Il ritorno di Zero

Text
0
Kritiken
Leseprobe
Als gelesen kennzeichnen
Wie Sie das Buch nach dem Kauf lesen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Dopo aver superato il suo ultimo anno di liceo e all'insaputa di Zero, Maya aveva fatto domanda all'accademia militare West Point. Anche se i suoi voti erano eccellenti, non aveva esperienza né aveva fatto servizio militare, e questo non la rendeva un candidato particolarmente favorito. Ma aveva un piano anche per quello.

In un atto di astuzia che lasciava presagire una carriera illustre in operazioni segrete, Maya aveva contattato il suo collega agente (e amico) Todd Strickland. Attraverso di lui, e con la scusa di essere la figlia dell'Agente Zero, era riuscita a ottenere una lettera di raccomandazione dall'allora presidente Eli Pierson, che pensava di fare un favore a Zero. Venne ammessa a West Point e venne trasferita a New York prima della fine della prima estate dopo aver scoperto la verità su sua madre.

Zero aveva scoperto tutto mentre stava facendo le valige. Ormai era troppo tardi per fermarla, ma aveva comunque tentato. Ma nessuna supplica l'avrebbe dissuasa.

Era al secondo anno ormai, e anche se i legami tra padre e figlia erano quasi recisi, Maria teneva d'occhio Maya come meglio poteva e aggiornava Zero. Sapeva che era la prima della sua classe, eccelleva in tutto ciò che faceva e si guadagnò l'ammirazione della facoltà. Sapeva che avrebbe fatto grandi cose.

Desiderava solo che non fosse lo stesso percorso professionale che aveva fatto uccidere sua madre e aveva rovinato la relazione con suo padre.

“Allora”. Greg si schiarì la voce, sedendosi accanto a Maya sul divano mentre Zero sedeva di fronte a loro in una poltrona reclinabile. “Maya mi ha detto che lei è un contabile?”

Zero sorrise debolmente. Ovviamente Maya aveva scelto un'occupazione così blanda come copertura. “Esatto”, disse. “Finanza di impresa”.

“Interessante...” Greg ricambiò un sorriso.

Che leccapiedi. Cosa ci trova in questo ragazzo? “E che mi dici di te?” chiese. “Di cosa vorresti occuparti? Vuoi diventare un ufficiale?”

“No, no, non penso di esserne adatto. Il ragazzo agitò una mano come per allontanare quell'idea. “Vorrei entrare nel NCAVC. In particolare, nel BAU...” Ridacchiò leggermente tra sé. “Mi dispiace, signor Lawson, dimenticavo che sto parlando con un civile. Voglio essere un agente dell'FBI, nella loro unità di analisi comportamentale. Divisione per i Crimini Violenti. Sa, i ragazzi che cacciano serial killer, terroristi e cose del genere”.

“Sembra eccitante”, disse Zero in tono piatto. Ovviamente sapeva cosa fossero l'NCAVC e il BAU, praticamente chiunque accendesse la televisione in prima serata lo sapeva, ma non lo disse. In effetti, aveva pochi dubbi sul fatto che se quel ragazzo furbo di fronte a lui avesse saputo di parlare con l'Agente Zero, si sarebbe asciugato quel sorriso untuoso dalla faccia e si sarebbe trasformato in un fan accanito in meno di cinque secondi.

Ma non poteva dire nulla di tutto ciò. Invece aggiunse: “Sembra anche un progetto ambizioso”.

“Greg ne ha la capacità”, intervenne Maya. “È il migliore della seconda classe”.

“Ovvero dei giovani”, spiegò Greg a Zero. “Ma non li chiamiamo così a The Point. E Maya è la migliore nella terza classe”. Allungò una mano e strinse delicatamente il ginocchio di Maya.

Zero dovette trattenersi fisicamente dal rivolgergli un ghigno rabbioso. All'improvviso capì perché Maya aveva con sé questo ragazzo; era molto più di un semplice cuscinetto tra di loro. Con lui lì, non avrebbero potuto parlare apertamente. Non avrebbero parlato della CIA né del loro passato. Cavolo, non era nemmeno sicuro di poter chiedere l'unica cosa che gli premeva di più, ovvero di Sara.

