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La coscienza di Zeno

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Il dottore trionfò:

– È tutt’altra cosa; – mormorò.

Sì: era tutt’altra cosa! Per me nient’altro che una grave minaccia. Con fervore baciai mio padre sulla fronte e nel pensiero gli augurai:

– Oh, dormi! Dormi fino ad arrivare al sonno eterno!

Ed è così che augurai a mio padre la morte, ma il dottore non l’indovinò perché mi disse bonariamente:

– Anche a lei fa piacere, ora, di vederlo ritornare in sé!

Quando il dottore partì, l’alba era spuntata. Un’alba fosca, esitante. Il vento che soffiava ancora a raffiche, mi parve meno violento, benché sollevasse tuttavia la neve ghiacciata.

Accompagnai il dottore in giardino. Esageravo gli atti di cortesia perché non indovinasse il mio livore. La mia faccia significava solo considerazione e rispetto. Mi concessi una smorfia di disgusto, che mi sollevò dallo sforzo, solo quando lo vidi allontanare per il viottolo che conduceva all’uscita della villa. Piccolo e nero in mezzo alla neve, barcollava e si fermava ad ogni raffica per poter resistere meglio. Non mi bastò quella smorfia e sentii il bisogno di altri atti violenti, dopo tanto sforzo. Camminai per qualche minuto per il viale, nel freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve alta. Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente.

L’ammalato dormiva sempre. Solo disse due parole che io non intesi, ma nel più calmo tono di conversazione, stranissimo perché interruppe il suo respiro sempre frequentissimo tanto lontano da ogni calma. S’avvicinava alla coscienza e alla disperazione?

Maria era ora seduta accanto al letto assieme all’infermiere. Costui m’ispirò fiducia e mi dispiacque solo per certa sua coscienziosità esagerata. Si oppose alla proposta di Maria di far prendere all’ammalato un cucchiaino di brodo ch’essa credeva un buon farmaco. Ma il medico non aveva parlato di brodo e l’infermiere volle si attendesse il suo ritorno per decidere un’azione tanto importante. Parlò imperioso più di quanto la cosa meritasse. La povera Maria non insistette ed io neppure. Ebbi però un’altra smorfia di disgusto.

M’indussero a coricarmi perché avrei dovuto passare la notte con l’infermiere ad assistere l’ammalato presso il quale bastava fossimo in due; uno poteva riposare sul sofà. Mi coricai e m’addormentai subito, con completa, gradevole perdita della coscienza e – ne son sicuro – non interrotta da alcun barlume di sogno.

Invece la notte scorsa, dopo di aver passata parte della giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno vivissimo che mi riportò con un salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi rivedevo col dottore nella stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di forza, in quella stanza che ora ha tutt’altro aspetto perché è la stanza da letto mia e di moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio padre, mentre lui (non vecchio e cadente com’è ora, ma vigoroso e nervoso com’era allora) con ira, gli occhiali in mano e gli occhi disorientati, urlava che non valeva la pena di fare tante cose. Diceva proprio così: «Le mignatte lo richiamerebbero alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece battevo il pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le mignatte! Ed anche la camicia di forza!».

Pare che il mio sogno si sia fatto rumoroso perché mia moglie l’interruppe destandomi. Ombre lontane! Io credo che per scorgervi occorra un ausilio ottico e sia questo che vi capovolga.

Il mio sonno tranquillo è l’ultimo ricordo di quella giornata. Poi seguirono alcuni lunghi giorni di cui ogni ora somigliava all’altra. Il tempo s’era migliorato; si diceva che s’era migliorato anche lo stato di mio padre. Egli si moveva liberamente nella stanza e aveva cominciata la sua corsa in cerca d’aria, dal letto alla poltrona. Traverso alle finestre chiuse guardava per istanti anche il giardino coperto di neve abbacinante al sole. Ogni qualvolta entravo in quella stanza ero pronto per discutere ed annebbiare quella coscienza che il Coprosich aspettava. Ma mio padre ogni giorno dimostrava bensì di sentire e intendere meglio, ma quella coscienza era sempre lontana.

