e meditando. Poi si dette, a un tratto, a una corsa vertiginosa. Le premeva di tornare a casa, di cercare fra i suoi gioielli. Tornò: salì nella sua camera: aprì lo stipo: si accorse che gli astucci dei gioielli erano stati messi sossopra: vide che era stato frugato tra le sue carte: ritrovò la lettera di Cristina, che ella non credeva aver conservato, aperta, sopra un mucchio di altri fogli in un cassetto.

Si rammentava benissimo d’aver lasciato in casa una sera la chiave dello stipo, che portava sempre con sè: e che avea palpitato per la dimenticanza. In quella sera suo marito dovea essere entrato nella camera; si dovea esser accorto di tutto.

Ma chi gli avea fatto sospettare che i gioielli fossero falsi? Il De Carlo l’avesse tradita? Non le sembrava possibile. A che prò? Il destino dunque si sfogava contro di lei e le suscitava contro misteriosi delatori. Ricevette un gran plico. Lo aprì. Le sue arti erano riuscite a meraviglia. Il re la nominava a una carica onoraria di Corte: inebriando il Venosa, umiliando Diana, ella aveva trionfato: la sua bellezza, già l’assicurava di trionfar sempre, e di tutto. Si consolava un po’ fra tante angustie: la sua vanità tornava a ingigantire. Si rivestì d’un abito nero, che modellava a perfezione le sue forme: prima di uscire di nuovo, si guardò allo specchio, e mormorò cinicamente, avventatamente:

– Facciamo anche questa!

Ella andava a vendersi al Weill-Myot, per un prezzo, che non le parea punto caro: oramai era fuori di sè, o quasi non sapea più ciò che operava: avea la coscienza offuscata, ottenebrata dagli strabocchevoli vizi, agitata dalla paura della condizione terribile in cui s’era ridotta. Il Weill-Myot l’avea stretta in buona rete.

Quel giorno il banchiere americano avea ricevuto due telegrammi da New-York, che gli assicuravano il buon esito di certe sue grosse speculazioni: egli guadagnava il 17 e il 19 per cento su un vistoso numero di azioni di nuove linee di strada ferrata: guadagnava seicentomila lire su un rialzo di fondi americani. Oh, se la principessa non l’avesse offeso, aizzato contro di lei in altri tempi, avrebbe potuto permettersi tutte le prodigalità, sicura che egli non avrebbe mai mancato col suo ingegno, con la sua potenza di farle trovar i mezzi per i suoi fastosi capricci.

La principessa arrivò alla Banca Weill-Myot e domandò dell’americano. Egli era ne’ suoi appartamenti, facea colazione col celebre pittore spagnuolo Murcillo. Questo artista, allora ricercato in tutta Europa, giunto a una gloria, che pochi hanno eguagliato nel nostro tempo, avea un grande studio in Napoli, nel palazzo del Creso americano: uno studio sontuoso, composto di tre grandi sale, ch’egli stesso gli avea fatto addobbare con sfarzi orientali.

E il pittore stava eseguendo due quadri per il banchiere.

La principessa fu fatta entrare nel salotto del banchiere, ove già l’abbiamo una volta incontrata.

Poi, fu dato subito annunzio al Weill-Myot della visita di lei.

– Le avete detto che siamo a tavola? – domandò il banchiere al suo impiegato, poichè egli teneva alle più volgari ostentazioni e voleva mostrare dinanzi a un suo subalterno che anche la visita di una principessa non era per lui gran cosa, che anzi poteva riuscirgli importuna.

– Gliel’ho detto, e l’ho fatta entrare nel salotto....

– Oh.... ma che pensate.... ricevetela subito.... Che diavolo? Una donna e una gentildonna! – disse l’artista spagnuolo, con la cavalleria propria della sua nazione e de’ veri artisti. Ma il Weill-Myot era il Weill-Myot.

Si alzarono subito da tavola: e si recarono nel salotto ov’era la principessa. Il banchiere immaginava ciò che essa avrebbe desiderato da lui; però avea tenuto a farsi trovare in compagnia. Era il modo migliore per avvilirla di maggiore spregio e per far sì ch’ella risentisse più cocentemente le umiliazioni, che le avrebbe inflitte. Benchè accigliato, malcontento, di pessimo umore, all’annunzio di quella visita, il banchiere si sforzò di sorridere. Finse subito, nel trovarsi al cospetto della principessa, una grossolana familiarità. Le mise una mano sopra un braccio, come avrebbe fatto in segno di cordialità ad un amico, e le disse:

– Siamo felicissimi della vostra visita!