La decisione di Maya di abbandonare la scuola lo aveva distrutto. Ma Sara... anche dopo tutto questo tempo, sembrava che quel pugnale gli fosse arrivato dritto al cuore.

Greg stava ancora parlando, dicendo qualcosa sull'FBI e sulla pulizia della Casa Bianca alla luce dello scandalo che aveva scosso l'ex amministrazione e di come la sua famiglia avesse dei legami con quelle persone, o qualcosa del genere. Zero non stava ascoltando. Guardò lei, sua figlia, la giovane donna che aveva cresciuto, a cui aveva dato tutto ciò che poteva. Le aveva cambiato i pannolini. Le aveva insegnato a camminare, parlare, scrivere, giocare a softball e a usare una forchetta. L'aveva messa in punizione, l'aveva consolata mentre piangeva, aveva rallegrato le sue giornate quando si sentiva giù, le aveva medicato le ginocchia sbucciate. Le aveva salvato la vita e aveva fatto sì che sua madre venisse uccisa.

Quando la guardò, cercò di attirare la sua attenzione, lei distolse lo sguardo.

E in quel momento, capì. Non ci sarebbe stata alcuna riconciliazione, almeno non quella sera. Era una formalità. Maya gli stava dicendo che meritava di sapere che era viva e che stava bene, ma non molto altro.

Fissava il tappeto con uno sguardo pensieroso mentre Greg parlava di qualcos'altro. Il suo sorriso vacillò e mentre svaniva, così fece anche la speranza di Zero di riavere sua figlia.

CAPITOLO TRE

Maya immerse una crosta di pane nel pasticcio e la masticò lentamente. Era delizioso, migliore del cibo servito dall'Accademia, ma non aveva molto appetito. Suo padre era seduto di fronte a lei al piccolo tavolo da pranzo, con Maria alla sua sinistra e Greg a destra.

La stava fissando ancora.

Si pentì immediatamente di essere andata. Lei non gli doveva nulla. E sapeva che non poteva guardarlo negli occhi perché vi avrebbe visto il dolore mascherato della loro separazione. Per evitarlo, si mise a fissare un pezzettino di kielbasa nel suo piatto.

Lì in quella nuova casa dove viveva con Maria suo padre le sembrava un estraneo; era ingrassato e aveva delle occhiaie sempre più pronunciate. Non aveva più quella luce negli occhi come quando lei era piccola. Non sentiva la sua risata da più di un anno. Le mancavano le loro battute sarcastiche, scherzose e, a volte, i dibattiti accesi.

“Non è vero, Maya?”

“Mmm?” Il suo nome la scosse dai suoi pensieri; quando alzò gli occhi, vide Greg che la fissava in attesa. “Oh. Sì. Certo”. Buon Dio, stava ancora parlando?

In realtà Greg non era il suo ragazzo. Almeno non lo vedeva come tale. Non avevano mai dato un nome alla loro relazione. Sapeva che gli piaceva, si erano baciati qualche volta, anche se non gli avrebbe permesso di andare oltre, eppure non poteva fare a meno di pensare che per lui fosse più una questione di status. Lui veniva da una buona famiglia, sua madre era in politica e suo padre era ai piani alti della NSA. Lei era la migliore della sua classe e (come pensavano in molti) probabilmente era meglio di lui in molte materie, in particolare quelle teoriche. Alcuni degli altri cadetti della seconda e della terza classe scherzando li chiamavano “il re e la regina di West Point”.

Era carino. Era atletico. Era abbastanza gentile. Ma era anche un duro, egocentrico e completamente ignaro dei suoi difetti.

“Secondo me”, stava dicendo Greg, “Pierson avrebbe dovuto lavorare meglio. Mia madre dice, non so se l'ho detto, mia madre è stata sindaco di Baltimora per due anni. Ad ogni modo, dice che la sua negligenza è stata sufficiente per metterlo sotto accusa, o almeno per portarlo a perdere le elezioni...”

