Il Nostro Sacro Onore

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CAPITOLO SEI

12 dicembre

13:40 ora di Israele (6:40 ora della costa orientale)

Tel Aviv, Israele

Le notizie erano brutte.

La giovane sedeva sulla panchina del parco a badare ai suoi gemelli, un maschio e una femmina, che giocavano sulle altalene. Nei dintorni c’era il condominio marrone chiaro, alto sedici piani, dove viveva. Oggi non c’era nessuno in giro, il parco era quasi vuoto.

Era inusuale per un primo pomeriggio di primavera, ma non sorprendente date le circostanze. La maggior parte del paese sembrava trovarsi all’interno da qualche parte, incollato alla tv e ai computer.

La sera precedente Daria Shalit, una soldata di diciannove anni delle forze di difesa israeliane, era scomparsa dopo una schermaglia con terroristi di Hezbollah che avevano condotto un attacco a sorpresa lungo il confine settentrionale. Gli altri sette soldati della pattuglia – tutti uomini – erano morti in combattimento. Ma Daria no. Daria era solo scomparsa.

Le truppe delle IDF avevano seguito i terroristi fino in Libano. Nel combattimento svoltosi lì, erano morti altri quattro israeliani. Undici giovani uomini – la crema della gioventù israeliana – tutti morti nel giro di un’ora. Ma non era questo a consumare il paese.

Il destino di Daria era diventato da un giorno all’altro un’ossessione. Chiudendo gli occhi, la donna riusciva a vedere il bel viso di Daria e gli scuri occhi in fiamme, a sorridere mentre faceva la buffona con una mitragliatrice, a sorridere mentre posava con gli amici in bikini su una spiaggia mediterranea, a sorridere mentre riceveva il diploma superiore. Così bella e sempre raggiante, come se avesse il futuro assicurato, una promessa che era sicura di ricevere.

Adesso gli occhi li chiuse davvero, e lasciò che le lacrime le rigassero le guance. Si portò una mano alla faccia, sperando che i bambini non la vedessero piangere. Aveva il cuore spezzato per una ragazza che non aveva mai incontrato, ma che in qualche modo conosceva bene come se fosse stata sua sorella.

I quotidiani chiedevano a gran voce sangue, richiedendo la completa distruzione del popolo libanese. Nel corso della notte c’erano state violente discussioni nella Knesset, perché il governo presentava minacce, chiedeva il rilascio della ragazza, ma non prendeva un’azione immediata. Stava crescendo una rabbia pronta a esplodere.

Ore fa, era cominciato il bombardamento.

Jet israeliani colpivano il Libano meridionale, la roccaforte di Hezbollah, fino a nord, a Beirut. Ogni volta che l’annuncio passava in tv, i vicini della donna eruttavano in urla ed esaltazioni.

“Uccideteli tutti!” gridava un uomo in qualcosa che pareva trionfo, ma che ovviamente non poteva esserlo. La voce roca era chiara attraverso i muri sottili come carta. “Uccideteli tutti, uno per uno!”

La donna dopo aveva portato fuori i bambini.

Ora sedeva al parco, a piangere silenziosamente, consentendosi di sfogarsi, di buttar fuori, il tutto mentre le orecchie si sintonizzavano cautamente sulle urla e i richiami dei suoi due bambini. I suoi figli, innocenti, sarebbero diventati adulti circondati da nemici che sarebbero stati contenti di vederli con la gola tagliata a morire lentamente di stenti.

“Cosa dobbiamo fare?” sussurrò la donna. “Cosa dobbiamo fare?”

La risposta giunse nella forma di un nuovo suono, all’inizio basso e lontano, che si mescolava con i rumori dei bambini. Presto si fece più vicino e più forte, poi forte e basta. Era un rumore che conosceva fin troppo bene.

Sirene antiaeree.

Sgranò gli occhi.

I bambini avevano smesso di giocare. La guardavano oltre il parco. Le sirene adesso erano forti.

FORTI.

“Mamma!”

Saltò giù dalla panchina e corse verso i bambini. C’era un rifugio antiaereo sotto al condominio – a un quarto di chilometro di distanza.

“Correte!” gridò. “Correte al condominio!”

I bambini non si mossero. Si precipitò da loro e li prese tra le braccia. Poi corse con loro aggrappati a lei, ciascuno a un braccio. Per qualche istante non riconobbe la sua stessa forza. Si fiondò sul manto stradale con quei due preziosi pacchi, che ora piangevano, attorno a loro le sirene, sempre più forti.

