Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2

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NON CHIEDERTI CHE COSA IL TUO PAESE PUO’ FARE PER TE…

“La pistola che Martinez ha usato per uccidersi aveva la frase La forza crea il diritto incisa sul calcio. Il Bureau ha fatto risalire l’arma a due omicidi in stile esecuzione collegati alle guerre per la droga a Baltimora. Uno era l’assassinio e la tortura di Jamie “Il Padrino” Young, l’ex capo dei Sandtown Blood.”

MA CHE COSA PUOI FARE TU PER IL TUO PAESE.

Murphy scrollò le spalle. “Tutti questi soprannomi. Il Padrino, Cadillac. Deve essere dura tenerli a mente.”

Luke continuò. “Chissà come, quella pistola ha lasciato Baltimora ed è finita nel North Carolina, nella stanza d’ospedale di Martinez.”

L’altro uomo riportò lo sguardo su di lui. I suoi occhi erano piatti e morti, come quelli di un assassino. Murphy non aveva ucciso un solo uomo nella sua vita, ne aveva ammazzati a centinaia.

“Perché non arrivi al punto, Stone? Di’ che cosa hai in mente, invece di raccontarmi una favola per bambini su signori della droga e ladri.”

Luke era tanto arrabbiato che avrebbe potuto prenderlo a pugni. Era stanco. Era irritato. Era affranto dalla morte di Martinez.

“Sapevi che Martinez voleva uccidersi…” iniziò.

Murphy non esitò. “Lo hai ammazzato tu,” ribatté. “Hai ammazzato l’intera squadra. Tu, Luke Stone. Hai ammazzato tutti. Ero lì, ricordi? Hai accettato una missione che sapevi essere impossibile perché non volevi revocare l’ordine di un pazzo con un desiderio di morte. Ed è stato solo per… cosa? Fare carriera?”

“Gli hai dato la pistola,” lo interruppe Luke.

Lui scosse la testa. “Martinez è morto quella notte sulla collina. Come tutti gli altri. Ma il suo corpo era troppo forte per rendersene conto, quindi ha avuto bisogno di una spinta.”

Si fissarono per un lungo momento. Per un istante, nella sua mente, Luke fu di nuovo nella stanza d’ospedale di Martinez. Le gambe dell’uomo erano state maciullate e salvarle era stato impossibile. Gliene avevano amputata una sotto il bacino, e l’altra al ginocchio. Aveva ancora l’uso delle braccia, ma era paralizzato dalla cassa toracica in giù. Era un incubo.

Sul suo volto erano colate lacrime. Stava colpendo il letto con i pugni.

“Ti avevo detto di uccidermi,” stava dicendo a denti stretti. “Ti avevo detto… di… uccidermi. E ora guarda questo… questo casino.”

Luke lo aveva fissato. “Non potevo farlo. Sei mio amico.”

“Non dirlo!” aveva esclamato Martinez. “Non sono tuo amico.”

Allontanò quel ricordo. Ritornò su una collina verde ad Arlington, in un assolato giorno di inizio estate. Era vivo e stava per lo più bene. E Murphy era ancora lì, a fargli la sua versione di una ramanzina. E Luke non la voleva sentire.

Erano circondati da una folla, persone intente ad ammirare la fiamma di Kennedy e a mormorare a bassa voce.

“Come al solito,” stava dicendo l’altro uomo, “Luke Stone ha fallito ma è stato promosso. Ora lavora per il suo vecchio ufficiale in comando in un’agenzia di spionaggio civile super segreta. Hanno dei bei giocattoli lì, Stone? Certo che sì, se la gestisce Don Morris. Ci sono segretarie carine? Auto veloci? Elicotteri neri? È come stare in una serie televisiva, non è vero?”

Lui scosse la testa. Era il momento di cambiare argomento.

“Murphy, da quando hai disertato hai commesso una serie di rapine a mano armata nelle città del nord-est. Hai preso di mira membri di gang e spacciatori di droga, dato che sai che hanno addosso grandi quantità di contanti e che non sporgono denuncia…”

Senza preavviso l’ex commilitone gli sferrò un pugno. Si mosse come un pistone, e atterrò in faccia a Luke appena sotto un occhio, facendogli scattare la testa all’indietro.

