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Una vita

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Fu svegliato dal vecchio Lanucci che volle accompagnarlo alla stazione. Il Lanucci si alzava sempre a quell’ora e a quanto egli stesso raccontava dormiva una piccolissima parte delle poche ore che passava a letto.

Doveva essere circa la stessa ora a cui due notti innanzi egli era uscito dalla stanza di Annetta e quel chiarore mesto dell’aurora, quelle vie deserte in cui risonavano i loro passi, gli rammentavano la passeggiata ch’egli aveva fatta per rincasare tutto stupito non dell’avventura che gli era toccata, ma delle proprie strane sensazioni. Era giusto che una passeggiata ricordasse l’altra; questa era la conseguenza di quella. Il cielo non prometteva una buona giornata. Una nube nera pesava sulla città e l’aria tiepida rivelava lo scirocco.

Il vecchio Lanucci andava consigliandolo sul modo che aveva da tenere per vendere la casa. Doveva dapprima fingere di non avere premura e di non essere venuto nel villaggio espressamente a questo scopo perché altrimenti sarebbe stato strozzato; la voce ch’egli volesse vendere la casa doveva venir sparsa con arte. Al primo offerente si doveva dare a credere che si stava ad ascoltare la sua offerta per sola curiosità. Poi, secondo l’offerta, bisognava fingere di essersi lasciati sedurre da essa a trattare oppure far capire che su quell’offerta non si voleva neppure riflettere, ma che migliorata avrebbe trovato tutt’altra accoglienza. Il tutto con l’aspetto non di persona che chieda favori, ma che ne accordi.

Ma Alfonso non ascoltava quel vano cicaleccio. Attraversando la via dei Forni guardò la casa Maller bruna come tutte le altre e triste nel colore indeciso dell’aurora, a cielo annuvolato. Nella via grigia, vuota, essa conservava l’aspetto signorile essendo di soli due piani, le finestre più larghe, con qualche tentativo di ornato, del resto priva di grazia. Egli fuggiva causa la tempesta che stava per scoppiarvi, e sentendosi più che mai lieto di poter allontanarsi volle scusare il proprio egoismo e lo fece con una ragione ch’era dettata dall’egoismo in persona: Non valeva la pena di soffrire per cosa che non desiderava.

Non ragionò più e non sentì più il bisogno di scusarsi quando si trovò solo nella carrozza di terza classe e allorché non vide più la faccia triste del vecchio Lanucci. Era libero finalmente! Per soli quindici giorni, ma durante i quali non voleva neppure ricordarsi della città ove aveva tanto sofferto. Voleva dimenticare le proprie azioni poco oneste e le proprie e le altrui sventure. Fuggiva Annetta, quella ragazza che gli si era data per una curiosità da adolescente e che lo perseguitava col suo amore fittizio, ma respirava anche all’uscire da quell’ambiente o di cattivi o di disgraziati in cui era stato costretto a vivere. Francesca che si era data a Maller perché il più ricco, e, simulatrice astuta, celava sotto un aspetto di sommissione un volere ferreo, un’attività intelligente nell’intrigo con cui tentava di risollevarsi; quella triste casa dei Lanucci ove si sentiva tanto male in mezzo a quegl’imbarazzi, accanto a quella ragazza che già amava colui che le avevano detto che nel suo interesse doveva amare. Oh! gente trista e disgraziata! Gli sembrava che la ferrovia correndo sull’argine piano lo portasse in alto ad un punto donde poteva giudicare tutte quelle persone che correvano dietro a scopi sciocchi o non raggiungibili. E di là si chiese: – Perché non vivono più quieti?

Si fece allo sportello. La città con le sue bianche case alla riva in largo semicerchio abbracciava il mare e sembrava che tale forma le fosse stata data da un’onda enorme che l’avesse respinta al centro. Era grigia e triste, una nube sempre più densa sul capo sembrava da essa prodotta perché a lei tinta dalle sue nebbie, l’unica traccia della sua vitalità. Era là dentro, in quell’alveare, che la gente si affannava per l’oro, e Alfonso, che là aveva conosciuto la vita e che credeva che così non fosse che là, respirò liberandosi con la foga da quella cappa di nebbia.