Il respiro le risuonava stridulo nelle orecchie.

L’edificio incombeva, sempre più grande e vicino. Ovunque, gente fino a poco prima invisibile correva all’edificio.

D’un tratto giunse un altro rumore – un rumore così forte, così acuto, che la donna pensò che le si sarebbero perforati i timpani. Alzò lo sguardo su un missile che sfrecciava in cielo, proveniente da nord. Si schiantò contro ai piani alti del condominio.

Dall’impatto, le si scosse la terra sotto i piedi. Il mondo parve girarle intorno, anche quando la cima dell’edificio saltò in una massiccia esplosione, muratura di cemento che volava in aria. Quante persone c’erano in quelle stanze? Quanti morti?

Perse l’equilibrio e cadde, mandando i due figli a terra. Strisciò sopra di loro, coprendoli con il proprio corpo appena prima che arrivasse l’onda d’urto. Poi piovve una grandine di detriti dall’esplosione, minuscoli e taglienti ciottoli e frammenti, polvere soffocante, i resti dei vecchi e degli infermi che non erano riusciti a lasciare l’appartamento in tempo.

Le sirene non si fermarono. Giunse l’assordante stridio di un altro missile, che volò sopra la loro testa, seguito dallo scoppio e dal rimbombo quando trovò l’obiettivo, poco lontano.

Ancora e ancora e ancora infuriavano le sirene.

Un altro stridio di missile venne a crescere. Le fischiò nelle orecchie. La venne la pelle d’oca. Si avvicinò ancor di più i figli. Il rumore era troppo forte. Non aveva più senso. Andava oltre l’udito, mostruoso oltre la comprensione umana – davanti a tutto ciò, il suo sistema si spense.

La donna urlava in coppia col missile, ma lei pareva non emettere alcun suono. Non riusciva ad alzare lo sguardo. Non riusciva a muoversi. Ne sentiva l’ombra sopra di sé, a offuscare la luce del giorno.

Poi la colse una nuova luce, una luce accecante.

E dopo, l’oscurità.

CAPITOLO SETTE

6:50 ora della costa orientale

Residenza della Casa Bianca

Washington DC

La luce del mattino si diffondeva dalle tendine, ma Luke non aveva voglia di alzarsi. Giaceva sulla schiena sul lettone, la testa sostenuta da cuscini.

Susan era distesa accanto a lui sotto le lenzuola, la presidente degli Stati Uniti, la testa a riposargli sul petto, i corti capelli biondi sciolti sulla pelle nuda di lui. Si accorse di qualche puntino grigio che il suo acconciatore aveva saltato. O forse era stato fatto di proposito – su un uomo un po’ di grigio indicava esperienza, serietà, solennità.

Lei respirava profondamente.

“Sei sveglia?” le sussurrò.

Sentì il sorriso contro al suo corpo. “Ma certo, sciocchino. Sono sveglia da più di un’ora.”

“A che cosa pensi?” disse lui.

“Tu a che cosa pensi? Questa è la domanda importante.”

“Be’, sono preoccupato.”

Si tirò su sui gomiti, si voltò e lo guardò. Come sempre, lui era meravigliato dalla sua bellezza. Aveva gli occhi azzurro chiaro, e nel volto le vedeva la donna che più di vent’anni prima appariva sulle copertine delle riviste. Stava ringiovanendo, tornando a quei tempi. Lo avrebbe quasi giurato – nel breve periodo in cui erano stati insieme, lei era sembrava farsi un po’ più giovane quasi ogni giorno.

Fece un mezzo sorriso e gli occhi le si strinsero sospettosi. “Luke Stone è preoccupato? L’uomo che fa fuori reti terroristiche con una manata? L’uomo che rovescia sovrani dispotici e allo stesso modo ferma assassini di massa, e tutto prima di colazione? Di che cosa potrà mai essere preoccupato Luke Stone?”

Lui scosse la testa e sorrise, nonostante tutto. “Basta così.”

A dire la verità, era più che preoccupato. Le cose si stavano complicando. Si era impegnato a ricostruire il rapporto con Gunner. Stava andando bene – meglio di quanto avesse potuto sperare – ma i nonni di Gunner avevano ancora la custodia. Luke stava cominciando a pensare che fosse meglio così. Una prolungata battaglia per la custodia contro i benestanti genitori carichi di odio di Becca – sarebbe stata lunga, prolissa, e brutta. E che cosa avrebbe vinto? Luke giocava ancora alla spia. Se si fosse trasferito da lui, Gunner sarebbe finito col trascorrere molto tempo da solo. Nessuna guida, nessuna supervisione – sembrava una situazione schifosa.