“Stai zitto,” gli ordinò. “Parli troppo.”

Luke barcollò e crollò contro un turista alle sue spalle. Lì vicino qualcuno ansimò. Fu un suono rumoroso, simile a una pompa idraulica.

Poi fece diversi passi all’indietro, spintonando varie persone. Per un istante provò una sensazione familiare di stordimento. Scosse la testa per allontanare la confusione. Murphy lo aveva colpito bene.

E non aveva ancora finito. Stava avanzando di nuovo.

La gente gli corse accanto su entrambi i lati, cercando di allontanarsi dal combattimento. Una donna sovrappeso, ben vestita in un completo beige con la gonna, cadde sulle lastre di pietra tra Murphy e Luke. Due uomini corsero ad aiutarla. Dall’altra parte della pila di persone, Murphy agitò la testa per la frustrazione.

A destra di Luke c’era la bassa barriera che separava i visitatori dalla fiamma eterna. La oltrepassò per uscire all’aperto sulla pavimentazione di pietra. Il suo avversario lo seguì. Luke si tolse la giacca del completo, rivelando la fondina da spalla e la pistola di servizio al di sotto. Qualcuno gridò.

“Una pistola! Ha una pistola!”

L’altro uomo la indicò con un sorrisetto. “Che cosa hai intenzione di fare, Stone? Vuoi spararmi?”

La folla scese di corsa dalla collina, in un esodo d’umanità.

Lui si slacciò la fondina e la lasciò cadere a terra. Si mosse verso destra, tenendo la fiamma eterna della tomba di John F. Kennedy proprio alle sue spalle e le lapidi piatte della sua famiglia di fronte. In lontananza vedeva il monumento a Washington.

“Sei sicuro di volerlo fare?” gli chiese.

Murphy oltrepassò una delle lapidi dei Kennedy.

“Non c’è niente che desideri di più.”

Luke alzò le mani e puntò lo sguardo sul suo avversario. Tutto il restò svanì. Vedeva l’altro uomo come se fosse stato avvolto da una strana luce, o sotto un riflettore. Murphy aveva le braccia più lunghe, ma lui era più forte.

Gli fece segno con le dita della mano destra.

“Allora fatti sotto.”

Murphy l’aggredì. Finse un gancio sinistro, ma poi gli sferrò un colpo con la destra. Luke lo evitò e si scagliò in avanti con il pugno destro. L’altro glielo allontanò con uno spintone. Ormai erano vicini, proprio come aveva progettato Luke.

All’improvviso si afferrarono a vicenda. Luke gli fece perdere l’equilibrio con un calcio e lo sollevò per aria per poi sbatterlo a terra con un tonfo. Avvertì l’impatto del suo corpo. Le lastre di pietra vibrarono per la violenza dell’urto. La testa dell’altro uomo rimbalzò contro la piattaforma ruvida che ospitava la fiamma di Kennedy.

La maggior parte degli uomini non si sarebbe rialzata. Ma non Murphy. Non un Delta.

Spinse in avanti di nuovo la mano destra. Graffiò il volto di Luke, cercando di trovare i suoi occhi, ma lui gettò la testa all’indietro.

Poi Murphy attaccò con la sinistra, chiusa in un pugno. Gli colpì un lato della testa, facendogli fischiare le orecchie.

Dopo toccò ancora alla destra. Luke la bloccò, ma l’altro si stava già alzando da terra. Gli si gettò addosso ed entrambi caddero a terra all’indietro. Murphy gli era sopra. Il contenitore metallico che conteneva la fiamma, alto quindici centimetri, era appena alla destra di Luke.

Il vento soffiò la lingua di fuoco verso di loro. Lui ne sentì il calore.

Con tutta la sua forza afferrò l’avversario e lo roteò alla sua destra. La schiena dell’uomo colpì la fiamma eterna. Il fuoco gli divampò attorno ed entrambi ci rotolarono sopra. Luke atterrò sul fianco sinistro e usò la spinta per continuare a rotolarsi.