XVI

Nell’agitazione degli ultimi giorni aveva del tutto dimenticato che il suo viaggio non gli apportava soltanto il piacere di sfuggire i luoghi odiati ma anche la felicità di rivedere il suo paesello.

Lo evocò dinanzi alla mente e fu subito liberato da ogni amarezza. Si sentiva una gioia purissima all’idea del piacere inaspettato che apportava alla madre.

Il villaggio era un gruppo di case gettato là in un cantuccio dell’immensa e verde vallata attraversata diagonalmente dalla ferrovia. La stazione giaceva a un tiro di schioppo dal villaggio. Era un casotto da cantoniere elevato alla dignità di stazione in seguito alla domanda fattane dal deputato della regione. Prima si doveva lasciare la ferrovia alla stazione precedente e andare al villaggio in carretta. – Povera ma gente felice! – pensò Alfonso rammentandosi del gaudio che era regnato nel villaggio allorché ottenne la sua stazione. E la bella via che avevano costruito per congiungere la nuova stazione al villaggio! Diritta come sulla carta e larga che ci potevano correre simultaneamente tre carri.

La casa dei Nitti essendo lontana dalla stazione quanto il villaggio stesso, il padre di Alfonso per giungervi aveva voluto avere anche lui una via più breve che quella oltre il villaggio, e a questo scopo aveva fatto migliorare un viottolo già esistente che andava oltre ai campi dalla sua casa e che si ricongiungeva circa a mezza via alla strada comunale. A quanto Alfonso se ne rammentava, suo padre era stato uomo che aveva dovuto aver vissuto anche in centri popolati; eppure anche lui con quanta semplicità si compiacque che quel viottolo venisse denominato nel villaggio: «Via Nitti».

Alfonso voleva ricordarsi dell’esistenza di quel viottolo che doveva ora condurlo più presto fra le braccia di sua madre.

Dinanzi al casotto, appoggiato ad un grosso bastone, assisteva al passaggio del treno il notaio Mascotti. Era vestito con una giubba di velluto nero, pantaloni chiari e stivali altissimi. Tozzo e grosso ma alquanto curvo dall’età, una faccia abbrunata dal sole circondata da una barba corta grigia, era una figura da soldato ma da soldato in ritiro.

– Già qui? – chiese sorpreso ad Alfonso.

Alfonso altrettanto sorpreso di rimando chiese: – Ella mi attendeva?

– No! no! – fece il notaio portando lentamente l’indice alle radici del naso che fregò fino all’altezza dell’occhio. Alfonso comprese dal gesto, ch’egli ricordava, che il notaio rifletteva intensamente. Con naturalezza che ingannò anche Alfonso aggiunse: – Mi sorprende di vederla, ecco tutto! Non l’attendevo.

Scesero dall’argine sulla strada passando accanto al casotto abitato dal cantoniere e dalla sua famiglia, la moglie e due figliuoli seminudi che guardavano con tanto d’occhi Alfonso come se fosse piovuto dal cielo. Dei due fanciulli, uno di sei anni vestito di una camicia e di calzoni che gli arrivavano al ginocchio, teneva in braccio l’altro di due al massimo, vestito della sola camicia fermata a mezzo il corpo da una fascia da cui pendeva un altro camiciotto. Un miscuglio di membra magre e brune perché anche quello che ancora non sapeva camminare da sé aveva la pelle annerita dal sole.

Alfonso non comprese subito quanto strano fosse il contegno di Mascotti, perché, tutto inteso a gustare le prime sensazioni che si attendeva dal rivedere il villaggio, non trovava il tempo di osservarlo.

L’autunno aveva già spogliata la valle e così nuda tradiva la vicinanza della regione dei sassi. La campagna non aveva il colore bruno della terra fertile, umida, ma era sbiancata dalla presenza della pietra bianca che pochi chilometri più in giù o anche più in su signoreggiava. Nei campi più vicini si vedevano i piccoli sassi misti alla terra, v’erano lasciati acciocché il vento boreale che anche qui infuriava non spazzasse via la terra libera; qualche masso maggiore era piantato solidamente e interrompeva la regolarità del solco o impediva nel suo sviluppo qualche albero che rimaneva gracile e con la corona povera.

