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Una vita

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Lo spirito di Macario la vinceva sempre sulla scienza di Alfonso e Macario era convinto di dare delle lezioni. S’ingannava. Alfonso se imparava da lui qualche cosa si era osservandolo quale oggetto di studio.

Aveva intanto compreso la qualità dello spirito di Macario. S’avvedeva degli errori suoi, non gli sfuggiva quando da lui un’idea veniva gonfiata per darle evidenza con maggior facilità, e, infine, se talvolta dimostrava ammirazione era perché ammirava la disinvoltura con la quale Macario negava o asseriva anche là dove menti superiori esitavano.

Macario cadeva spesso in contraddizioni, ma mai nel medesimo giorno. Era soggetto all’umore della giornata. Secondo quello si metteva in dati panni non suoi e ci viveva come se fossero stati suoi e non avesse avuto da smetterli mai più. Ciò gli era facile in grazia della sua cultura superficiale, abbastanza estesa per ricavarne i mezzi a creare un tipo da persona colta e stramba, non abbastanza profonda per dargli una ferma convinzione sua, tale da non potervi rinunziare neppure per ischerzo.

Quella seconda sera l’ebbe con la stampa. Diceva che scrivendo per la stampa si simulava sempre, non si era mai del tutto sinceri. In pubblico si diceva nuovo quello ch’era vecchio, meritevole di lode il biasimevole e così via. Fin qui era debole ma andava pigliando forza. A che serviva la scienza? All’infuori di coloro che si dedicano alle indagini originali in una data parte, gli altri hanno torto di curarsene troppo. Stancano il loro cervello e non ne hanno alcun vantaggio, perché chi ha compreso per bene una parte, ha il suo cervello altrettanto educato quanto colui che ne ha studiato più parti. La carta stampata danneggia quindi il cervello più che non lo avvantaggi. Quel quindi non era del tutto diretto, ma Alfonso non fece mostra di avvedersene e Macario si compiacque del proprio ragionamento.

– Bellissimo! – esclamò una sera Macario alla biblioteca, e pose dinanzi ad Alfonso un libriccino ch’egli aveva finito di leggere: Louis Lambert di Balzac.

Lo lesse anche Alfonso in due o tre giorni e la sua ammirazione non fu minore. Salvo una lettera di amore di una passione profonda e tanto sensuale da non esserlo più, egli non ammirò tanto i pregi artistici dell’opera, quanto l’originalità di tutto un sistema filosofico esposto alla breve ma intero, con tutte le sue parti indicate, e regalato dall’autore al suo protagonista con la splendidezza di gran signore.

Macario gli chiese come gli fosse piaciuto e Alfonso era in procinto di dirne con sincerità la sua opinione. Ma Macario con premura, quasi avesse temuto gli venissero rubate le idee, disse e gl’impose la sua:

– Sa perché è un bel libro? è l’unico di Balzac che sia veramente impersonale, e lo divenne per caso. Louis Lambert è matto, è composto di matti tutto il suo contorno e, per compiacenza, l’autore in quest’occasione rappresenta matto anche se stesso. Così è un piccolo mondo che si presenta intatto, da sé, senza la più piccola ingerenza dall’esterno.

Alfonso rimase stupefatto a questa critica altrettanto originale quanto falsa. Doveva essere stata fatta con un metodo che Alfonso si trattenne dall’indicare, unicamente perché temeva di venir messo anche lui in quel piccolo mondo che si presentava da sé.

La sua compagnia doveva piacere a Macario. La cercava di spesso; qualche sera gli usò anche la gentilezza di andarlo a prendere all’ufficio.

Ad Alfonso non sfuggì la causa di quest’affetto improvviso. Lo doveva alla sua docilità e, pensò, anche alla sua piccolezza. Era tanto piccolo e insignificante, che accanto a lui Macario si trovava bene. Non si compiacque meno di tale amicizia. Le cortesie, anche se comperate a caro prezzo, piacciono. Non disistimava Macario. Per certe qualità ammirava quel giovine tanto elegante, artista inconscio, intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva.