Salì sopra Murphy e gli afferrò la testa tra entrambe le mani.

L’altro gli sferrò un pugno in faccia.

Non ebbe un gran effetto e Luke reagì sbattendogli il cranio sul cemento.

L’ex commilitone cercò di spingerlo via.

Luke gli scaraventò di nuovo la testa a terra.

“FERMI!” gridò una voce profonda e roca.

La canna di una pistola si premette alla tempia di Luke. Lo colpì forte. Con la coda dell’occhio, vide due grandi mani nere strette attorno all’arma, e dietro un’uniforme blu.

Subito alzò le braccia per aria.

“Polizia,” si qualificò la voce, con un po’ più di calma.

“Signore, sono l’agente Luke Stone dell’FBI. Il mio distintivo è nella giacca laggiù.”

Apparvero altre uniformi blu. Lo circondarono, strappandolo da Murphy. Lo spinsero a terra e lo tennero a faccia in giù contro le pietre. Lui si accasciò il più possibile per non offrire alcuna resistenza. Diverse mani lo tastarono per perquisirlo.

Guardò Murphy. Stava subendo lo stesso trattamento.

Spero che tu non abbia un’arma, pensò.

Dopo un istante lo lasciarono alzare in piedi. Si guardò attorno. C’erano dieci agenti di polizia attorno a loro. Poco più in là si profilava una figura familiare. Big Ed Newsam, che li teneva d’occhio da una modesta distanza.

Un poliziotto gli tese la giacca, la fondina e il distintivo.

“Okay, agente Stone, che problema abbiamo qui?”

“Nessuno.”

L’agente indicò Murphy, che era seduto sulle lastre di pietra, con le braccia strette attorno alle ginocchia. Aveva ancora lo sguardo annebbiato, ma stava tornando in sé.

“Chi è quel tizio?”

Luke sospirò e scosse la testa. “È un mio amico. Un vecchio commilitone.” L’ombra di un sorriso gli apparve sulle labbra e si strofinò il volto. Ritirò la mano coperta di sangue. “Lo sa, a volte queste riunioni…”

La maggior parte dei poliziotti si stava allontanando.

Lui gettò un’occhiata all’altro uomo. Murphy non dava segno di volersi alzare. Allora Luke infilò una mano nella tasca della giacca per tirare fuori un biglietto da visita. Lo fissò per un secondo.

Luke Stone, agente speciale.

In un angolo c’era il logo del Gruppo d’Intervento Speciale. Sotto il suo nome c’era un numero di telefono con cui chiamare la segreteria del suo ufficio. C’era qualcosa di assurdamente soddisfacente in quel biglietto.

 

Lo lanciò verso Murphy.

“Ecco, idiota. Chiamami. Avevo intenzione di offrirti un lavoro.”

Gli girò le spalle e si avviò verso Ed Newsam. Il collega indossava una camicia con una cravatta scura e aveva un blazer appoggiato a una spalla. Era grosso quanto una montagna. I muscoli gli tendevano gli abiti. Aveva capelli e barba neri, e il suo volto era giovanile, senza una sola ruga sulla pelle.

Scosse la testa e sorrise. “Che stai facendo?”

Luke scrollò le spalle. “In realtà non lo so. E tu?”

“Mi hanno mandato per riportarti indietro,” rispose Ed. “Abbiamo una missione. Liberazione di ostaggi. Alta priorità.”

“Dove?”

Ed scosse la testa. “Riservato. Non lo sapremo fino al briefing. Ma ci vogliono pronti a muoverci non appena ci avranno ragguagliati.”

“Quando è il briefing?”

Ed si era già girato per scendere dalla collina.

“Adesso.”

CAPITOLO QUATTRO

12:20 p.m. Ora legale orientale

Quartier generale del Gruppo d’Intervento Speciale

McLean, Virginia

“Non preoccuparti, sei sempre carino.”