Quel riceverla in due era già un’insolenza.

– Vi presento il famoso pittore....

– Oh, il signor Murcillo, – disse Enrica, con un sorriso divino, – chi non lo conosce!

Il pittore s’inchinò con molto rispetto, e con profonda ammirazione della squisita bellezza che aveva dinanzi.

– Voi siete artista, principessa, – continuò il Weill-Myot, che parlava sempre famillionariamente, secondo un notissimo avverbio, alla gentildonna.

– Volete entrar nello studio del nostro Murcillo.... veder i suoi capilavori?

Entrarono nelle stanze, che servivano di studio allo spagnuolo. La principessa gettò alcune piccole grida di stupore dinanzi alle varie tele, sparse qua e là con apparente negligenza, dinanzi a’ due quadri, in parte abbozzati, in parte presso che terminati.

– La vostra fama è grandissima, e pure il vostro merito la supera! – disse la principessa al pittore. Egli eccelleva sopra tutto nel dipingere le nudità femminine.

Nacquero dispute sa la perfezione di certe linee, su la appropriatezza di certi scorci in questa o quella figura.

Il pittore, estatico dinanzi alla bellezza della principessa, ammaliato dall’incantevole suo sorriso, dalla dolcezza della sua voce, già subiva quel fascino, a cui nessun uomo, salvo il Weill-Myot, dopo il risentimento provato pe’ disdegni di lei, avea saputo sottrarsi.

La principessa andava da un quadro all’altro, osservava, criticava con vero acume, specialmente lodava; rideva ella stessa delle sottili malizie, che metteva in certi giudizi, e che si riferivano a segreti della bellezza femminile.

Il pittore la divorava con gli sguardi; indovinava le forme elette, che ella non nascondeva molto, per la stessa foggia d’abiti, sempre da lei prediletti a tale scopo.

– So che facevate colazione, – disse la principessa al Weill-Myot, e gli rivolgeva uno sguardo di fuoco.

– Oh! – esclamò il Weill-Myot accompagnando la esclamazione con un gesto, che voleva significare: – Ma ciò poco importa....

– Mi dorrebbe molto, caro Weill-Myot, avervi disturbato, – replicò la principessa col tuono più vellutato della sua voce. Ella incominciava i primi attacchi, e con strategica finissima, per vincere la sua battaglia. – Tornate a mangiare… vi aspetterò qui se volete.... Non mi riguardate come un’intrusa, o come una importuna.... Trattatemi con la familiarità di una antica amica. – Tutto questo fu detto con disinvoltura adorabile, e con la massima grazia.

 

Un’idea infernale balenava nella mente del Weill— Myot.

– Già che voi… principessa… siete sì buona… e mentre venite a parlarmi de’ vostri affari, degnate trattarmi, non come un servitore pronto a tutti i vostri cenni, ma come un amico… vi dirò che noi avevamo quasi finito di far colazione....

– E allora finite… andate, e subito! – -ella disse, agitando in aria un guanto, che s’era cavato.

– Eravamo sul punto di bere un vino spumante, leggerissimo, delicato, che mi è stato spedito dall’America, che i buongustai americani preferiscono allo stesso Champagne di miglior qualità… si chiama anzi Jolly – Champagne.... Lo farò recar qui: vorrete voi, principessa, degnar d’accettare che noi facciamo un brindisi alla vostra bellezza meravigliosa?… Non vorrei esser troppo ardito....

– Vi ho detto, caro Weill-Myot, che voglio mi trattiate come una vera amica: siamo nello studio di un grande artista; parliamoci d’arte, e trattiamoci da veri camerati.... Ve ne do l’esempio.... – E la principessa si gettò su una larga ottomana, e vi cadde in modo che le sue tibie rimasero, in parte, scoperte. Volea dar al pittore un’idea delle sue perfezioni. Cedeva alla sua solita smania di far pompa di sè, di mostrare le sue bellezze.