Le case del villaggio, nella nebbia leggera che copriva la valle, erano appena appena visibili; visibile invece come una striscia lucida la via larga sulla quale doveva poggiare la casa dei Nitti e che senza mutare direzione diveniva la via principale del villaggio. Il paesaggio non gli dava alcuna sorpresa; se ne era rammentato nei minimi particolari. Di là dal villaggio vedeva biancheggiare la punta del colle di sassi, una cupola regolare senza case e senza vegetazione, alla sua destra un piccolo bosco di pini giovani piantato per lottare con una plaga di sassi. Ma dacché egli era partito il boschetto aveva fatto pochi progressi.

Ebbe una sola sorpresa. Aveva creduto che la sua casa si trovasse più vicina al villaggio; nel suo desiderio che la madre fosse meno lontana dall’abitato, aveva spostata la casa e la cercò ove non c’era. Giaceva proprio molto lontana, perduta in mezzo ai campi, sola, mentre il vecchio Nitti aveva sperato ch’essendo da quella parte la zona più fertile della valle ben presto sarebbe stata più abitata.

Alfonso accelerava impaziente il passo. Vedeva ora un lato della casa, rosso di terra cotta. La facciata era volta verso il villaggio ed era l’unico lato che avesse delle finestre meritevoli di tale nome; la postica aveva due buchi praticati dal vecchio medico in persona per agevolare il giro dell’aria. Arrivò al viottolo che portava direttamente alla casa. Doveva esser poco frequentato perché per brevi intervalli si confondeva nei campi e mai se ne staccava distintamente.

Mascotti, che aveva lungamente taciuto, dopo aver atteso invano di essere interrogato, parlò per primo:

– Badi che ho sessantacinque anni e che se corre tanto non potrò giungere, come voglio, a casa sua con lei! – Si appoggiò ad un albero per riposare. Poi con aspetto indifferente e tutto occupato a guardarsi il cappellone di felpa bianco che s’era levato di testa, disse: – Sua madre non sta del tutto bene!

 

Alfonso lo guardò attentamente e titubante. L’aspetto indifferente di Mascotti era sincero? Commosso chiese:

– Che cosa ha?

– Un difettuccio al cuore, non batte regolarmente, a quanto ne dice il medico, – rispose Mascotti che credeva di aver trovato la forma più mite per definire la grave malattia.

– Ella mi attendeva alla stazione; mi hanno mandato un telegramma? – chiese Alfonso che si rammentò della prima sorpresa di Mascotti al vederlo.

– Sì, ma grazie al cielo…

Alfonso non stette a udire che il sì:

– Ci rivedremo a casa, – e, col baule in una mano, il bastone nell’altra, si mise a correre non badando più a Mascotti che lo seguì per un tratto gridando qualche parola ch’egli non intese.

La notizia inaspettata gli aveva fatto battere rapidamente il cuore. Doveva essere ben grave se erano stati costretti a richiamarlo con tanta premura. Fu ben presto stanco dalla corsa e dall’emozione, ma continuò a correre sembrandogli che qualche parte della vita della madre dipendesse dall’esito di questo suo sforzo.

E correndo gli si rizzarono i capelli sulla testa pensando che forse egli correva ad abbracciare un cadavere; non poteva essere che fosse questo l’annuncio che Mascotti aveva voluto dargli gridandogli dietro?

Oh! egli da molto tempo l’aveva dimenticata quella povera donna che moriva. Erano tre settimane ch’ella non gli aveva scritto e lui tutto intento intorno alle gonnelle di Annetta non se n’era neppure accorto. Non avrebbe dovuto comprendere che solo un grave impedimento poteva averle fatto interromper l’invio di solito tanto regolare delle sue letterine?

Era giunto finalmente nell’orto dinanzi alla casa. Una vecchia alta e robusta vi raccoglieva delle ortaglie.

– Che cosa comanda? – gli chiese rizzandosi in tutta la sua lunghezza.