Luke era nel bagno dello spogliatoio dei dipendenti. Si era tolto la camicia e si stava lavando la faccia nel lavandino. Un profondo graffio gli attraversava la guancia sinistra. La sua mascella destra era arrossata e illividita, e stava iniziando a gonfiarsi. Murph aveva messo a segno un bel colpo.

Anche le sue nocche erano graffiate e doloranti. Le ferite erano aperte e sanguinavano ancora. Anche lui aveva messo a segno qualche pugno discreto.

Ed gli apparve alle spalle. Si era rimesso la giacca e sembrava un professionista navigato ed elegante. Luke avrebbe dovuto essere il suo superiore, ma non poteva neanche reindossare la sua giacca dato che si era sporcata cadendo a terra.

“Andiamo, amico,” gli disse. “Siamo già in ritardo.”

“Sembrerò un pezzente.”

Ed fece spallucce. “La prossima volta fai come me. Tieni un completo in più qui nello spogliatoio, e già che ci sei anche degli abiti casuali. Sono sorpreso di doverti insegnare io queste cose.”

Luke si era rimesso la maglietta e cominciò ad abbottonarsi la camicia. “Come no, ma per ora come faccio?”

Il collega scosse la testa, ma stava sogghignando. “Tanto è quello che la gente si aspetta da te. Digli che hai fatto un incontro di tae kwon do nel parcheggio durante la pausa caffè.”

I due uomini uscirono dallo spogliatoio e salirono una scalinata di cemento diretti verso il primo piano. La sala conferenze, che Mark Swann aveva voluto quanto più all’avanguardia possibile, era in fondo a un corridoio stretto. Don aveva l’abitudine di definirla il Centro di Comando, anche se secondo Luke era un po’ un’esagerazione. Un giorno, magari.

Gli si riempì lo stomaco di farfalle. Quegli incontri erano una novità per lui, e ancora non ci aveva fatto l’abitudine. Don gli aveva detto che con il tempo sarebbero diventati più facili.

Nell’esercito i briefing erano semplici. Funzionavano così:

Ecco l’obiettivo. Ecco il piano di attacco. Domande? Suggerimenti? Okay, prendete l’equipaggiamento.

Nel Gruppo di Intervento Speciale non andavano mai in quella maniera.

La porta della sala conferenza era davanti a loro. Era aperta. La sala era uno spazio piuttosto piccolo, e bastavano una ventina di persone per farlo sembrare un vagone del metrò affollato all’ora di punta. Quelle riunioni gli facevano venire i brividi. Non si faceva altro che discutere e rimandare l’azione. E la calca di gente lo rendeva claustrofobico.

Invariabilmente partecipavano i pezzi grossi di diverse agenzie, e i relativi assistenti non gli erano mai troppo lontani. I primi insistevano perché si facesse tutto a modo loro mentre i secondi scrivevano sui loro cellulari BlackBerry, prendevano appunti su blocchetti gialli e facevano telefonate urgenti. Che razza di persone erano?

Luke oltrepassò l’uscio, seguito da Ed. Le luci fluorescenti sopra di loro erano accecanti da quanto brillavano.

Non c’era nessuno nella sala. Beh, non proprio nessuno, ma neanche così tante persone quanto aveva pensato. Erano in cinque, per essere precisi. Sette contando anche lui e Big Ed.

“Ecco gli uomini che stavamo aspettando tutti,” li annunciò Don Morris. Non stava sorridendo. A Don non piaceva aspettare. Aveva un aspetto formidabile in camicia a pantaloni eleganti. Il suo linguaggio del corpo era rilassato ma il suo sguardo era severo.

Uno sconosciuto avanzò verso Luke. Era un generale a quattro stelle alto e magro, abbigliato in un’uniforme impeccabile. Portava i capelli grigi tagliati molto corti. Non c’era un filo di barba sul volto ben rasato, perché i peli sapevano bene che era meglio non sfidarlo. Luke non lo aveva mai incontrato prima, ma era come se a livello primordiale lo avesse sempre conosciuto. Era il tipo d’uomo che rifaceva il letto ogni mattina prima di ogni altra cosa. Sulle sue coperte si sarebbe potuta far rimbalzare una moneta, da quanto erano tirate. Magari lui lo faceva anche, giusto per essere sicuro.