Macario possedeva un piccolo cutter e frequentemente invitò Alfonso a gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per Alfonso vere feste. In barca gli era anche più facile di dare il suo assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si trovava ancora sempre alla conquista della solida salute che gli occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva proponimento di sottoporsi, e gli effluvi marini dovevano aiutarlo a trovarla.

Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla punta del molo, ove si trovavano per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere.

Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento, sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi all’ultimo estremo sfuggendo al pericolo imminente. Alfonso da terra era colto da quei tremiti nervosi che si hanno al vedere delle persone in pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che non seppe lasciarlo partir solo.

Ferdinando, un facchino ch’era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò il posto al timone a Macario il quale sedette dopo toltasi la giubba quasi per prepararsi a grandi fatiche:

– Ora fuoco alla macchina, – gridò a Ferdinando.

Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l’albero di prora da un angolo del molo all’altro; poi, un piede puntellato a terra, l’altro sul cutter, lo spinse al largo.

Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per quanto piccolo, l’imminenza di un pericolo lo faceva sussultare.

– Che agile! – disse a Ferdinando.

Gli pareva d’essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio d’amicarselo. Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e ringraziò. Non essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad apparire abile. Comprese però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela e la fissò, aiutando poscia a tenderla con tutto il peso del suo corpo. Immediatamente il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso.

S’era proposto di far mostra di grande sangue freddo, ma i propositi non bastarono all’improvviso spavento. Poté trattenersi dal gridare ma balzò in piedi e si gettò dall’altra parte sperando di raddrizzare la barca con il suo peso. Si tranquillò alquanto sentendosi più lontano dall’acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina.

Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.

Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.

– Sa nuotare? – gli chiese Macario con tranquillità. – Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma – e finse grande preoccupazione – anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?

Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.

Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.

– Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, – e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina.

E passarono accanto al verde Sant’Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.

La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Macario dicendoglielo.

– Con questo mare!

Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua corrente.

Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.

Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.

Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere.

– Fatti proprio per pescare e per mangiare, – filosofeggiò Macario. – Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.

 

Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.

– Ed io ho le ali? – chiese abbozzando un sorriso.

– Per fare dei voli poetici sì! – rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.

IX

Annetta era ritornata in città un mese circa prima del padre, il quale dalla villeggiatura era partito per affari per la capitale. Passarono in quel mese per le mani di Alfonso diversi dispacci di Maller, pagine intere, redatte con negligenza, senza risparmio. Si trattava di affari e Alfonso non volle volontario sottoporsi al lavoro ch’era quella lettura. Un ultimo dispaccio gli venne fatto vedere da Starringer, lo speditore, per le mani del quale passavano tutti i documenti e che li leggeva tutti. Il dispaccio di Maller si chiudeva con le parole: «Avvertite la mia famiglia che arrivo domattina. La carrozza venga a prendermi alla stazione».

Il signor Maller doveva essere giunto da ventiquattr’ore e Alfonso ancora non lo aveva veduto. Si aspettava di trovarsi da un momento all’altro faccia a faccia con lui e camminava più timido che di solito per il corridoio.

Miceni venne ad avvisarlo che usciva appunto dalla stanza di Maller ove era stato per salutarlo. Il signor Maller lo aveva accolto con immensa cortesia e gli aveva stretto due volte la mano. Solitamente, parlando dei superiori, Miceni era velenosamente democratico, ma quel giorno, sotto l’impressione di quelle due strette di mano, era più dolce e pareva gli avessero fatto dimenticare lo scacco subito da Sanneo. Non soltanto lodava il signor Maller per la sua cortesia, ma anche da impiegato affettuoso si rallegrava di trovargli l’aspetto fiorente.

– Mi consigli di andarlo a salutare anch’io?

– Vanno quasi tutti; puoi fare come meglio ti sembra.