Smettila di fissarmi. Voleva gridarlo, ma si trattenne. Percepiva quanto disperatamente suo padre volesse parlarle. Questo era parte del motivo per cui aveva portato Greg, in modo che non potessero uscire gli scheletri dall'armadio. Sapeva che voleva chiedere di Sara. Sapeva che voleva scusarsi, provare a fare ammenda, a lasciarsi alle spalle tutti i suoi errori.

La verità era che non lo odiava. Non più. Per odiare qualcuno aveva bisogno di energia e lei la stava dedicando tutta alla sua formazione. Per lei, era un non-problema. Questa visita non era riconciliante; era burocrazia. Decoro. Galateo. I valori che l'Accademia aveva trasmesso ai suoi cadetti non erano del tutto applicabili alla situazione unica di Maya, ma aveva ritenuto in ogni caso opportuno passare a salutare l'uomo che l'aveva cresciuta. Se non altro per dimostrare a sé stessa che riusciva ancora a stare nella stessa stanza con lui.

Ma ora avrebbe voluto non avere mai accettato quell'invito.

“Allora”, disse Maria all'improvviso. Greg aveva smesso di parlare per mangiare un po' di stufato, e Maria stava approfittando del silenzio temporaneo. “Maya. Hai parlato con tua sorella ultimamente?”

La domanda la prese alla sprovvista. Se l'aspettava da suo padre, ma non da Maria. Comunque, era un momento buono come un altro per esercitarsi nelle abilità che aveva sviluppato nel suo tempo libero. Combatté l'emergere di qualsiasi espressione che avrebbe potuto tradirla e sorrise leggermente.

“Sì”, rispose Maya. “Proprio ieri, in realtà. Sta bene”. Solo metà era una bugia.

“Hai una sorella?” Chiese Greg.

Maya annuì. “Di due anni più giovane. È in Florida per un progetto di scuola-lavoro. Occupatissima”. Era un'altra bugia, ma le uscì con facilità. Stava migliorando sempre di più, e qualche volta ne diceva alcune solo per fare pratica e, certamente, per divertirsi un po'.

“E…” Suo padre si schiarì la gola. “Sta andando bene? Ha tutto ciò di cui ha bisogno?”

“Mm-hmm”, rispose Maya seccamente senza guardarlo. “Benissimo”.

Greg fece una smorfia e si rivolse a suo padre. “Lo chiede come se non le parlasse, signor Lawson”.

“È come ha detto Maya”, rispose piano suo padre. “Sara è molto impegnata”.

Maya sapeva che la sua improvvisa partenza era stata un duro colpo per lui. Ma quella di Sara era stata un colpo mortale.

In quella prima estate, pochi mesi dopo che il padre aveva salvato la vita al presidente Pierson, dopo che aveva detto loro la verità sulla madre e la tensione nella loro casa era alle stelle, Maya aveva confidato a sua sorella i suoi piani. Disse a Sara di aver superato l'ultimo anno di liceo e di star preparando l'ammissione per West Point.

 

Non avrebbe mai dimenticato l'espressione di panico sul viso della sua sorellina. Per favore. Per favore no, Sara l'aveva supplicata. Non lasciarmi sola con lui. Non posso farcela.

Per quanto le spezzasse il cuore, Maya aveva i suoi progetti e non poteva scendere a compromessi. Quindi Sara aveva fatto i suoi. Cercò online e trovò un avvocato che avrebbe preso la sua causa pro bono. Quindi presentò domanda di emancipazione. Si aspettava che sarebbe stato difficile; non c'erano prove di abbandono, abuso o cose del genere.

Ma con una mossa che scioccò entrambe le sorelle, suo padre non si oppose. Meno di due settimane dopo che Maya partì per la scuola militare a New York, suo padre si presentò in tribunale e, di fronte a un giudice, disse a sua figlia quindicenne che se avesse voluto andarsene a tal punto da portarlo in tribunale, poteva avere la sua libertà.