“Agente Stone, Agente Newsam. Sono il generale Richard Stark, dello stato maggiore congiunto.”

“Generale, è un onore conoscerla.”

Luke gli strinse la mano e poi toccò a Ed.

“Siamo molto orgogliosi di quello che avete fatto un mese fa. Siete entrambi un vanto per l’esercito degli Stati Uniti.”

C’era anche un altro uomo. I suoi capelli stavano iniziando a diradarsi ed era sulla quarantina. Aveva una grossa pancia rotonda e dita corte e tozze. Il completo non gli cadeva bene addosso, era troppo stretto sulle spalle e sul ventre. Aveva una visto emaciato e un naso bulboso. A Luke faceva pensare a Karl Malden in una pubblicità per la televisione contro le frodi con le carte di credito.

“Luke, io sono Ron Begley della Homeland Security.”

Strinsero le mani anche a lui, ma Ron non fece accenno all’operazione del mese prima.

“Ron. È un piacere conoscerla.”

Nessuno disse niente sul volto di Luke. Fu un sollievo, anche se lui era certo che dopo il briefing Don avrebbe avuto dei commenti da fare.

“Ragazzi, perché non vi sedete?” li invitò il generale, indicando il tavolo delle conferenze. Era gentile da parte sua, invitarli a sedere nel loro stesso quartier generale.

Luke ed Ed si accomodarono accanto a Don. In un angolo della stanza c’erano altri due uomini, entrambi in giacca e cravatta. Uno era calvo e portava un auricolare che spariva dentro la giacca, e tutti e due avevano uno sguardo impassibile. Nessuno parlava e non furono presentati. Il loro ruolo era chiaro.

Ron Begley chiuse la porta.

Era strano che non ci fosse nessun altro membro del Gruppo d’Intervento Speciale nella sala.

Il generale Stark guardò Don.

“Siamo pronti?”

L’uomo allargò le grandi mani, come un fiore che aprisse i suoi petali.

“Sì. Ci servivano solo loro. Faccia del suo peggio.”

Il generale guardò Ed e Luke.

“Signori, tutto quello che sto per dirvi sono informazioni riservate.”

* * *

“Cosa non ci stanno dicendo?” domandò Luke.

Don alzò la testa. La scrivania dietro cui sedeva era in quercia lucida, ampia e pulita. Sopra c’erano due fogli di carta, il telefono dell’ufficio e un vecchio portatile malconcio Toughbook che sul dorso aveva l’adesivo di una punta di lancia rossa e un pugnale, il logo del Comando Operazioni Speciali dell’esercito. Quello era il tipo d’uomo a cui non piaceva il disordine.

Sulla parete alle sue spalle erano incorniciate diverse fotografie. Luke ne notò una di quattro giovani Berretti Verdi a torso nudo in Vietnam. Don era il ragazzo sulla destra.

Il capo gli indicò le due sedie di fronte al tavolo.

“Siediti e mettiti comodo.”

Luke obbedì.

“Coma va la faccia?”

“Un po’ dolorante.”

“Che cosa hai fatto, hai provato a entrare in macchina senza aprire la porta?”

Luke scrollò le spalle con un sorriso. “Ho incontrato Kevin Murphy al funerale di Martinez questa mattina. Te lo ricordi?”

Don annuì. “Certo. Era un soldato decente per essere un Delta. Un po’ rancoroso, suppongo. E lui che faccia ha… dopo il vostro incontro?”

“L’ultima volta che l’ho visto era ancora a terra.”

Don annuì di nuovo. “Bene. Qual era il problema?”

“Io e lui siamo gli unici sopravvissuti di quella notte in Afghanistan. Non l’ha ancora superato. Crede che avrei potuto fare di più per evitare la missione.”

L’altro uomo fece spallucce. “Non stava a te deciderlo.”