Il Weill-Myot uscì per dar gli ordini opportuni, e stette un pezzetto a tornare.

Il pittore parlava con la principessa, che in quella posizione lo esaltava, gli mandava in fiamme il cervello.

– Felice l’artista, – egli mormorava, – che potesse condurre un’opera, studiandovi, avendovi a modello.... Egli lavorerebbe di certo per l’immortalità.

L’effetto, da lei prodotto sul pittore, le facea ben augurare dell’impresa, che era venuta a tentare sul Weill-Myot: sorrideva; ma, a dir vero, non avea mai dubitato seriamente che il Weill-Myot potesse resisterle.

Ammetteva gli uomini fossero sovente ingrati alla donna che li onora della sua predilezione; non ammetteva potessero esser ciechi, o non commovibili alla sua bellezza.

Arrivò un servitore maestoso, in ricchissima livrea: portava con sè un gran vassoio d’argento, con due bottiglie, e bicchieri infilati in custodiette d’argento.

Qualche istante appresso giunse il Weill-Myot. Egli facea versare alla principessa lo squisitissimo vino americano, di un nitido color d’ambra, vino riconfortante, di un gusto soave, di un delicato profumo. In una bottiglia il Weill-Myot avea gettato una sottilissima polvere, che dovea aver per effetto di suscitare nella principessa una sete inestinguibile, incitarla al bere, e darle un’ebbrezza assai forte, sebbene passeggera.

Il servitore, postosi dietro le ampie spalle della principessa, aprì le due bottiglie: versò il vino, secondo le istruzioni ricevute, ne’ tre bicchieri.

Il Weill-Myot tolse dal vassoio un bicchiere e lo porse alla principessa: e tutti e tre in piedi fecero il brindisi.

– Il vino è davvero stupendo.... Si vede che il nuovo mondo, anche in questo genere, comincia a darci sublimi prodotti.

Il lettore sa già che la principessa beveva assai volentieri i vini molto generosi; non le occorrevano stimoli.

– Beviamo di nuovo! – ella disse tutta gaia. E il Weill-Myot fece un cenno al servitore, tenendo egli in mano il bicchiere della principessa. Ella bevve tre volte, in brevissimo tempo, di quel vino. Sentiva un benessere insolito, una vera letizia: e in quello studio, fra quelle forme di bellissimi corpi, carezzate dal pennello dell’artista, provava un fervore di sensualità, sempre in lei pronto a svegliarsi. Parlava un po’ sconnessa, ma vivace, arguta, senza ritegni, con una libertà salace e raffinata. Si sarebbe detto che il suo scopo fosse l’eccitar que’ due uomini alla più appassionata adorazione, alla più folle passione per lei.

Intanto, il principe smaniava nel suo palazzo e trascorreva le ore ne’ dialoghi con Cristina e con Roberto.

– Vedete, – disse la principessa, accostandosi a un quadro, – l’anca di questa donna non è perfetta… in tale scorcio… in tal punto, – e l’indicava, – dovrebbe apparire più turgida.... – Criticò il seno di un’altra figura di donna. Non v’era abbastanza colore: e l’epidermide d’una donna robusta, sia pur di finissima e bianchissima carnagione, ha un tessuto più vivo.... – Qui, – continuava e indicava un altro punto, – c’è un errore....

Il pittore sorrideva: sorrideva la principessa. E si sforzava di sorridere il Weill-Myot.

Poi, risalendo col dito, la principessa indicava nel seno d’una figura di donna la fossetta in mezzo alle due collinette di rose e di neve, come le chiamavano un tempo i poeti.

– Qui, la linea, – disse al pittore, con il suo più furbesco sorriso, – è sbagliata.

– S’io potessi veder un modello, quale io lo sogno… mi accorgerei che tutto in questi quadri è sbagliato....

La principessa fece un piccolo gesto d’impazienza, come se volesse contradire il pittore.

– Sbagliato in questo senso: che non riproducono l’esemplare della vera, perfetta bellezza, sì raro a trovarsi.... Mi è permesso di parlar francamente?

Con un cenno Enrica gli dette ad intendere che a ciò l’invitava.