Alchieri ci era andato, ma non valeva quale norma, perché Sanneo lo aveva mandato in direzione per affari e così aveva salutato Maller occasionalmente. White tanto meno poteva servire d’esempio ad Alfonso perché le stanze dei direttori erano quasi stanze sue e ci passava metà della giornata.

Ballina non volle andarci. Non aveva dei dubbi lui:

– Gesù non si deride, i suoi vicari sì. Quando arrivò Sanneo andai a salutarlo perché sapevo che ci teneva e che non era tanto furbo da poter capire che io altro non facevo che un passo diplomatico. Il signor Maller deve pur avere qualche cosa in testa per poter essere il padrone di noi tutti ed io non mi permetto di scherzare con lui.

Alfonso rimase indeciso per tutto un giorno. Aveva dimenticato di chiedere consiglio a Macario che con una sola parola gli avrebbe tolto ogni dubbio. Tutto quello ch’era dubbio finiva col divenire importante per Alfonso. Andando temeva di seccare Maller e che glielo dimostrasse, e non andandoci, che la sua assenza venisse notata come una mancanza di riguardo.

Stava per uscire dalla banca rimandando la difficile risoluzione al giorno appresso, allorché questa gli venne resa più facile da parecchi impiegati che attendevano in corridoio di poter entrare da Maller per salutarlo. Rapidamente deciso si unì a loro.

Il vecchio Marlucci, un toscano che parlava sempre del governo granducale rimpiangendolo, uscì dalla stanza del principale. Sessantenne e seduto da una ventina d’anni dietro a un libro maestro, era l’amico intrinseco di Jassy. Venivano e andavano insieme riuniti dalla medesima sventura, la debolezza alle gambe; ma mentre Jassy aveva anche il cervello vacillante, le mani deboli, nervose, il toscano aveva l’occhio nero tranquillo, la parola sempre limpida, precisa. Schierava giornalmente nel suo libro la data quantità di cifre nitide, ordinate e nel suo libro non c’erano altre correzioni all’infuori di quelle rese necessarie dagli errori delle altre sezioni.

Alfonso, seguendo l’impulso datogli dalla sua preoccupazione, gli chiese:

– E che cosa si ha da dire al signor Maller?

– Se non lo sa stia zitto! – gli rispose Marlucci ridendo e passò oltre.

Non c’era altro impiegato che White accanto a Maller che gli dava delle istruzioni. Nel vano della finestra sedeva una donna; senza guardarla, Alfonso indovinò ch’era Annetta e sentì affluirsi il sangue al cuore.

Il signor Maller interruppe per un istante il suo colloquio con White. Tese la mano ad Alfonso e con un sorriso freddo gli chiese se stesse bene. Ritirata la mano si rimise a parlare con White.

Alfonso si avviò, ma una voce dolce, femminile, che in quella stanza stonava, lo fermò:

– Signor Nitti!

S’arrestò e si volse. Era Annetta. Portava un vestito grigio, la veletta grigia di un cappellino rotondo alzata sulla fronte bianca. Una figura casta ma matronale.

Gli porse la mano.

– L’ha con me che non volle vedermi?

Alfonso protestò che realmente non l’aveva veduta. Balbettava, ma disse più parole di quanto sarebbe stato necessario.

– Non glie ne faccio mica un rimprovero, – gli disse più a bassa voce e tanto confidenzialmente ch’egli trasalì per una sorpresa gioconda ma anche già preoccupato su quanto ne avrebbero pensato i presenti. – Ella ha ragione anzi. Mi dia la mano e un po’ più amichevolmente dell’ultima volta.

Sorrideva guardandolo fisso, attendendo di vedersi corrisposta prontamente da eguale gentilezza. Con sforzo Alfonso le sorrise con gratitudine. Era lusingato ch’ella mostrasse di rammentarsi dei particolari di quella serata.