Era una faccia a lui del tutto nuova. La pelle di questo volto, che solo per la mancanza di peli si riconosceva appartenere a donna, era incartapecorita dal sole e tutta l’espressione della faccia si concentrava nei due occhietti neri, vivaci, da sorcio, inquadrati in quel legno.

– Come sta mia madre? – chiese Alfonso impaziente.

– Oh! il signor Alfonso! Ha fatto bene a venire, – disse con lentezza la vecchia, e venne a lui. – La signora, dice il signor dottore, sta meglio.

Stava meglio quando egli la credeva morta! Ad ogni modo gli veniva accordato il tempo per baciarla e dimostrarle l’affetto immenso che gli gonfiava il cuore. Il caso lo trattava meglio di quanto egli meritasse.

– Entri! entri! – gli disse la vecchia che guardava con desiderio le sue ortaglie.

Egli non volle e la invitò ad andare essa la prima a preparare l’ammalata. Poi, vedendo ch’ella indugiava, le spiegò che doveva avvertire dapprima che c’era qualcuno, poi qualcuno che l’avrebbe grandemente sorpresa di rivedere, infine qualcuno che le sarebbe stato caro di rivedere, suo figlio.

Entrò con lei in casa. Le due uniche stanze che i Nitti avessero abitato nella casa relativamente vasta erano situate al pianterreno. Erano le uniche due che avessero luce a sufficienza e vano era stato il tentativo del defunto dottore di abituarsi ad una terza per servirsene di stanza di studio. Mancava di luce ed era troppo grande perché il vecchio medico co’ suoi pochi mobili e la miserabile biblioteca non vi si sentisse troppo solo; la stanza rimase destinata a biblioteca, ma il dottore non studiò più nulla.

La stanza posta immediatamente all’entrata era vuota con un solo letticciuolo in un canto, mentre quando Alfonso l’aveva abitata era stata fornita di tutto quanto si poteva nelle condizioni della famiglia Nitti. Alle mura erano stati appesi i pochi quadri che la famigliuola possedeva e molte riproduzioni di quadri celebri, parecchi di Orazio Vernet, cammelli dai corpi enormi e fisonomie tranquille, pazienti, bestie più simpatiche degli uomini che li conducevano.

Nell’altra stanza avevano abitato i coniugi Nitti. Era ripiena di vecchi mobili enormi di legno semplice che stavano bene in quello stanzone e lo rendevano abitabile. Fra le due finestre v’era un orologio moderno a pendolo, l’ultimo oggetto che il Nitti avesse portato in casa. Durante i mesi di malattia del vecchio medico, la famigliuola, per fargli compagnia, aveva pranzato in quella stanza e nel mezzo era stato posto il tavolo che doveva ancora esserci, a quanto la signora Carolina aveva scritto ad Alfonso.

La tristezza che lo assalì in quella prima stanza, ove attendeva di venir chiamato e che riconosceva ad onta che non vi fosse alcun oggetto che aiutasse i suoi ricordi, non era tutta risultato del trovare sua madre ammalata. Questa a cui egli sentiva di andare ad assistere era una delle sventure della sua vita. Grandissima era stata quella della morte del padre! In quei luoghi, dinanzi al villaggio e alla casa e in quella prima stanza, dacché aveva abbandonato la ferrovia, egli si sentiva accompagnato dal suo ricordo. La bella gioventù che gli aveva fatto passare: quanto tranquilla, protetta! La famiglia doveva certo aver passato delle brutte epoche ed egli nulla ne aveva saputo, né durante la prima gioventù in villaggio, né poi in città ove il vecchio Nitti per qualche tempo aveva tentato invano di farsi una clientela. Quanta bontà e quanta rassegnazione! Non s’era lagnato mai il vecchio e le esperienze fatte dal padre non avevano rubato le illusioni al figliuolo. – È giusto! – aveva detto un giorno ad Alfonso che nelle vacanze era venuto a casa con uno splendido certificato, – la fortuna che non ho avuto io l’avrai tu. – E Alfonso l’aveva creduto perché vedeva che i genitori, persone vecchie e d’esperienza, lo credevano.

La madre lo aveva chiamato con un grido in cui egli aveva riconosciuto l’emozione della gioia e la debolezza della malattia.