– La perfezione assoluta delle forme è propria soltanto di pochi, elettissimi esseri.... Si direbbe che la natura, nel produrre un corpo perfetto, faccia tali sforzi, che abbia bisogno di lunghi riposi.... La vita aristocratica, agiata, contribuisce alla perfezione delle forme.... Non è vero, ad esempio, che la ginnastica conferisca alla bellezza del corpo umano; essa dà lo sviluppo di alcune forme, a scapito di altre. Turba l’armonia.... Volete un modello assoluto di bellezza? Paolina Borghese: una dama aristocratica.... Felice il nostro Canova, che l’ha veduta.... Una donna bellissima, che cede allo scrupolo di non mostrar le sue forme, di tenerle velate anche all’occhio adoratore di un artista, sottrae al genere umano un vero tesoro.... Oh, se io potessi attuare un sogno, che ora m’agita la fantasia, un sogno forse troppo temerario… se potessi vedere la vostra bellezza divina....

La principessa era eccitata dalla spiritosa bevanda, dalla polvere inebriante, che il Weill-Myot vi avea gettato.

– Chi avrebbe scrupolo di mostrar ad un artista ciò che può dar ispirazione al suo ingegno, aumentare in lui l’idea della perfezione?…

– E poi la bellezza è passeggera.... l’anno, il giorno che corre, una malattia, possono sfiorarla, deteriorarla.... Un artista ha il potere di fissarla per sempre in una tela, nel marmo, nel bronzo, renderla immortale.

Vide un gesto della principessa; e pose su un cavalletto una gran tela.

Avea già in mano la tavolozza: tenea gli occhi fissi, estatici su la principessa, come se già scorgesse, o aspettasse di scorgere un’apparizione più che umana.

Ella guardava di sottecchi il Weill-Myot. Era per lui, che commetteva un tale ardimento.

Anche il banchiere avea gli occhi fissi su lei, ma i suoi sguardi non aveano la medesima espressione estatica di quelli del pittore. L’americano avea la febbre di vederla innanzi a sè, come si ammirano le statue, spoglia d’ogni indumento. Volea scrutare tutte le forme di lei: dirsi se avea desiderato veramente una donna nella sua struttura perfetta, e compiacersi nell’orgoglio di averla disprezzata.

Enrica era corsa dietro un magnifico paravento giapponese. I due udivano un fruscio di vesti.

Una mano frettolosa scioglieva nastri, strappava ciò che le era d’ostacolo.

Il pittore palpitava d’entusiasmo, poichè avea già indovinato la meravigliosa bellezza della principessa: il Weill-Myot era, per così dire, rovente di concupiscenza, e godeva nella coscienza della sua fierezza, nel pensiero della umiliazione a cui costei sarebbe fra poco discesa. Ella in quel mentre non pensava punto ad umiliarsi: la eccitavano due sentimenti: un sentimento di vaga poesia, che la consigliava a soddisfare l’artista, e la bramosia di veder riprodotti i suoi tratti, d’esser testimone dell’ammirazione, che avrebbero eccitato, dipinti maestrevolmente da un artista sì famoso. Poi, ripetiamo, la conquista del Weill-Myot, benchè tentata con tal mezzo, dovea provarle che, mercè la sua bellezza, ella poteva uscire facilmente da’ passi più scabrosi.

– Oh, figuratevi, – diceva lo spagnuolo al Weill-Myot e la voce gli tremava, – se Tiziano non avesse trovato una vera patrizia, una gran dama, di forme sì squisite, che stesse dinanzi a lui perchè egli delineasse, colorisse quel quadro, cui danno il nome di Venere! Di rado un pennello di pittore ha reso con toni sì caldi e sì veri, la vita ch’è nel corpo umano, la vita dei pori, dei tessuti.... Non ostante certi lievi difetti, visibili solo a chi ha fatto dell’arte lo studio di tutta la vita, par che quel corpo si muova.... Tiziano avea goduto lo spettacolo della suprema bellezza poderosa, armonica, come è quella della principessa....

Già una gonna bianca, tutta trine, bene insaldata, era caduta fuori del paravento. Il bel fianco robusto vi avea lasciato il suo rilevato contorno.

A un tratto, la principessa uscì dal suo nascondiglio, seria, con un passo di Dea, e andò a porsi sopra una pedana, assai alta, e coperta di raso rosso.

I due uomini gettarono ciascuno una esclamazione.