Ella guardò la sua mano chiusa in quella di Alfonso. Alfonso aprì la sua e guardò anche lui. La manina bianca e paffuta di Annetta coperta a mezzo da un guanto giaceva nella sua ruvida, l’anulare, dalla parte dell’indice, nero d’inchiostro.

– Ella vede spesso mio cugino?

– Quasi ogni sera!

– Mi parlò tanto di lei!

– Grazie! – mormorò Alfonso.

Voleva quel grazie diretto a Macario.

– Sarà possibile di vederla qualche volta da me? Vedrà che si annoierà meno dell’ultima volta.

Alfonso mormorò delle parole poco chiare. Dal loro suono ella comprese ch’egli si metteva a sua disposizione.

– Venga domani a sera. Probabilmente vi sarà qualche amico. Senza complimenti ché a lei, a quanto me ne dicono, molto dispiacciono. La casa le è sempre aperta.

Ridendo Maller si levò in piedi:

– Cari amici, questa è la stanza destinata agli affari. Se volete chiacchierare andate in stanza dal signor Nitti.

Annetta non fu turbata di questa interruzione. Rispose al padre invitandolo di sbrigare presto gli affari o che se ne sarebbe andata senz’attenderlo più oltre. Congedò Alfonso con suono di voce più dolce, sorridendogli cortesemente, forse anche impietosita al vederlo arrossire fino alla radice dei capelli.

White poco dopo venne da lui e, essendoci Alchieri, per delicatezza gli parlò a bassa voce:

– Le mie congratulazioni per l’amicizia che ella seppe ispirare alla signorina Annetta. È una bella cosa ma pericolosa. Badi di non innamorarsene.

Macario lo condusse seco la sera appresso da Annetta. Entrando nell’atrio di quella casa, Alfonso si rammentò dello stato in cui ne era uscito mesi prima e quella visita gli sembrò che avesse una grande importanza nella sua vita. Infatti, agli esordi della sua vita in città, era stato avvilito da Annetta e il suo avvilimento aveva dato l’impronta a tutto quanto egli poscia aveva fatto. Aveva aumentato la sua naturale timidezza e aveva reso più difficili i suoi rapporti con Maller, con Sanneo, con tutti i suoi superiori. Finalmente in altro luogo che in casa Lanucci gli si concedeva di comportarsi altrimenti che da umile inferiore.

Macario, per via, gli presentava le persone che presumibilmente avrebbero trovato da Annetta.

Anzitutto Spalati, il professore di lingua e letteratura italiana dal quale Annetta prendeva delle lezioni. A giudicarne dalla descrizione che ne fece, Macario doveva amarlo poco. Era verista a credergli ma viceversa poi, quando si trovava alle prese con uno scrittore italiano, indagava pedantescamente se usava parole non legittimate dal Petrarca. Del resto un bellissimo giovane, confessò Macario, e si capiva ch’era quella la qualità che lo privava della simpatia di colui che ne faceva la biografia.

Nel desiderio di contornarsi al più presto di persone conformi ai suoi novelli gusti, Annetta aveva attirato a sé le persone più intelligenti fra le sue conoscenze. Fra gli altri Fumigi, parente di Maller, quarantenne. Macario raccontava che si sapeva che dapprima la sua ambizione era stata di costituirsi libero col suo lavoro per dedicarsi interamente a certi suoi studî prediletti di matematica. Era negoziante, capo di una ditta importante, e le male lingue asserivano che la possibilità di questa libertà già sussistesse e anche Macario era di tale parere. Era naturale che il lavoro accanito di ogni giorno avesse terminato col togliere a Fumigi ogni altro desiderio.

– Credo non abbia più inclinazione che a quelle matematiche il cui risultato si possa toccare con mano. Conserva il suo aspetto da matematico perché non dev’essere disaggradevole di venir considerato quale il futuro scopritore della quadratura del circolo.