Poi c’era la faccenda Susan. Era la presidente degli Stati Uniti. Aveva una famiglia sua e, tecnicamente, era ancora sposata. Il marito, Pierre, sapeva di Luke, e apparentemente era felice per loro. Ma con chiunque altro stavano mantenendo il segreto.

Chi voleva prendere in giro? Non mantenevano nessun segreto.

La squadra di sicurezza di Susan sapeva di lui – era il loro lavoro, sapere cose. E ciò significava che si trattava già di una diffusa e crescente voce all’interno dei servizi. Superava la sicurezza per entrare lì a tarda notte, due, a volte tre notti alla settimana. Oppure entrava come ospite nel pomeriggio, ma non usciva più. La gente che monitorava la videosorveglianza lo vedeva entrare e lasciare la residenza, e prendeva nota degli orari. Il cuoco lo sapeva, di cucinare per due, e le cameriere che portavano fuori i piatti erano due robuste anziane che gli sorridevano, e che scambiavano con lui qualche battuta, e che lo chiamavano “signor Luke”.

Il capo di gabinetto di Susan lo sapeva, il che significava che probabilmente lo sapeva anche Kurt Kimball, e Dio solo sapeva da lì dov’era arrivata la notizia.

 

Ogni singola persona che già sapeva di lui aveva famiglia, amici e conoscenti. Avevano un locale preferito per la colazione presto, o banconi per il pranzo, o bar dove intrattenevano gli avventori abituali con narrazioni della vita all’interno della Casa Bianca.

La domanda di ieri della giornalista indicava che la voce era già uscita dalla scatola. Erano a una sola fuga di notizie, a una sola telefonata da parte di un seccato membro dello staff del Washington Post o della CNN, da un conclamato circo mediatico ventiquattr’ore su ventiquattro sette giorni su sette.

Luke quella roba non la voleva. Non voleva che Gunner finisse sulla ribalta. Non voleva che il ragazzo finisse sotto custodia dei servizi segreti ovunque andasse. Non voleva che i media lo seguissero o che lo sorvegliassero fuori dalla scuola.

Luke non voleva neanche quelle attenzioni su di sé. Era meglio per il suo lavoro che rimanesse nell’oscurità. Aveva bisogno di libertà per operare, sia per lui che per la sua squadra.

E non voleva quelle attenzioni su Susan. Non lo voleva per la loro relazione. Le cose al momento erano passionali, ma non riusciva a immaginare che la cosa durasse sotto costante scrutinio dei media.

Era impossibile sollevare quei problemi con lei. Lei era un’irreprensibile ottimista, era comunque già sotto lo sguardo dei media, e viaggiava a mille per le endorfine. La sua risposta era sempre una qualche variazione di, “Oh, risolveremo la cosa.”

“Che cosa ti preoccupa, signor Luke?” disse adesso Susan.

“Sono preoccupato…” cominciò. Scosse di nuovo la testa. “Sono preoccupato di essere sul punto di innamorarmi.”

Il sorriso da mille watt di Susan illuminò la stanza. “Lo so,” disse. “Non è fantastico?”

Lo baciò profondamente, poi saltò giù dal letto come una ragazzina. Lui la osservò camminare con calma per la stanza, nuda, per andare all’armadio. Aveva ancora il corpo di una ragazzina.

Quasi.

“Voglio farti conoscere le mie figlie,” disse. “La prossima settimana vengono in città per Natale.”

“Ottimo,” disse lui. Il pensiero gli fece fare allo stomaco un pigro mulinello. “Chi dovremmo dire che sono?”

“Lo sanno chi sei. Sei il supereroe. James Bond senza la rasatura perfetta né il completo elegante. Cioè, solo qualche anno fa hai salvato la vita a Michaela.”

“Non siamo mai stati presentati adeguatamente.”

“È lo stesso. Sei come uno zio per loro.”

Proprio allora, il telefono sul comodino cominciò a squillare. Faceva un rumore buffo, non tanto uno squillo quanto un ronzio, o un mormorio. Sembrava un monaco con un brutto raffreddore che cantava in meditazione. In più, si accendeva di azzurro a ogni squillo. Luke lo odiava, quel telefono.

“Vuoi che risponda io?” le disse.