Quella dell’artista dinotava un imparadisamento, una gioia fina, alta, estetica di tutto il suo essere: quella del Weill-Myot, un’ammirazione feroce e che si era espressa come un ruggito; era lo svegliarsi di tutti gl’istinti più brutali, che avviliscono l’uomo.

La bellezza luminosa, chè tale pareva, della principessa, sembrava irradiasse la stanza.

Il pittore non batteva palpebra: gettava linee: intrideva colori. Volle, a un certo istante, inginocchiarsele innanzi.

– È la prima volta ch’io vedo, e che adoro la vera bellezza umana.... Comprendo ora meglio gli antichi e i loro capolavori.... La bellezza armonica, perfetta, dovea essere, in un tempo, men rara! – Ritraeva con foga tutti i contorni robusti, e insieme fini, di quel corpo fiorente, in su la tela. Lo meravigliavano certe proporzioni. Il seno così ricolmo, così vigoroso, così in avanti, avrebbe deformato, reso volgare un altro corpo.

Stava benissimo in quel corpo sì maestoso, sì scultorio, di linee sì forti e pur sì schiette, I due be’ dischi d’avorio si ergeano con tal forza lor propria e tal ardimento, a così dire, di natura, che il pittore non avrebbe mai osato adeguar tali linee, prima di aver l’idea d’un corpo sì ammirevole. Lo stupiva la sovrana bellezza della gamba, pur sì massiccia tra il fianco e il ginocchio, come si vede in certe grandi statue antiche, persino sotto i panneggiamenti. Era un delirio di bellezza, secondo la frase, che tra sè formava il pittore. Le linee convergevano sì armoniche, il colorito della pelle, tra roseo e bianco era sì vivo, sì venuste le fossette qua e là, sì azzurre le vene, tra la carne copiosa, polita come l’agata, d’un biancore marmoreo. Ella gioiva della follìa d’ammirazione a cui vedea in preda que’ due uomini, in ispecie l’artista: nè l’uno, nè l’altro, benchè ricercatori della bellezza, aveano mai visto modello che, pur da lontano, l’agguagliasse. Si compiaceva, provocante, lasciva, in un’ebbrezza che ormai l’avvicinava al delirio, di quell’atto, come una sfida a’ pregiudizii, come di una tortura inflitta a que’ due uomini, spasimanti, ma che non osavano, per rispetto umano, e per quella specie di terrore che ispira la grande, assoluta bellezza, avvicinarsele.

La assoluta bellezza assomiglia a un prodigio, e, come ogni prodigio, ha una subita virtù di gettare nell’animo ammirato un certo terrore; sentimento che soltanto alcuni fortunati hanno provato: che è profondo, ma non è naturale, durevole.

Il pittore lavorava, lavorava, già avea fissato su la tela tutte le linee principali. Avea qua e là colorito con la prestezza di un uomo di gusto, avvalorato da una foga impetuosa, irresistibile.

Si alzò, a un tratto, come di scatto: ma sembrava pensoso, assorto, fuori di sè. Toccò con ambedue le mani la principessa, affinchè ella mutasse di un poco il suo atteggiarsi. Essa sentì che le mani di lui erano fredde come il ghiaccio. Egli era atterrito da quella superba, smagliante, potentissima bellezza; si sentiva in estasi, come se si fosse trovato di repente fra gli astanti d’un improvviso prodigio naturale. Volle veder il dorso nella robustezza, nella risentita fierezza delle linee; a spiegarci, in una certa solida ampiezza, nella gagliardezza e soavità delle seduzioni, sopravanzava le più stupende fra le statue antiche. Alla fine si vide un quadro; un quadro mezzo abbozzato, ma che avea già un’impronta di nuovo, di originale; un quadro, che già, a guardarlo, facea pensare e palpitare.

 

Più in là altri segni, altre forme; gli appunti di un pittore; e tutti presi su la venustà di Enrica, in altro senso. Ma il primo quadro, con pochi tocchi, e pochi segni di colore, avea già del meraviglioso.

– Come intitolerete questo quadro? – domandò la principessa.