Quella stessa notte era successo qualcos'altro che Maya non avrebbe mai dimenticato. Suo padre l'aveva chiamata. Lei non aveva risposto. Lo odiava ancora. Le aveva lasciato un messaggio in segreteria, che non aveva ascoltato per due giorni. Quando alla fine lo aveva riprodotto, se ne era pentita immediatamente. La sua voce piatta le comunicava che Sara se ne era andata. Ammetteva che si era meritato tutto questo. Si scusò tre volte e le disse che l'amava.

Passarono altri sei mesi prima che si parlassero di nuovo.

Ma Maya era rimasta in contatto con la sorella. Quando aveva ottenuto l'emancipazione, Sara aveva impacchettato ciò che poteva trasportare ed era salita su un autobus. Si era diretta in Florida e aveva accettato il primo lavoro che aveva trovato, quello di cassiera in un negozio dell'usato. Lavorava ancora lì. Viveva in una casa in affitto con altre cinque persone. Condivideva la camera da letto con una ragazza di un paio d’anni più grande di lei e un bagno con tutti gli altri.

Maya chiamava sua sorella almeno una volta alla settimana e anche più spesso quando il suo programma lo consentiva. Sara le assicurava di star bene, ma Maya non era sicura di poterci credere. Aveva lasciato il liceo con la certezza che sarebbe tornata, ma non l'aveva mai fatto. In quei giorni Maya non si era preoccupata di cercare di convincerla a tornare; al contrario, l'aveva spinta a sostenere il GED. Era un'altra cosa che Sara aveva promesso di fare. Prima o poi.

Maya viveva all'accademia tutto l'anno e ogni semestre riceveva una borsa di studio per la divisa, i libri, il cibo e tutto il resto. Di solito non le restava molto, ma quando poteva inviava dei soldi a sua sorella. Sara era sempre riconoscente.

Nessuna di loro aveva più bisogno di lui. Non volevano più niente da lui.

Avevano davvero parlato il giorno prima; quella era l'unica verità tra le risposte di Maya. Sara aveva sedici anni e una delle sue coinquiline le stava insegnando a guidare. Maya era addolorata all'idea di perdere dei momenti così importanti della vita di Sara, ma aveva i suoi obiettivi ed era determinata a raggiungerli.

In poche parole, la verità sulla morte della madre e sulle bugie del padre aveva creato un muro non solo tra loro e loro padre, ma anche tra le due ragazze. Erano su percorsi separati, e sebbene potessero rimanere in contatto e aiutarsi a vicenda quando possibile, nessuna si era spinta al punto da scendere a compromessi nella propria vita.

“Qualcuno ne vuole ancora un po'?” Chiese Maria. “Ce n'è ancora molto”.

L'attenzione di Maya tornò al tavolo da pranzo. Si era persa nei suoi pensieri e quando si guardò intorno vide che tutti gli altri avevano finito di mangiare. Posò il cucchiaio. Voleva solo ringraziarli e andarsene da lì. “No grazie. Era molto buono”.

“Davvero”, disse Greg con entusiasmo. “Assolutamente delizioso”. E poi quell'idiota dai capelli biondi aprì nuovamente la sua grande bocca. “Grazie, signora Lawson”.

Un lampo di rabbia la percorse all'istante. Le parole si fecero strada fuori dalla bocca di Maya prima ancora che ci pensasse. “Non è la signora Lawson”.

Maria rimase senza parole. Suo padre continuava a fissarla, ma ora i suoi occhi erano spalancati per la sorpresa e la bocca era leggermente aperta.

Greg si schiarì la voce nervosamente. “Scusa”, mormorò. “Pensavo...”

La sua rabbia non fece che aumentare. “Te l'ho detto mentre venivamo. Se per cinque minuti la smettessi di parlare di te stesso e ascoltassi non avresti bisogno di pensare nulla!”

“Ehi”, ribatté Greg. “Non puoi parlarmi in questo modo...”

“Perché no?” lo sfidò. “Tua madre mi farà qualcosa? Sì, Greg, lo so, è stata sindaco di Baltimora per due anni. Lo dici ad ogni frase. A nessuno frega niente!”

Zero arrossì, ma non disse nulla.

“Maya”. Maria parlò piano, ma con fermezza. “So che sei arrabbiata, ma è stato solo un incidente. Non c'è motivo di essere scortese. Siamo adulti...”