Lei sorrise e scosse la testa. Adesso la osservò riattraversare la stanza, stavolta più veloce. Per un breve istante, immaginò un altro mondo, un mondo in cui non facevano quei lavori. Diavolo, magari persino un mondo in cui erano entrambi disoccupati. In quel mondo, lei poteva risalire subito nel letto con lui.

Susan raccolse il telefono. “Buongiorno.”

Il volto le cambiò mentre ascoltava la voce all’altro capo della linea. Ne uscì tutto il divertimento. La luce negli occhi sbiadì, e il sorriso crollò. Fece un respiro profondo e lasciò uscire un lungo sospiro.

“Ok,” disse. “Scendo tra quindici minuti.”

Riappese.

“Guai?” disse Luke.

Lo guardò, gli occhi che mostravano una cosa – vulnerabilità, forse – che alla tv le masse non vedevano mai.

“Quand’è che non ci sono guai?” gli disse.

CAPITOLO OTTO

7:30 ora della costa orientale

Sala operativa

Casa bianca, Washington DC

L’ascensore si aprì e Luke entrò nella sala operativa a forma di uovo.

Il grosso Kurt Kimball si trovava in fondo alla stanza, in piedi, la testa calva che splendeva, e scorse subito Luke. Kurt di solito teneva quelle riunioni con mano di ferro. Aveva una tale profonda, agevole ed enciclopedica padronanza delle cose del mondo, che la gente tendeva a seguire la sua guida.

“Agente Stone,” disse. “Sono contento che si sia potuto unire a noi a quest’ora.”

C’era un sottotesto, sarcasmo persino, nell’affermazione? Luke decise di lasciar perdere.

Scrollò le spalle. “Mi ha chiamato la presidente. Sono arrivato appena ho potuto.”

Guardò la stanza.

Ultramoderno, il luogo era molto più che una sala conferenze – era organizzato per il massimo utilizzo dello spazio, con grandi schermi incassati nelle pareti ogni sessanta centimetri, e un gigantesco schermo di proiezione sulla parete in fondo al tavolo. Sulla tavola, tablet e sottili microfoni che sorgevano da degli slot – potevano essere reinseriti al loro posto se il partecipante desiderava utilizzare il proprio dispositivo.

Ogni lussuosa poltrona in pelle della tavola era occupata – qualche uniforme militare, molte giacche con cravatta. La maggior parte della gente era di mezza età e sovrappeso – tipi da carriera nel governo che trascorrevano molto tempo seduti su comode poltrone e a pranzo. Quelle poltrone sembravano tutte la sedia del capitano del modulo di comando di una nave spaziale che attraversava la galassia. Braccioli grossi, pelle profonda, alti schienali, supporto per le lombari corretto ergonomicamente.

I posti lungo le pareti – sedie di lino rosso più piccole con schienali più bassi – erano occupati da assistenti giovani e ancora più giovani, per lo più che bevevano rumorosamente tazze di caffè Styrofoam digitando messaggi nei tablet o mormorando al telefono.

Susan sedeva su una sedia in pelle sul margine più vicino della tavola oblunga. Indossava un gessato azzurro. Teneva la gamba destra incrociata sulla sinistra, e si sporgeva in avanti per sentire quello che le stava dicendo un giovane assistente. Luke cercava di non fissarla.

Dopo un attimo, alzò lo sguardo e gli fece un cenno.

“Agente Stone,” disse. “Grazie di essere venuto.”

Luke annuì. “Signora presidente. Si figuri.”

Kurt batté le grosse mani, come se l’entrata di Luke fosse stato il segnale che aspettava. Il suono parve un pesante libro che cadeva su pavimento in pietra. “Ordine, tutti! All’ordine, per favore.”

La stanza si fece silenziosa. Quasi. Un paio di militari alla tavola da conferenze continuarono a parlare l’uno con l’altro, le teste vicine.

Kurt batté le mani di nuovo.

CLAP. CLAP.

Lo guardarono entrambi. Sollevò le mani come a dire, “Avete finito?”

Nella stanza finalmente scese un silenzio di morte.

Kurt fece un cenno verso una giovane seduta alla sua sinistra. Luke l’aveva già vista, diverse volte. Era l’indispensabile assistente di Kurt, praticamente una sua appendice. Aveva i capelli ramati tagliati in un corto caschetto come quelli di Susan – i caschetti corti come quello di Susan erano all’ultimo grido tra le giovani donne, ultimamente. Editor di riviste e programmi di notizie fuffa non si erano esattamente lasciati sfuggire la cosa. I critici cui piaceva lo chiamavano Caschetto alla Hopkins, quelli cui non piaceva Elmo alla Hopkins. Sembravano tutti essere d’accordo su come chiamare le donne che si facevano fare i capelli così, comunque.