Volle gettarsi fra le sue braccia, ma, fatto un passo nella stanza, si trovò nella più profonda oscurità e non ebbe il coraggio di avanzarsi.

Si sentì preso ruvidamente per un braccio e tratto a sinistra. Comprese che la madre si trovava in quel letto e da lì ella gli chiese balbettando:

– Sei tu, Alfonso?

– Stai meglio, mamma?

– Sì, sì, molto. Apri la finestra, Giuseppina, acciocché lo vegga.

La vecchia spalancò dapprima la finestra più lontana dal letto e nella penombra egli riconobbe il volto della madre che gli parve poco mutato. Giaceva supina, non lo guardava e mormorava delle parole a bassa voce. Egli fu spaventato credendola febbricitante e la chiamò.

– Sono religiosa, – disse ella scotendosi, – non speravo più di rivederti e ringrazio chi fece che tu arrivassi tanto presto, – e lo attirò a sé sorridendo.

Egli conosceva questa voce e questo modo. La gravità e la serietà tanto pronte a fondersi nella dolcezza e nello scherzo. E ancora una volta rivide la fisonomia del padre che pensava e parlava proprio così, mai tanto vicino a sorridere come quando il suo volto si atteggiava a grande serietà e la sua parola risonava pateticamente commossa. Nei lunghi anni ch’ella aveva vissuto con lui se ne era assimilato i modi.

Giuseppina aperse anche l’altra finestra; la spalancò con un solo colpo, rumorosamente.

Neppure allora Alfonso si accorse di quanto fosse mutata la fisonomia della madre. La baciò in fronte quasi tranquillato:

– Hai un aspetto florido.

– Sono grassa, eh?

Senza riguardi Giuseppina intervenne con la sua voce poco aggradevole, bassa.

– Ma sì! lo dico sempre io che ha l’aspetto florido e che il dottore che la fa rimanere a letto è un asino.

La signora Carolina aveva attirato Alfonso di nuovo a sé e gli passava la mano attraverso ai capelli bruni.

– Tu sei divenuto anche più bello, ciò che Rosina sicuramente non avrebbe creduto che fosse possibile, – gli disse guardandolo con attenzione. – Abbiamo avuto torto di dividerci. Adesso sarei certamente in questa stessa situazione, ma avrei passato meglio la vita fin qui!

A quella distanza Alfonso aveva capito che cosa desse alla madre l’aspetto tanto florido. Era gonfia, una guancia molto più che l’altra, e su questa gonfiezza s’era riprodotta la trama della tela grossolana e di qualche cucitura irregolare del guanciale. La sua faccia ch’era stata ovale tendeva ora ad arrotondarsi. I capelli bianchi che ancora le restavano facevano corona intorno ad un volto che sembrava infantile.

Ella comprese quale impressione dolorosa la vista di quella gonfiezza gli avesse prodotta e volle attenuarla.

– Oh qui non mi duole! – e con un dito si toccò con disprezzo la guancia. Vi produsse una cavità livida che rimase anche quando ella ritirò il dito. Quello non era nulla, gli spiegò, e non le dava sofferenze. Soffriva molto ai polmoni, non aveva aria a sufficienza. Era probabile che così si morisse. Trovandovisi tanto vicina, andava studiando il mistero della morte.

Egli cercò di provarle che s’ingannava e avrebbe dovuto essergli facile trovandosi di fronte alla nozione tanto imperfetta della malattia, ma non sapeva mettere tutta la sua intelligenza a ingannarla. Ella moriva, questo era il doloroso, non ch’ella lo sapesse. Aveva compreso che non v’era più rimedio. S’informava ancora di altri sintomi sempre sperando di scoprire degli indizi di benignità. Invano; si trattava proprio di un organismo che andava in isfacelo. Ella aveva sofferto già da anni di disturbi nei quali un occhio esperto avrebbe forse riconosciuto la malattia organica che ne era causa. Anche quando si avvide di avere qualche poco di gonfiezze ai piedi non s’era rivolta al medico, un po’ per ignoranza e molto per riguardo e per economia. Quando finalmente s’era consultata con lui, egli l’aveva fatta rimanere a letto; non s’era alzata più, dicendo che vi si sentiva meglio che in piedi e che le ripugnava di vestirsi per vedersi il corpo sfigurato a quel modo. Ora non poteva più moversi. Quello che non aveva fatto la malattia era stato compiuto dall’inerzia e dalla mancanza d’aria pura. In quella stanza si soffocava. Allorché per un istante erano state aperte le finestre, era giunto fino ad Alfonso un soffio dell’aria di fuori, balsamica in confronto a quella della stanza.