Frequentava le serate di Annetta un giovinotto medico, certo Prarchi, uscito recentemente dall’università, uno dei pochi a questo mondo appassionati del proprio mestiere e non dell’altrui, diceva Macario. Era una conoscenza fatta in un luogo di bagni e Annetta, per quel poco buon senso artistico di cui va a me debitrice, ama di sentir parlare di cose realistiche e quindi di medicina. Il giovinetto ha un grande difetto, l’esagerazione delle sue qualità. Parla tanto volontieri di medicina che talvolta parla anche di dosi. Annetta mi confidò, e questo resti fra di noi, che tutta questa compagnia di brave persone l’annoia. L’anno scorso quando aveva amicizia intrinseca con altre persone che valevano meno ma che vivevano meglio, la casa, bisogna confessarlo, era più allegra.

Giunti sul pianerottolo, udirono il suono del pianoforte. Macario chiese a Santo chi sonasse.

– La signorina Annetta! – e rispondendo come al solito più di quanto gli si chiedesse: – Da un’ora circa!

– Oh! ammirabile la pazienza di quei signori! – esclamò Macario rivolto ad Alfonso. Chiese a Santo chi ci fosse.

– Non c’è nessuno!

– È mercoledì quest’oggi? – chiese Macario perplesso.

– Sì, signore. La signorina fece però avvisare il professore Spalati, io lo so perché andai io stesso ad avvisarlo, che non venisse perché aveva una forte emicrania.

– Allora chieda alla signorina se è disposta a riceverci, perché forse l’emicrania c’è anche per noi.

Il suono del piano cessò e Annetta venne a riceverli alla porta del tinello.

– Senza riguardi, avanti! – gridò loro – l’emicrania è cessata.

Macario aveva preceduto Alfonso. Si fermò con risolutezza:

– A patto che tu non la procuri a noi. Devi prometterci di non suonare più!

– Sai bene che per farmi udire da te bisogna proprio che tu me ne preghi!

Entrarono. Annetta non si occupò che di Alfonso e lasciò che Macario si accomodasse da solo.

Ad Alfonso pareva di essere perfettamente libero da imbarazzi perché la cordialità di Annetta doveva averglieli tolti. Infatti pensava a sangue freddo delle belle frasi come se fosse stato solo nella sua stanza, ma quando volle dirle perdette la calma e le smozzicò balbettando.

Mormorò che volontieri avrebbe udito Annetta a sonare e si era proposto di dire, fermandosi al frizzo fatto da Macario, che se egli avesse avuto l’emicrania, il suono del piano gliel’avrebbe fatta passate. Annetta ringraziò dopo di averlo aiutato a completare la frase ed egli dovette riconoscere che era ben facile fare buona figura con persone che non hanno l’intenzione di farcela fare cattiva.

Precisamente l’emicrania, raccontò Annetta, l’aveva spinta al pianoforte. Macario non parlava e quei due che discorrevano insieme per la prima volta si tenevano allo stesso tema quasi avessero temuto, lasciandolo, di non trovarne altro. Annetta disse ancora che comprendeva che la musica potesse procurare ad altri l’emicrania, ma che l’attenzione che doveva metterci chi l’eseguiva lo distraeva da qualunque preoccupazione e da qualunque male.

Alfonso ammirò la verità di quell’osservazione e avrebbe voluto confermarla citando un suo filosofo che equiparava i dolori alle preoccupazioni e che suggeriva come rimedio ad ambedue la distrazione. Tacque invece inchinandosi con un sorriso di assenso. All’ultimo momento aveva preso paura di quelle frasi semplici ma concatenate e, eroicamente, aveva rinunziato a dirle, piuttosto che esporsi al pericolo di confondersi.

 

Contribuiva a togliergli la disinvoltura un esame accurato dei propri sentimenti. Aveva principiato a farlo dal momento che aveva varcato la soglia di quella stanza. Indifferente quella donna non gli era. Era pur stato addolorato per mesi per esserne stato maltrattato. Ora invece si scopriva straordinariamente freddo, scioccamente freddo. Indovinava che per conservare l’amicizia di Annetta egli avrebbe dovuto dimostrarsene un poco innamorato e non gli riusciva.