L’Esercito di Susan.

A Luke questa piaceva. Lui il caschetto non ce l’aveva, ma immaginava di far parte anche lui dell’esercito di Susan.

“Amy, vediamo,” disse Kurt. “Israele e Libano, per piacere.”

Sullo schermo, per il Libano meridionale e a nord fino al margine meridionale di Beirut, cominciarono ad apparire delle icone azzurre e gialle che rappresentavano esplosioni, esplosioni che si facevano più rade a mano a mano che si saliva verso nord.

“Ore fa, la forza aerea israeliana ha cominciato una campagna di bombardamenti attaccando i sistemi di tunnel e le fortificazioni di Hezbollah lungo la Linea Blu, così come i quartieri dominati da Hezbollah della Beirut meridionale. Nessuna sorpresa; in effetti ieri notte la notizia ci è stata telegrafata dal governo di Yonatan Stern.”

Sullo schermo cominciarono ad apparire per tutta Israele delle grosse icone rosse della stessa forma di quelle di prima. Potevano essercene in tutto quindici. Un attimo dopo, delle icone rosse più piccole, minuscoli starburst, cominciarono ad apparire nel nord di Israele. Ce n’erano a dozzine.

“Poco dopo l’attacco aereo di Israele, Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi missilistici all’interno di Israele. Non è straordinario, soprattutto in occasione di scambio di fuoco tra le due forze. La guerra del 2006 ha seguito più o meno la stessa traiettoria. Ma è sorto un problema. Negli anni intercorrenti, Hezbollah ha ottenuto una maggiore potenza di fuoco.”

Apparve la foto di un grosso missile su una rampa di lancio mobile.

“Questo è il missile Fateh-200. Si tratta di un sistema d’arma di costruzione iraniana, missili a lungo raggio con testate multiple che ammassano una potente energia. Lanciati dall’interno del Libano, possono raggiungere quasi ogni punto di Israele, tranne forse lo scarsamente popolato deserto del Negev del sud. Ha funzionalità di controllo e guida sofisticate che per la prima volta danno a Hezbollah la capacità di un colpo di precisione.”

Kurt fece una pausa. “A quel che possiamo raccogliere, adesso pare che Hezbollah abbia ottenuto il Fateh-200. Crediamo che finora abbiano lanciato ovunque dai venti ai trenta missili, ognuno con almeno una dozzina di testate. Hanno puntato infrastrutture civili e militari in centri popolati in tutta Israele, inclusi Tel Aviv, il margine occidentale di Gerusalemme e il centro di Haifa, tra gli altri. Il sistema di difesa missilistica a medio raggio di Israele, noto come Fionda di Davide, forse ne ha abbattuti la metà o i due terzi dal cielo. Ma non è bastato.

“Sono stati colpiti molti quartieri civili e distrutti molti edifici. Una testata è atterrata a mezzo miglio dalla Knesset, il congresso israeliano, mentre era in sessione.”

“Quali sono le vittime attuali?” disse Haley Lawrence, il segretario della Difesa.

“Finora, tutto ciò che abbiamo sono le cifre ufficiali rilasciate. Più di quattrocento civili uccisi, migliaia feriti, in mezzo a distruzione e panico estesi. Non è stata rilasciata alcuna cifra sulle vittime militari, ma gli israeliani si sono mobilitati per la guerra totale, chiamando in servizio tutti i riservisti e i veterani di guerre precedenti non disabili. Hanno intensificato drammaticamente la campagna di bombardamenti nel Libano, probabilmente nel tentativo di distruggere qualsiasi altro Fateh-200 prima del lancio.”

“Funziona?” disse Luke, conoscendo già la risposta.

Kurt scosse la testa. “Non lo sappiamo. Ne dubitiamo. Mentre noi parliamo, Hezbollah sta ancora lanciando piccoli missili e razzi senza guida nel nord di Israele, dimostrando che la loro capacità di risposta persiste. Crediamo che stiano conservando i Fateh-200 per il futuro, ma che continueranno i lanci secondo un programma da loro scelto.