“Oh”. Maya rise nervosamente. “Penso che ci siano tutte le ragioni per essere scortesi. Vuoi che te le elenchi?” Era abbastanza intelligente da sapere cosa stava succedendo, ma abbastanza arrabbiata da non preoccuparsene. La verità era una; era ancora molto arrabbiata con suo padre, nonostante cercasse di negarlo anche a sé stessa. Ma aveva incanalato tutta quell'ostilità e l'ira nello studio e nei suoi obiettivi. In quel momento, senza nulla di tutto ciò e seduta di fronte all'uomo che le aveva causato quel dolore, tutto riaffiorò in superficie. Il suo viso era caldo e il battito del suo cuore aveva raddoppiato il ritmo.

All'improvviso si rese conto di non poter evocare un solo ricordo felice della sua infanzia senza la consapevolezza lancinante che la vita di suo padre, e per estensione gran parte della sua, era una grande bugia avvolta in mille bugie più piccole. La luce più brillante della sua giovane vita, sua madre, era stata crudelmente e freddamente uccisa a causa sua, per mano di un uomo di cui Maya era stata abbastanza sciocca da fidarsi.

E suo padre non solo lo sapeva. Aveva lasciato che quell'uomo, John Watson, se ne andasse.

“Maya”, iniziò suo padre. “Per favore”.

“Tu non hai il diritto di parlare!” sbottò. “È morta per colpa tua!” Sorprese persino sé stessa con l'intensità della sua affermazione, e poi fu di nuovo sorpresa del fatto che suo padre non reagisse con altrettanta rabbia. Invece si rannicchiò, fissando il tavolo come un cucciolo preso a calci.

“Senti, non so cosa stia succedendo qui”, disse dolcemente Greg, “ma penso che toglierò il disturbo...”

Stava per alzarsi, ma Maya gli puntò al volto un dito minaccioso. “Siediti! Tu non vai da nessuna parte”.

Greg si abbassò immediatamente sulla sua sedia come se avesse ricevuto un ordine da un superiore. Maria la guardò con distacco, un sopracciglio leggermente arcuato, come in attesa di vedere come sarebbe andata a finire. Le spalle di suo padre si piegarono e il suo mento quasi toccò la clavicola.

“Maledizione”, mormorò Maya mentre si passava le mani tra i capelli corti. Pensava di aver superato tutto questo, dopo le ondate di emotività, dopo i tentativi di conciliare l'idea di un professore sorridente e umoristico che chiamava papà con un agente segreto che era stato responsabile del trauma che avrebbe portato con sé per il resto della sua vita. Dopo i singhiozzi che non poteva trattenere ogni volta che, cambiandosi, vedeva le sottili cicatrici bianche del messaggio che aveva inciso nella sua stessa gamba, quando pensava che sarebbe morta e aveva usato le sue ultime forze per lasciare un indizio su dove si trovasse la sorella.

Non provare a piangere ora.

“È stato un errore”. Si alzò e si avviò verso la porta. “Non voglio mai più rivedervi”.

Si rese conto di essere troppo arrabbiata per piangere. Almeno quello lo aveva superato.

Maya scivolò al volante dell'auto a noleggio e girò la chiave nel blocchetto di accensione prima che Greg uscisse correndo dietro di lei.

“Maya!” chiamò. “Ehi, aspetta”. Tentò di tirare la maniglia del lato passeggero, ma lei aveva già chiuso a chiave le portiere. “Forza. Fammi entrare”.

Iniziò a fare retromarcia.

“Non è divertente!” Sbatté un palmo sul finestrino. “Come torno a casa?”

“Mi hai parlato tanto di tua madre”, gli urlò attraverso il finestrino chiuso. “Prova a chiamarla”.

E poi se ne andò, mentre Greg, con le mani sulla testa e incredulo, si faceva sempre più piccolo nello specchietto retrovisore. Sapeva che avrebbe vissuto l'inferno in accademia per quello che era successo, ma in quel momento non le importava. Perché quando lasciò la casa di suo padre, le sembrò che un peso si fosse sollevato dalle sue spalle. Era andata lì quel giorno per un senso di responsabilità. Le era sembrato un dovere morale.