Annetta si alzò per porgere a Macario il pezzo di musica ch’ella aveva sonato e fu con gioia che Alfonso si sentì trasalire dal desiderio improvviso. Ella gli era tanto vicina che alzatasi egli non poteva vederla tutta. Vedeva un petto colmo e una vita elegante quantunque non sottile, chiusa solidamente nella stoffa grigia che Annetta prediligeva.

Aveva sonato una sinfonia di Beethoven ridotta per pianoforte.

– Chissà come l’avrai sonata!

– Non bene! – disse Annetta sorridendo.

– Dev’essere difficile! – osservò Alfonso guardando una facciata nera di note.

– Impossibile! – corresse Annetta. Raccontò che poco tempo prima ella l’aveva udita eseguita da un’orchestra. Non si poteva essere soddisfatti di un’esecuzione al pianoforte. – Del resto io mi accontento di molto meno che della perfezione. Di queste note per esempio ometto la metà.

– Però – fece Alfonso – deve bastare per il divertimento… specialmente per chi l’ha udita… le note che si omettono si sentono lo stesso.

– Ah! sì! per fantasia!

– Quando si ha la fantasia che ha dei doveri verso l’esecutore, – osservò Macario calmamente.

– Ella fa degli studî a quanto si racconta? – chiese Annetta con serietà.

– Qualche poco; quello che posso!

– Mi dicono molto anzi. Vorrei saperne fare come lei! Scrive qualche cosa? Pubblicherà presto qualche cosa?

– Per il momento, no!

In quei frangenti aveva pensato al suo studio sulla morale e se magari solo il primo capitolo fosse stato terminato ne avrebbe parlato.

– Le donne immediatamente vogliono i risultati! – disse Macario ridendo.

Lo difendeva e lo trattava con più rispetto che quando erano soli. Sembrava volesse che Annetta molto lo stimasse, e soltanto molto tempo dopo Alfonso comprese che Macario lo aveva portato in quella casa non per apportare vantaggio a lui ma divertimento ad Annetta di cui voleva la riconoscenza.

Dalla parte che, come Alfonso sapeva dalle spiegazioni di Santo, doveva essere quella della stanza di ricevimento di Maller, entrò Francesca. Alfonso si alzò con vivacità. Voleva dimostrare la sua riconoscenza alla sua vecchia amica, l’unica che l’avesse accolto subito bene in casa Maller.

Si capiva dal contegno della signorina che non intendeva di fermarsi in quella stanza. Corrispose con un cenno del capo al saluto di Alfonso.

– Rimanga comodo! – Non salutò Macario e rivolta ad Annetta le disse: – Se avesse bisogno di me, sono in stanza mia.

Aveva tutt’altro contegno del solito, meno libero, più riservato, ed era molto pallida e vestita più trascuratamente. La sua figurina accanto ad Annetta mancava di forme. Soltanto il colore caldo dei suoi capelli biondi dava luce alla sua faccia sofferente. Uscì senz’altro e Alfonso vide che Macario guardava con curiosità Annetta la quale, uscita Francesca, gli diede un’occhiata incollerita come per fargli ammirare l’enormità di quel contegno.

– Perché non pubblicare al più presto qualche lavoro per farsi un nome? Certi giovani per amore all’accuratezza diventano pedanti prima del tempo, preferiscono la lima alla penna e finiscono col non far niente. Io lo so per descrizioni che me ne vennero fatte. Per adoperare la lima occorre, oltre che molto ingegno, molto senno critico. Quando si fa si è artisti, ma quando si lima bisogna essere artisti e scienziati.

Nell’ultima idea il suo volto, ancora molto serio dopo l’uscita di Francesca, si schiarì. Doveva essersi sentita soddisfatta di dirla. Era un’idea del resto della quale Alfonso sarebbe stato superbo. Ella maneggiava con grande libertà quei concettini critici.