“Israele biasima pubblicamente gli iraniani per aver fornito a Hezbollah i nuovi missili. In tutta probabilità, è una stima accurata. Hezbollah è un burattino dell’Iran. Trenta minuti fa Israele ha minacciato di attaccare l’Iran se un altro Fateh-200 o un missile simile viene lanciato in territorio israeliano.”

Kurt fece una pausa. “Dieci minuti fa, l’Iran ha informato gli israeliani che controbatteranno a ogni attacco israeliano lanciando armi nucleari. Nella stessa dichiarazione, hanno indicato che qualsiasi attacco israeliano sarà ragione perché l’Iran lanci armi nucleari alla base aerea americana di Doha, nel Qatar, così come alla grande ambasciata americana di Bagdad.”

Nella stanza scese un silenzio di morte per molti secondi. Luke, in piedi in un angolo, osservava gli sguardi sui loro volti. Molti arrossirono, come se fossero imbarazzati. Altri fissavano con occhi sgranati e le bocce leggermente aperte.

“L’Iran non ha armi nucleari,” disse qualcuno. “Non possono averle.”

Kurt scosse la testa. “Ogni accordo e trattato internazionale afferma che l’Iran non è uno stato con armi nucleari, e che gli è proibito diventarlo. Ma ciò non significa che non abbiano acquisito armi nucleari. Amy, dacci l’Iran, per favore.”

Sullo schermo apparve una nuova mappa – l’Iran. La mappa diede a Luke la sensazione di affondare. C’era stato, in Iran. Non era il suo posto preferito.

 

“Lo Stato Islamico dell’Iran è una teocrazia musulmana sciita. Sappiamo che covano l’ambizione di acquisire armi nucleari almeno dalla rivoluzione islamica del 1979.”

“Ma se avessero testato un’arma nucleare,” disse Susan, “noi lo avremmo saputo.” Era la prima volta che parlava dall’inizio della riunione.

“Bello, se fosse vero,” disse Kurt. “Ovunque nel mondo proliferano strutture di collaudo situate nelle profondità della terra – difficilissime da trovare e mappare. Sistemi avanzati di rilevamento radioattivo possono dar conto delle radiazioni rilasciate nell’atmosfera, fino a pochissime quantità. Possiamo combinare questo con la nostra capacità di misurare la forza e la direzione dei venti dominanti, e determinare con una certa accuratezza da dove proviene la radiazione. Ma quando dico con una certa accuratezza, quello che voglio dire è nel raggio di molte centinaia di miglia. Data la prossimità dell’Iran al Pakistan – noto e accettato stato con armi nucleari – è difficile individuare la fonte di una radiazione e dire con certezza che si tratta dell’Iran.”

“Ma quei test presentano alterazioni sismiche,” disse Susan. “Praticamente sono come terremoti.”

Kurt annuì. “Ed è questo a rendere l’Iran doppiamente gravoso. È uno dei posti più sismicamente attivi del pianeta. Lì i terremoti sono comuni, e di frequente devastanti. Il disastro più recente è occorso nel 2003, quando un terremoto di magnitudine 6.6 ha ucciso almeno ventitremila persone nella città di Bam. Ma disastro a parte, in Iran l’attività sismica è quasi costante. La monitoriamo su base quotidiana. Tendere l’orecchio in cerca di un rimbombo sotterraneo in Iran è come tendere l’orecchio in cerca delle acque che si infrangono sulla spiaggia. Succede di continuo.”

“Cosa stai dicendo, Kurt?” disse Susan. “Dillo e basta.”

“L’Iran potrebbe costruire e testare armi nucleari,” disse Kurt. “E noi potremmo non scoprirlo.”

Istantaneamente, a Luke venne in mente un’idea. Era solo una, tra quelle cose. C’è una domanda, e la testa ti consegna la risposta. La risposta non ti deve piacere per forza, ma eccotela davanti.

“Perché non ci mandiamo una squadra di infiltrazione sotto copertura?” disse. “Potrebbero entrare e scoprire se si tratta di un bluff oppure no. Se non è un bluff, scoprono l’ubicazione delle testate nucleari e chiamano un raid aereo.”

In effetti, non aveva riflettuto bene sull’interno piano, ma una volta detto ad alta voce, riusciva a vederne la saggezza.

“Non abbiamo le persone adatte necessarie per uno schieramento del genere,” disse un uomo in uniforme. “Ci vorrebbero settimane o persino mesi…”

“Generale, devo dissentire,” disse Luke. “Ce le abbiamo, le persone adatte. La mia organizzazione, lo Special Response Team, è pronta.”