Ma si era resa conto che sarebbe stato meglio se non avesse più rivisto loro né quella casa. Stava bene da sola. Non c'era stata una riconciliazione, e mai ci sarebbe stata. Sua madre era morta e ora anche suo padre per lei era morto.

CAPITOLO QUATTRO

Karina Pavlo era seduta nell'angolo più nascosto del bar, dietro i rubinetti della birra ma con una chiara visione dell'ingresso principale. Aveva scelto un posto in cui nessuno avrebbe mai pensato di cercarla, uno squallido bar nel quadrante sud-est di Washington, non lontano da Bellevue. Non era il migliore dei quartieri e il giorno stava rapidamente volgendo al crepuscolo, ma non pensava a ladri o rapinatori. Aveva problemi più grandi.

Inoltre, aveva appena compiuto lei stessa un piccolo furto.

Dopo essere sfuggita all'agente dei servizi segreti ed essersi nascosta per un po' in libreria, Karina si era arrischiata a tornare in strada per meno di un isolato prima di entrare in un grande magazzino. A parte il fatto che era senza scarpe, era ancora ben vestita e, tenendo la testa alta e camminando con sicurezza per evitare controlli, sembrava un'imprenditrice della classe medio-alta.

Si era diretta direttamente al reparto donna e aveva preso alcuni abiti casual dallo scaffale, capi che non avrebbero attirato molta attenzione. Aveva lasciato la gonna, la camicetta e la giacca nel camerino, aveva indossato un paio di scarpe da ginnastica ed era uscita da un altro ingresso del negozio senza dare nell'occhio. Due isolati dopo si era fermata in un altro negozio e, dopo aver fatto finta di guardare i vestiti per alcuni minuti, era uscita con un paio di occhiali da sole e una sciarpa di seta che si era legata intorno ai capelli scuri.

Di nuovo in strada, prese di mira un uomo paffuto in una polo a strisce con una macchina fotografica appesa al collo. Non avrebbe potuto essere più evidente che fosse un turista. Aveva finto di scontrarsi con lui goffamente, scusandosi immediatamente ansimando. Lui aveva aperto la bocca per urlarle qualcosa, ma si era subito accorto che era una bella ragazza mora. Aveva borbottato delle scuse e si era allontanato rapidamente, ignaro del fatto di non avere più con sé il suo portafoglio. Karina era sempre stata veloce con le mani. Non avrebbe mai voluto rubare, ma quello era un momento di necessità.

Il portafoglio conteneva poco meno di cento dollari in contanti. Aveva preso i soldi e aveva lasciato cadere il resto, la carta d'identità, le carte di credito e le foto dei figli, in una grande cassetta per la posta lì vicino.

Alla fine. aveva preso un taxi verso est, dall'altra parte della città, ed era entrata in quel bar dalle finestre scure e pregno dell'odore di birra economica, si era seduta e aveva ordinato una bibita.

La televisione sospesa sopra i rubinetti della birra era accesa e sintonizzata su una stazione di notizie, stava trasmettendo un aggiornamento sui risultati sportivi della sera prima. Sorseggiò la soda, cercando di calmarsi e di riflettere sulle sue prossime mosse. Non poteva tornare in albergo; sarebbe stato un suicidio. Inoltre, non avrebbero trovato altro che vestiti e cosmetici. Aveva un numero di telefono memorizzato, ma non era sicura di voler utilizzare una cabina telefonica. Stavano diventando sempre più rare, anche nelle città. I servizi segreti avevano il suo cellulare e avrebbero potuto facilmente intercettare le chiamate dalle cabine pubbliche.

Aveva pensato di chiedere al barista di usare il suo telefono, ma il contatto che avrebbe dovuto chiamare era un numero internazionale e ciò avrebbe attirato un'indebita attenzione.

 

Quando Karina rivolse nuovamente uno sguardo alla televisione, avevano cambiato argomento. Un uomo stava parlando, e sebbene il volume fosse troppo basso per sentirla, riusciva a vedere chiaramente le parole nella parte inferiore dello schermo: HARRIS E KOZLOVSKY HANNO AVUTO UN INCONTRO PRIVATO.