– Giacché lei c’è qui posso ritornare in orto. Se avessero bisogno di me basta che picchino alla finestra, – disse Giuseppina e uscì.

– È l’infermiera? – chiese Alfonso. – E di solito ti lascia così sola come ti ho trovata poc’anzi?

La madre gli spiegò che l’aveva presa in casa da un mese anche perché la rimpiazzasse in quei piccoli lavori ai quali pur era d’uopo provvedere.

– Così la tolsi alla più squallida miseria. Mi pareva tanto buona e attenta!

Egli rilevò quell’imperfetto che accennava ad un presente in cui l’opinione su Giuseppina doveva essersi mutata, ed era tanto evidente che attorno a sua madre regnava un’incuria e un’indifferenza grande, sproporzionatamente alla gravità del male di cui moriva, che, incapace di frenarsi, egli scoppiò in singhiozzi.

Ella comprese perché piangesse, e, avendo immediatamente le lagrime agli occhi anch’essa, lo abbracciò stretto per ringraziarlo della manifestazione d’affetto a cui doveva essere poco abituata.

– Adesso ci sei tu e non ho bisogno d’altri.

Per tranquillarla volle indicare tutt’altra ragione allo scoppio del suo dolore e si lamentò che non lo si fosse avvisato prima perché egli avrebbe portato con sé qualche bravo medico della città il quale l’avrebbe fatta guarire prima e le avrebbe risparmiato molte sofferenze. Ma le sue parole non riuscirono che a commoverla maggiormente. Piangeva e il povero corpo a mezzo inanimato rimaneva immobile come inchiodato; la sola testa si piegava sul guanciale per avvicinarsi a lui.

Spaventato della commozione in cui l’aveva gettata, le assicurò che ben presto, con l’aiuto del medico che voleva chiamare quel giorno stesso, sarebbe guarita. Del resto incapace di rassegnarsi a quella situazione disperata, per quanto poco potesse ancora sperare, voleva pregare Prarchi di venire lui a curarla.

Ma ella aveva la mente più solida del figliuolo. Gli proibì di far venire altri medici perché ella ne aveva a sufficienza di quello che veniva a trovarla. Voleva morire in pace, e, presa fra le sue una mano di Alfonso, se la portò alla guancia e per poggiarvi la testa, con sforzo immenso si gettò su un fianco. Poi pianse chetamente senza singhiozzi, celandosi gli occhi con una mano.

Era proprio finita. Quale miracolo avrebbe più potuto regolare quel corpo che muovendosi gli si era rivelato informe del tutto?

Giacché salvarla non si poteva più, egli fece dei tentativi per distrarla. Come se vi desse importanza le chiese quali medicine le fossero state date.

– Dovrei prendere di quella, – gli rispose ella, – ma non ne voglio perché mi fa male. Dopo presa, oltre la difficoltà di respirare mi capitano giramenti di testa… qualche volta anche le convulsioni.

 

Ella non aveva ancora liberi gli occhi dalle lagrime che alzò il capo con vivacità e con malizia, sorridente, gli chiese:

– Diventi presto direttore? Come va alla banca?

Appena allora entrò il notaio e disse anche d’essere stanco per la corsa che Alfonso gli aveva fatta fare. Il buon uomo invece aveva la respirazione calma e sulla sua fronte increspata e bassa non v’era traccia di sudore.

Rimproverò e acerbamente Alfonso di aver fatto piangere la signora Carolina.

– Ella è intelligente e dovrebbe capire che le può far male.

– Ho pianto io, non è lui che mi ha fatto piangere, – disse la signora Carolina.