“È quello che gli ho detto. E gli ho anche dato il mio biglietto da visita. Se mi chiama, vorrei che considerassi di assumerlo qui. Ha l’addestramento di un Delta, esperienza in combattimento, che io sappia ha fatto tre mandati in guerra, e non se la fa addosso quando le cose si fanno dure.”

“È stato congedato?”

Luke annuì. “Già.”

“Che sta facendo ora?”

“Rapine a mano armata. Sta eliminando vari signori della droga in diverse città.”

Don scrollò il capo. “Gesù, Luke.”

“Ti chiedo solo di dargli un’occasione.”

“Ne riparleremo,” replicò lui. “Quando e se chiamerà.”

Gli fece un cenno d’assenso con la testa. “Mi sembra giusto.”

Poi Don si avvicinò uno dei fogli che aveva sulla scrivania e si spinse un paio di occhiali da lettura dalla montatura nera sulla punta del naso. Luke ormai glielo aveva visto fare più di una volta e l’effetto era sempre scioccante: Superman Don Morris doveva mettere gli occhiali per leggere.

“Ora parliamo di questioni più urgenti. Le cose che non ci hanno detto al briefing sono le seguenti: questa missione ci è stata assegnata direttamente dallo Studio Ovale. Il presidente l’ha tolta dalle mani del Pentagono e della CIA perché è convinto che abbiano una talpa. Se i russi riescono a far parlare l’uomo della CIA che hanno rapito, non sappiamo che genere di informazioni potrebbe dargli ma comunque sarebbe una notevole seccatura. Dobbiamo muoverci rapidamente. E che rimanga tra noi, ma il presidente è furioso.”

“È per questo che dobbiamo cavarcela da soli?”

Don alzò un dito. “Abbiamo degli amici. Non sei mai del tutto da solo in questo lavoro.”

“Mark Swann può…”

Il capo si portò il dito alle labbra. Poi indicò il resto della stanza e sollevò le sopracciglia, scrollando le spalle. Il messaggio era: Non parliamo di quello che Mark Swann può fare. Non aveva senso condividere quell’informazione con chiunque fosse in ascolto.

Luke annuì e cambiò discorso senza batter ciglio “…può consentirci l’accesso a ogni genere di database. Lexis Nexis, quel tipo di cosa. È una belva con un motore di ricerca.”

“Già,” replicò l’altro. “Credo che abbia persino una sottoscrizione online al New York Times. Per lo meno, lui dice di averla.”

“Chi era il tizio dell’Homeland Security?”

Don fece spallucce. “Ron Begley? Un impiegatuccio. Prima dell’undici settembre lavorava per il dipartimento del Tesoro, si occupava di frodi e falsi. Quando hanno creato l’Homeland ha cambiato posizione. Sembra che poco alla volta stia facendo carriera. Ma non credo che rappresenti un problema per noi.”

Fissò l’uomo più giovane per un istante.

“Che ne pensi della missione?”

Luke non distolse lo sguardo. “Credo che sia una trappola mortale, a essere sincero. Dovremmo paracadutarci in Russia senza farci scoprire, salvare un sacco di tizi…”

“Tre uomini,” lo corresse Don. “Siamo autorizzati a ucciderli, se è più semplice.”

Lui non voleva neanche pensarci.

“Salvare un sacco di tizi,” ripeté, “far saltare un sommergibile e tornare a casa vivi? Non sarà facile.”

“Chi manderesti?” chiese il capo. “Se fossi al mio posto?”

Luke scrollò le spalle. “Tu cosa pensi?”

“La accetteresti?”

Non rispose subito. Pensò a Becca e al piccolo Gunner, nel cottage dall’altra parte del Chesapeake, sulla costa orientale. Dio, quel bambino…

“Non lo so.”

“Lascia che ti racconti una storia,” disse Don. “Quando ero un comandante della Delta, entrò in squadra un giovane uomo pieno di vita. Era appena stato giudicato idoneo. Veniva dal 75esimo dei Ranger, come te, quindi non era un novellino. Era nel giro da un po’. Ma aveva un’energia, quel ragazzo, come se per lui fosse tutto una novità. Alcuni uomini entrano nella Delta che sembrano già vecchi, persino a ventiquattro anni. Non lui.