Il pittore esitò un poco: egli già avea nella mente il suo quadro compiuto; già lo scorgeva in tutti i suoi effetti e si esaltava; quello dovea essere il capolavoro de’ suoi capolavori. Lo avrebbe mandato al prossimo salon di Parigi. La Francia intelligente, appassionata, egli n’era sicuro, sarebbe, attratta anche dal suo nome, passata tutta innanzi a tal quadro; avrebbe pensato, sospirato, palpitato innanzi ad esso. Allora la scuola naturalista era nel suo primo sboccio. Egli volea esser classico e naturalista insieme, e qualche cosa di più, come possono gli uomini di genio, che san percorrere i tempi. La bellezza della principessa, sì pura, sì grandiosa, e tanto singolare, era stato il vero alimento, di cui ancor bisognava la sua ispirazione.

– Come intitolerò il mio quadro? – egli domandò, poichè non rispondeva, ma interrogava sè stesso quasi avesse udito una voce nel mezzo di un sogno, tanto tutte le sue facoltà erano eccitate, tanto la sua commovibilità era esasperata. Parve star sopra pensiero un istante; affissò gli occhi di nuovo su la principessa: e pensò, esprimendo con le parole il pensier suo: – Intitolerò il mio quadro: “La Donna Nuda.” Sarà la prima battaglia che dà la scuola realista, in mezzo a’ pittori accademici.... I pochi realisti, che ora sono di là dall’Alpi, – pensava il Murcillo, – non valgono me: e poi non hanno veduto questa donna!

Accomodati i quadri nudi, postili in luogo sicuro, il pittore uscì: sentiva bisogno di aria: le sue tempia battevano, il sangue gli rifluiva al cuore: vedea la principessa come circonfusa da un nimbo di luce. Con le ultime linee tracciate su la tela, sembravano in lui ammorzati gli entusiasmi dell’artista: si riaccendevano gl’istinti dell’uomo. Temeva di apparire ridicolo innanzi al Weill-Myot, alla principessa. Non potea dimenticare ciò che avea veduto. Il Murcillo fece un cenno al Weill-Myot nell’uscire: voleva dire, tornerò fra un istante. Era uomo bizzarrissimo. Salì su la terrazza del palazzo: si mise a guardare i bellissimi orizzonti di Napoli: il mare, il Vulcano, le amene campagne: e subito il suo animo fu in quiete. Tanto splendore di bellezze volgeva i moti dell’animo suo tutti a una meta sublime. Egli era nato per l’ideale: la contemplazione del bello lo purificava sempre: la principessa, col suo sguaiato sorriso, con la voluttà che le sfavillava dagli occhi, lo aveva un istante affattucchierato.

Quando Io spagnuolo fu uscito, la principessa era già tornata dietro al paravento. L’ebbrezza in lei si dissipava a poco a poco. Ricopriva le sue belle forme, e l’agitava un pensiero maligno: la tentazione, che stava per esercitare sul Weill-Myot: non preparava una scena di seduzione, poichè gli sembrava inutile. Il Weill-Myot non avrebbe mai potuto resisterle. Il banchiere non toglieva lo sguardo dal paravento. A un tratto la principessa fece capolino: la sua testa di baccante si sporgea verso il Weill-Myot. I loro sguardi s’incontrarono: quelli di lei infiammati, tutti ardore, quelli di lui freddi, implacabili. Ella si fece innanzi: non già sì baldanzosa, come d’usato. Le entrava in cuore subitamente la consapevolezza del molto, o del troppo, che avea osato. Ma oramai non poteva ritrarsi. Tutto, la sua stessa disperazione, la spingeva a andar innanzi. Uscì, mezzo vestita, dal nascondiglio. Erano tuttora scoperte le sue braccia, scoperto quasi il seno palpitante. Si avvicinò al Weill-Myot. Egli era impassibile. Avea goduto della sua vista; non volea di più; l’umiliarla, il vendicarsi era, cioè, per lui il massimo piacere in quel momento. Si trovavano in faccia e a poca distanza l’uno dall’altro.

– Ho bisogno di voi, – disse la principessa, guardando di sotto in su.

– In che posso servirvi? – domandò con scherno mal velato l’americano.

– In che cosa potete servirmi? Ma non vedete che in questo istante, – ella replicò con l’abilità d’una astuta cortigiana, – voi siete il mio arbitro? Tocca a voi il far ciò che volete.

– Non v’intendo!

La principessa si sentì di nuovo molto angustiata.