Ma Mascotti non udiva e ripeteva le stesse frasi forse lieto di potersi mostrare zelante mentre Alfonso soffriva al vederlo rumoreggiare senza riguardi in quella stanza come se si fosse trovato in piazza.

Con una risoluzione di cui non l’avrebbe ritenuta capace, per interrompere quel gridio, a voce alta la signora Carolina dichiarò che stava benone e premette il polso della mano sinistra di Alfonso; aveva ancora sempre sotto il suo capo la destra.

Alfonso avrebbe avuto il desiderio di sfogarsi con Mascotti, rimproverarlo di non averlo avvertito prima e fargli capire che non era soddisfatto del modo con cui la povera ammalata era stata trattata, ma per il momento non poteva. Provò una certa soddisfazione all’accorgersi che Mascotti stesso doveva sentirsi colpevole visto che cercava di scolparsi. Senza che nessuno lo avesse interrogato sulla ragione che lo aveva indotto a lasciar ignorare ad Alfonso la malattia della signora Carolina, disse che gli era sembrato inutile di avvisarlo, visto ch’essa era stata sempre in buone mani e ripeté questa frase come per far tacere qualcuno che avesse asserito il contrario. Egli veniva a farle visita ogni giorno, ben volontieri s’intende, e la Giuseppina ch’egli le aveva messo accanto era una buona infermiera.

Questo, che forse era vero, parve ad Alfonso tanto poco, che non seppe trattenersi e dinanzi alla madre lo rimproverò: – Avrebbe dovuto prevenirmi! – e lo guardò con sdegno proprio per fargli comprendere che aveva da fargli anche altri più gravi rimproveri.

– E la sua carriera? – chiese Mascotti. – Io, quale suo tutore, dovevo pur aver cura che non la interrompesse.

La signora Carolina non aveva badato a questi discorsi:

– Adesso capisco, – e sembrava che lungamente avesse studiato silenziosa, – adesso capisco perché hai l’aspetto tanto mutato. Vesti tutt’altrimenti. Ti sei messo alla moda. – Rise lieta di scoprire nel figliuolo l’apparenza da signore. Ammirò pezzo per pezzo, dal solino rigido fino al taglio dei calzoni, e così la discussione fra Mascotti e Alfonso venne interrotta. «Non abbandonata però,» pensò Alfonso, che avrebbe voluto trovare qualcuno su cui vendicarsi.

Poco dopo venne il dottor Frontini, un bel giovine vestito ricercatamente, dal volto ovale regolare ma troppo regolare e i mustacchi folti di color bruno con qualche bagliore d’oro. Fu cortese con l’ammalata ma, e gliene derivò un sentimento di antipatia per il dottore, Alfonso comprese ch’ella lo temeva. Ella giurò di aver presa la pozione due volte in quel giorno, mentre a lui aveva confessato che dalla sera innanzi non l’aveva toccata.

Come Alfonso più tardi apprese, il dottor Frontini era un giovine che aveva esordito in una grande città ove però, forse per mancanza di aderenze, non aveva saputo conquistarsi una clientela sufficiente e sbalestrato al posto miserabile di medico condotto si credeva uno spostato e non amava i suoi clienti.

Dopo di aver dichiarato che riscontrava qualche miglioramento nello stato dell’ammalata e raccomandato di prendere con regolarità la medicina, si avviò per andarsene.

Alfonso gli corse dietro e lo raggiunse in orto. Voleva sentire la sua opinione franca.

Il dottor Frontini dichiarò che la malattia era molto ma molto grave, ma non escludeva la possibilità che il cuore potesse riprendere la sua attività regolare; ciò accadeva di spesso. S’era accorto dell’immensa angoscia impressa sul volto di Alfonso e aveva aggiunto la seconda frase per compassione. Vedendo che il medico lo guardava con attenzione, con la sua solita rapidità di percezione Alfonso comprese che la prognosi era stata modificata per risparmiarlo. Non poté lagnarsene. Egli conosceva quanto il medico stesso la gravità della malattia e il giudizio di costui non poteva tranquillarlo, ma per il riguardo che il dottore gli usava pensò di essersi ingannato sul suo conto. Certo almeno in quell’istante il dottor Frontini s’interessava all’ammalata. Era forse un vantaggio che alla signora Carolina derivava dalla venuta di Alfonso perché preziosa apparisce la vita di una persona prima di tutto per il valore che altri vi pone.