“Korva” sospirò. Merda. Poi disse in inglese: “Puoi alzare il volume, per favore?”

Il barista, un uomo latino con i baffi a manubrio, la guardò per un momento prima di voltare le spalle per farle capire che non l'avrebbe ascoltata.

“Zalupa” mormorò, un appellativo poco carino in ucraino. Quindi si sporse sul bancone, trovò il telecomando e alzò il volume da sola.

“... una fonte anonima all'interno della Casa Bianca ha confermato che oggi si è svolto un incontro privato tra il presidente Harris e il presidente russo Aleksandr Kozlovsky”, dichiarò il giornalista. “La visita di Kozlovsky agli Stati Uniti era ben nota, ma l'idea di una riunione a porte chiuse tenutasi in una sala conferenze del seminterrato della Casa Bianca ha preoccupato molte persone che ricordano nervosamente gli eventi da quasi un anno e mezzo fa.

In risposta alla fuga di notizia, il segretario stampa ha rilasciato questa dichiarazione: 'Entrambi i presidenti sono stati nell'occhio del ciclone negli ultimi due giorni, in gran parte a causa delle indiscrezioni dei loro predecessori. Il presidente Harris e il suo ospite si sono presi una semplice pausa dalla snervante burocrazia. La riunione in questione è durata meno di dieci minuti e lo scopo era quello di conoscersi meglio, senza la pressione o il controllo dei media. Posso assicurare che non si è svolto alcun programma clandestino. Era semplicemente una conversazione a porte chiuse, e niente di più”, queste le parole del segretario. Interrogato ulteriormente sui dettagli di questo incontro, il segretario stampa ha scherzato: “Non sono al corrente dei dettagli, ma credo che l'incontro riguardasse in gran parte la loro passione per lo scotch e per i bassotti”.

“Sebbene la vera natura dell'incontro rimanga avvolta dal segreto, la nostra fonte anonima ha confermato che nella stanza c'era solo un'altra persona con i due leader: un'interprete. Sebbene la sua identità non sia stata rivelata, si sa che è femmina e originaria della Russia. Ora il mondo vuole sapere: i due leader hanno veramente parlato di alcolici e di cani? O forse questa interprete non identificata ha la risposta a una domanda che molti americani hanno sulla loro...”

La televisione si spense improvvisamente, lo schermo divenne nero. Karina abbassò lo sguardo e vide che il barista latino aveva afferrato il telecomando e aveva spento.

Stava per chiamarlo stronzo in inglese, ma si trattenne. Non c'era motivo di litigare; doveva mantenere un profilo basso. Invece rimuginò su quanto aveva sentito. La Casa Bianca non aveva rivelato la sua identità, almeno non ancora. Volevano trovarla e metterla a tacere prima che potesse raccontare a chiunque ciò che aveva sentito. Ovvero cosa stavano tramando i due presidenti. Ciò che Kozlovsky aveva chiesto al leader americano.

Ma Karina aveva un asso nella manica, o meglio, due. Si accarezzò di nuovo distrattamente gli orecchini di perla. Due anni prima, dopo aver tradotto per un diplomatico tedesco, questi l'aveva accusata di aver frainteso le sue parole. Non era vero, ma così facendo l'aveva quasi messa in guai seri. Quindi, con l'aiuto di sua sorella e dei suoi contatti con la FIS, Karina si era fatta realizzare quegli orecchini. Ciascuno di essi conteneva un minuscolo microfono unidirezionale che registrava costantemente; insieme, i due orecchini combinati avrebbero catturato qualsiasi conversazione interpretata da Karina. Era ovviamente molto illegale, ma anche molto utile, e da quando aveva iniziato a usarli non aveva trovato alcun motivo per aver bisogno delle registrazioni e successivamente le aveva cancellate tutte.

Fino a quel momento. Ogni parola pronunciata tra lei, Harris e Kozlovsky era contenuta in quelle due piccole perle. In quel momento, avrebbe dovuto metterle nelle mani giuste.