– Sapete la mia rovina? – ella aggiunse con voce esitante.

– No, principessa; da un pezzo non mi occupo de’ vostri affari.

– Voi mi avete tanto desiderata!

– È vero, principessa! – ribattè il Weill-Myot molto serio.

– E bene; – continuò, fra cinica e graziosa, la principessa, – io vengo a offrirvi un capitale, che fin ora non avete posseduto....

– E mi domandate in compenso?… – esclamò il Weill-Myot. – So che le donne come voi non s’inducono a tal passo per mera passione: o vi s’inducono in altro modo. S’io vi fossi piaciuto, non me lo avreste detto oggi.... L’avrei capito al primo istante in cui v’ho conosciuta.... Invece, non ebbi da voi, se non ripulse.... Ma parlate, può darsi, – la trattava come una vera cortigiana, – che io sostenga un piccolo sacrifizio.... per un capriccio. – Non poteva umiliarla di più. – Quanto mi domandate, – disse il Weill-Myot, che la teneva ora per una delle sue braccia bianche, morbide, robuste, – a rimediar la vostra rovina?

– Non tutto quello che io valgo, – rispose Enrica con una certa alterezza, poichè credeva averlo soggiogato. – Mi basta un milione!

– Un milione! – replicò il Weill-Myot. – È ben poco… è vero.... dato a una donna che si ama, e per un uomo, che può darlo, senza punto impoverirsi, senza che i suoi affari ne sieno menomamente impediti.... Voi avete già un’idea della mia ricchezza.... Sapete che potrei ben darvi il milione agognato.... Darei invece un milione per vedervi dinanzi a me più umiliata, più avvilita, se è possibile; che non siate adesso.... Sappiate che son io l’autore principale della vostra rovina....

– Voi?

– Io… A quest’ora vostro marito sa della vostra rovina, de’ diamanti che gli avete rubato… poichè tale è la parola che conviene alla vostra azione.... Ah, credevate di venir qui, di ammaliarmi, di condurmi come uno dei tanti imbecilli di cui avete fatto le vostre vittime.... Credevate, voi, che una donna napoletana potesse riuscir a burlarsi d’un americano.... Pazza voi foste… non dirò altro....

“Ella è stata buona con me come Paolina Borghese col Canova”, pensava in quel momento il gentil pittore spagnuolo, che si affrettava a tornar nello studio, non volendo la principessa partisse senza un suo comiato: e già avea fatto disegno d’offrirle un grazioso ricordo, che ella avrebbe ben potuto accettare.

Le risposte del Weill-Myot avean lasciato la principessa mezzo tramortita: tanto ciò che udiva era lontano da ogni suo pensiero.

– Voi mi avete troppo disprezzato.... E non avete capito, sempre ingenua nella vostra immensa malizia ch’io dovea ardere di uno sfrenato desiderio di vendetta.... Voi non siete abituata a trovar alcuna resistenza: e anch’io sono abituato a veder soddisfatto ogni mio desiderio.... In un urto fra voi e me, uno di noi dovea esser spezzato.... Io, se non avessi saputo attutire la fiamma di voluttà, che mi spingeva verso di voi.... Ma io ho trionfato di me stesso, e aspettava, ormai sicuro, dopo molte trepidanze, anzi paure di me, che voi sareste venuta a chieder mercè.... Noi siamo due creature al di sopra di molte.... Abbiamo doti rare, che ci poteano aiutare ad intenderci.... Ma eravamo entrambi troppo orgogliosi per amarci.... E l’orgoglio è la prima cagione d’ogni infelicità.... Il problema era questo: qual di noi due dovea esser più infelice. È toccato a voi… rassegnatevi. Eccovi l’unico rimedio, ch’io posso suggerirvi. – Le porse una fialettina di cristallo con cerniera d’oro; v’era dentro un liquido azzurrognolo. – Due goccie di questo liquido e tutto sarà finito! – Essa era pallida come una morta: digrignava i denti; non avea mai provato un tale invilimento, non s’era mai trovata tanto abbattuta. – Ripigliate le vostre vesti, – disse con tono altero e sprezzante il Weill-Myot, – fra pochi minuti il Murcillo sarà qui.... Mi meraviglio che già non sia tornato!

Weitere Bücher von diesem Autor