– Ella che consiglia a me di pubblicare dà consigli ma non dà esempi. – Breve, breve, ma la frase era stata detta tutta senza esitazioni.

– Per noi donne vi sono altri riguardi. Però – aggiunse ridendo – spero che di qua a qualche mese non potrà più movermi un tale rimprovero.

Alfonso se ne congratulò. Macario diede un grido di sorpresa e volle sapere qualche cosa del lavoro che Annetta preparava e di cui nulla fino ad allora gli aveva detto. Conoscendo il carattere letterario di Annetta unicamente per la descrizione faceta che gliene aveva fatta Macario, Alfonso pensò che, poiché ella fino ad allora ne aveva taciuto, il lavoro doveva trovarsi in uno stato anche più embrionale del suo e che ne aveva parlato per soddisfare alla vanità stuzzicata.

Finalmente la conversazione deviò e per opera di Annetta stessa. Si parlò dell’imminente stagione dei teatri ma più del contegno nei palchetti e in platea che sulla scena, e Alfonso stette zitto. Macario e Annetta si divertirono a nominare e a descrivere alcuni giovanotti frequentatori della platea, e dal momento in cui Annetta fece dello spirito accompagnando i suoi frizzi di certe sue risate lunghe, fragorose che la facevano contorcersi, mettere in mostra un collo bianco, grassoccio, sul quale la tensione faceva visibili poche leggere pieghettature, Alfonso si sentì impacciato. Gli pareva di vederla di nuovo cantare quella canzone bizzarra e saltare dinanzi a lui con una spudoratezza simile a quella delle matrone romane dinanzi ai loro schiavi.

Ancora una volta si parlò di arte o quasi, come Annetta sorridendo disse al momento del congedo. Alfonso, che per poco che avesse frequentato il teatro s’era già accorto quale danno apportasse allo spettacolo il chiacchierio degli spettatori, proponeva di introdurre nei teatri il sistema dei teatri tedeschi, d’imporvi il silenzio e di abbassare nella sala i lumi. Gli spiacque di non poter più dare ragione ad Annetta per la semplice ragione ch’ella adottò il parere contrario al suo dopo ch’egli già lo aveva emesso. A teatro ad Annetta importava meno lo spettacolo sulla scena che quello in platea. Diceva che le piaceva osservare i suoi simili più che gli omicciattoli fatture di altri omicciattoli.

– L’arte ci perde, lo riconosco, ma l’arte a teatro è poi arte?

Fece una smorfia di disprezzo che lasciò Alfonso di nuovo ammirato Egli non sapeva abbracciare così ciecamente delle idee altrui.

Uscendo, Alfonso scorse una donna sul pianerottolo superiore, la quale, al vedere Macario, si ritirò con precipitazione. Aveva la statura di Francesca, ma Alfonso non poté vederne il volto.

Si sentiva avvicinato a Macario più da quella visita che da mesi di relazione. Fu subito indiscreto:

– Strano che la signorina Francesca non sia rimasta a farci compagnia. L’altra volta mi era sembrata di carattere espansivo e allegro. Che cosa può avere da renderla così selvaggia?

– Mal di capo probabilmente, – rispose Macario brevemente e cambiò discorso. – Ha veduto che mia cugina è migliore della sua fama e dell’idea ch’ella se ne era fatta. Ha inteso il suo invito. Da oggi ella appartiene a quello che Spalati chiama il club del mercoledì. Procuri di diventare il buon amico di mia cugina perché è una amicizia che a lei potrebbe essere utile.

Parlava seriamente. L’utile a cui alludeva era la protezione di Annetta per l’impiego. Alfonso trovò l’allusione poco delicata e arrossì ma non protestò e si congedò anzi con una stretta di mano molto amichevole. Egli poteva dolersi di venir considerato quale una persona che tentasse di giungere per vie insolite al proprio utile; gli parve però di dover essere tanto più riconoscente a chi dimostrava di volerlo aiutare anche dopo di averlo riconosciuto per meno scrupoloso.