 

“Gli affidai subito una missione. All’epoca lavoravo ancora sul campo. Non avevo nemmeno cinquant’anni e i pezzi grossi del JSOC volevano mettermi dietro una scrivania, ma io non ne volevo sapere niente. Non ancora. Non avrei mandato i miei uomini in posti dove non sarei andato io stesso.

“Ci lanciammo con il paracadute nella Repubblica Democratica del Congo. Lungo il fiume, ben lontano da qualsiasi forma di legge e ordine. Fu un lancio notturno, ovviamente, e il pilota ci fece atterrare in acqua. Strisciammo per quelle paludi tanto che sembravamo coperti di merda. C’era un signore della guerra là, che si faceva chiamare Principe Joseph. Definiva i suoi miliziani l’Esercito…”

“L’Esercito del Paradiso,” concluse Luke. Ovvio che conoscesse quella storia. E ovvio che sapesse anche tutto della nuova recluta della Delta che Don aveva descritto.

“Trecento soldati bambini,” riprese l’altro. “Andammo in otto, tutti soldati americani, senza supporto esterno di nessun tipo, e misi una pallottola in testa al Principe Joseph e ai suoi luogotenenti. Un’operazione perfetta. Una missione umanitaria, senza altro scopo se non quello di fare la cosa giusta. Tagliammo la testa al nemico in un colpo netto.”

Luke prese un profano respiro. Quella notte era stata terrificante ed esilarante al tempo stesso, un’avventura al cardiopalma.

“Le società d’aiuto internazionali intervennero per fare tutto il possibile con i bambini. Li rimpatriarono, li nutrirono, gli diedero affetto e gli insegnarono di nuovo a vivere, se era possibile. E io li tenni d’occhio. Molti di loro riuscirono a tornare nei loro villaggi natii.”

Don sorrise. No, di più, si illuminò di gioia.

“Il mattino seguente mi accesi un sigaro della vittoria lunga la riva del possente fiume Congo. Di quei tempi fumavo ancora. I miei uomini erano con me, e io ero orgoglioso di tutti loro, dal primo all’ultimo. Ero orgoglioso di essere americano. Ma il mio novellino era silenzioso e pensieroso. Quindi gli chiesi se stesse bene. E sai che cosa mi rispose?”

Allora stette a Luke sorridere. Sospirò e scosse la testa. Don stava parlando di lui. “Dissi: ‘Se sto bene? Mi prende in giro? Io vivo per questo.’ Ecco cosa dissi.”

L’uomo anziano lo indicò. “Esatto. Quindi te lo chiederò di nuovo. Vuoi questa missione?”

Luke lo fissò per un lungo momento. Don era uno spacciatore, ecco cos’era. Vendeva sensazioni ed emozioni che si potevano ottenere in un modo soltanto.

Nella mente gli apparve un’immagine di Becca che teneva Gunner tra le braccia. Era cambiato tutto quando era nato il bambino. Si ricordò il parto. In quel momento sua moglie era stata più bella di quanto non l’avesse mai vista.

E volevano costruire una vita insieme, lui, Becca e il loro bambino.

Che cosa avrebbe pensato lei di quella missione? Quando l’aveva convinta a lasciarlo partire per l’ultima, a pochi giorni dal termine della gravidanza, era stata furiosa. E quella volta avrebbe dovuto essere semplice: in teoria doveva essere solo rapido viaggio in Iraq per arrestare un tizio. Ovviamente si era trasformata in qualcosa di più grosso, un’operazione cruenta per riuscire a salvare la figlia del presidente, ma sua moglie lo aveva imparato solo a fatto compiuto.

In quel caso avrebbe saputo fin dall’inizio come stavano le cose: Luke doveva infiltrarsi in Russia per cercare di salvare tre prigionieri. Scosse la testa.

Non poteva assolutamente dirglielo.

“Luke?” domandò di nuovo Don.

Annuì. “Sì, la voglio.”