Scivolò silenziosamente dallo sgabello e si avviò furtivamente verso il retro del bar, deviando verso il bagno, ma poi uscì da una porta sul retro e si diresse in un vicolo buio.

Per strada, Karina cercava di apparire il più disinvolta possibile, ma in realtà era terrorizzata. Non solo i servizi segreti la stavano cercando, e senza dubbio avrebbero coinvolto la polizia, forse persino l'FBI, ma se Kozlovsky fosse venuto a sapere dell'accaduto, avrebbe mandato anche la sua gente a cercarla.

E peggio ancora, qualsiasi cittadino di John Doe che aveva sentito la notizia avrebbe potuto guardarla due volte e chiedersi se fosse lei. Gli americani non erano i più aperti quando si trattava di stranieri. Fortunatamente era in grado di simulare decentemente l'accento americano. Almeno sperava che fosse passabile; non aveva mai dovuto usarlo in nessuna situazione seria prima di allora. Fino a quel momento era stato sufficiente fingersi russa.

Ho bisogno di un telefono. Non poteva rischiare con un telefono pubblico. Non poteva rubare un telefono; la vittima lo avrebbe denunciato e il servizio segreto avrebbe potuto facilmente rintracciare la posizione del dispositivo e l'ultimo numero chiamato, il che avrebbe messo a rischio anche Veronika.

Pensa, Karina. Si spinse gli occhiali da sole sul naso e si guardò attorno. La risposta era proprio lì di fronte a lei, a mezzo isolato di distanza e dall'altra parte della strada. Si guardò intorno e si diresse verso il negozio di cellulari.

Il negozio era minuscolo, odorava di disinfettante ed era fortemente illuminato da troppe lampade al neon fluorescenti. Il giovane nero dietro il bancone non avrebbe potuto avere più di vent'anni, e stava giocando pigramente con un telefono tra le mani. Non c'era nessun altro nel negozio.

Karina rimase lì per un po' prima che lui la guardasse, con uno sguardo vuoto.

“Si?”

“Avete dei telefoni non rintracciabili?” chiese.

Lui la guardò dall'alto in basso. “Non siamo autorizzati a fornire questo servizio”.

Karina sorrise. “Non è quello che ho chiesto”. Sperava che il suo accento americano non la tradisse. Aveva l'impressione che l'ucraino emergesse di tanto in tanto. “Non sono un poliziotto e non ho un telefono. Voglio usarne uno. Devo effettuare una chiamata su un dispositivo fuori rete tramite Wi-Fi. Preferibilmente tramite una app di terze parti. Qualcosa che non possa essere rintracciato”.

Il ragazzo sbatté le palpebre sbalordito. “Che cosa vuoi dire, devi fare una chiamata?”

Sospirò, cercando di non irritarsi. “Non so come altro dirtelo”. Si sporse sul bancone e abbassò la voce, anche se non c'era nessun altro nel negozio. “Sono nei guai, ok? Ho bisogno di cinque minuti con il tipo di telefono che ho appena descritto. Posso pagarti. Puoi aiutarmi o no?”

Lui la guardò con sospetto. “In che tipo di problemi ti trovi? Con la polizia?”

“Peggio ancora”, disse lei. “Senti, se fosse il tipo di cosa da poter raccontare, pensi che sarei qui?”

Il ragazzino annuì lentamente. “Va bene. Ho quello che ti serve. E puoi usarlo. Cinque minuti... cinquanta dollari”.

Karina sbottò. “Cinquanta dollari per una chiamata di cinque minuti?”

L'impiegato si strinse nelle spalle. “Oppure puoi provare altrove”.

“D'accordo”. Prese la mazzetta di denaro che aveva rubato al turista, contò cinquanta dollari e glieli passò”. “Ecco fatto. Il telefono?”

Il ragazzo frugò sotto il bancone e tirò fuori un iPhone. Aveva qualche anno, un angolo dello schermo era rotto, ma si accendeva. “Questo qui è fuori rete e ha un'applicazione di chiamata cinese”, le disse. “Ti reindirizza a un numero fuori servizio random”. Lo fece scivolare verso di lei. “Cinque minuti”.