Alfonso passò il resto della giornata accanto al letto della madre. Soffriva di non poter andare nel villaggio a salutare degli amici e rivedere qualche parte del caro nido, soddisfare il lungo desiderio. Ma non poté allontanarsi.

Era rientrato nella stanza e la signora Carolina aveva ben presto espresso il desiderio di dormire; gli occhi le si chiudevano dal sonno. Egli si gettò sul letto del padre a guardarla addormentarsi. Ma per la signora Carolina era compito più difficile di quanto ella stessa sembrasse supporre. Precisamente quando stava per pigliare sonno, con un sussulto violento ritornava in sé. Qualche volta il sussulto era tanto violento ch’ella agitava le braccia come persona che perda l’equilibrio.

– Non posso! – sospirò, e già rassegnata lo pregò che le parlasse per farle passare il sonno che non poteva soddisfare. Pronto, egli si alzò e si sedette accanto al suo letto. Anziché parlarle d’altro come ella avrebbe voluto, cercò di convincerla di tentare ancora di dormire. Ella chiuse gli occhi per compiacerlo ed egli rimase fermo a guardarla. Quando da un movimento quasi impercettibile del braccio egli comprese ch’ella stava per destarsi col solito sussulto, incapace di rimanere spettatore passivo, le afferrò nella sua la mano e ve la tenne stretta solidamente. Vedendo che l’ammalata si acquietava afferrò anche l’altra mano. Sorpreso e beato la vide addormentarsi di un sonno quieto, ristoratore, ma anche nel sonno, se egli soltanto rallentava la stretta delle sue mani, ella appariva subito meno sicura.

Qualche vantaggio le poteva dunque ancora apportare e ne fu tanto lieto che per qualche tempo dimenticò il brutto pronostico fatto dal medico e la propria disperazione. Da lungo tempo non aveva provato una gioia così intensa e così pura! Pensò con disprezzo ai dolori che aveva sofferto in città. Che importanza poteva loro accordare in confronto ai sentimenti da cui era invaso accanto al letto della povera donna moribonda? Godeva ripensando alle parole di Francesca per le quali poteva credere che abbandonando la città tagliasse definitivamente la sua relazione con Annetta. Ora, a quel letto, non sentiva né rimorsi né rimpianti. La sua indifferenza dava il medesimo aspetto incolore tanto al suo amore per Annetta quanto alla ripugnanza che aveva sentito per essa. Tutta l’avventura mancava d’importanza, e se ne aveva, era unicamente per il fatto che casualmente era stata dessa che lo aveva portato più presto al suo posto, presso sua madre.

Nelle lunghe ore ch’egli passò là, inerte, ragionò anche una volta sui motivi che lo avevano indotto a lasciare Annetta, ma come sempre il suo ragionamento non era altro che il suo sentimento travestito. La sua ripugnanza per Annetta, egli andava dicendosi, era spiegabile, anzi naturale. Non v’era nulla di comune fra lui e quella donnetta ch’egli aveva potuto conoscere tanto esattamente come se gli fosse stato dato di saperne ogni azione, ogni parola, ogni pensiero da lei avuto dacché era nata. Quando ella parlava dimostrava più che altro il desiderio di piacere, quando scriveva era vana, e vana e sensuale quando amava. Egli faceva dei confronti fra lei e la povera donna di cui sosteneva il sonno. Anche in quello stato la signora Carolina tradiva quanto avesse amato il marito e in quale modo; tanto umilmente che ancora ne conservava, ricordo vivente, i gesti, i modi che inconsciamente imitava, persino qualche cosa della fisonomia. Per lui sarebbe stata una tortura di vivere accanto ad Annetta. Lo avrebbe reso ricco e avrebbe ritenuto suo diritto di averlo a schiavo; la vanità e i sensi che l’avevano gettata fra le sue braccia potevano farla cadere anche con altri.