Purtroppo debbo confessare che al letto di morte di mio padre io albergai nell’animo un grande rancore che stranamente s’avvinse al mio dolore e lo falsificò. Questo rancore era dedicato prima di tutto al Coprosich ed era aumentato dal mio sforzo di celarglielo. Ne avevo poi anche con me stesso che non sapevo riprendere la discussione col dottore per dirgli chiaramente ch’io non davo un fico secco per la sua scienza e che auguravo a mio padre la morte pur di risparmiargli il dolore.

Anche con l’ammalato finii coll’averne. Chi ha provato di restare per giorni e settimane accanto ad un ammalato inquieto, essendo inadatto a fungere da infermiere, e perciò spettatore passivo di tutto ciò che gli altri fanno, m’intenderà. Io poi avrei avuto bisogno di un grande riposo per chiarire il mio animo e anche regolare e forse assaporare il mio dolore per mio padre e per me. Invece dovevo ora lottare per fargli ingoiare la medicina ed ora per impedirgli di uscire dalla stanza. La lotta produce sempre del rancore.

Una sera Carlo, l’infermiere, mi chiamò per farmi constatare in mio padre un nuovo progresso. Corsi col cuore in tumulto all’idea che il vecchio potesse accorgersi della propria malattia e rimproverarmela.

Mio padre era in mezzo alla stanza in piedi, vestito della sola biancheria, con in testa il suo berretto da notte di seta rossa. Benché l’affanno fosse sempre fortissimo, egli diceva di tempo in tempo qualche breve parola assennata. Quand’io entrai, egli disse a Carlo:

– Apri!

Voleva che si aprisse la finestra. Carlo rispose che non poteva farlo causa il grande freddo. E mio padre per un certo tempo dimenticò la propria domanda. Andò a sedersi su una poltrona accanto alla finestra e vi si stese cercando sollievo. Quando mi vide, sorrise e mi domandò:

– Hai dormito?

Non credo che la mia risposta lo raggiungesse. Non era quella la coscienza ch’io avevo tanto temuto. Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione. E invece di starmi a sentire egli gridò di nuovo a Carlo:

– Apri!

Non aveva riposo. Lasciava la poltrona per mettersi in piedi. Poi con grande fatica e con l’aiuto dell’infermiere si coricava sul letto adagiandovisi prima per un attimo sul fianco sinistro eppoi subito sul fianco destro su cui sapeva resistere per qualche minuto. Invocava di nuovo l’aiuto dell’infermiere per rimettersi in piedi e finiva col ritornare alla poltrona ove restava talvolta più a lungo.

Quel giorno, passando dal letto alla poltrona, si fermò dinanzi allo specchio e, rimirandovisi, mormorò:

– Sembro un Messicano!

Io penso che fosse per togliersi all’orrenda monotonia di quella corsa dal letto alla poltrona ch’egli quel giorno abbia tentato di fumare. Arrivò a riempire la bocca di una sola fumata che subito soffiò via affannato.

Carlo m’aveva chiamato per farmi assistere ad un istante di chiara coscienza nell’ammalato:

– Sono dunque gravemente ammalato? – aveva domandato con angoscia. Tanta coscienza non ritornò più. Invece poco dopo ebbe un istante di delirio. Si levò dal letto e credette di essersi destato dopo una notte di sonno in un albergo di Vienna. Deve aver sognato di Vienna per il desiderio della frescura nella bocca arsa ricordando l’acqua buona e ghiacciata che v’è in quella città. Parlò subito dell’acqua buona che l’aspettava alla prossima fontana.

Del resto era un malato inquieto, ma mite. Io lo paventavo perché temevo sempre di vederlo inasprirsi quando avesse compresa la sua situazione e perciò la sua mitezza non arrivava ad attenuare la mia grande fatica, ma egli accettava obbediente qualunque proposta gli fosse fatta perché da tutte si aspettava di poter venir salvato dal suo affanno. L’infermiere si offerse di andargli a prendere un bicchiere di latte ed egli accettò con vera gioia. Con la stessa ansietà con cui poi attese di ottenere quel latte, volle esserne liberato dopo di averne ingoiato un sorso scarso e poiché non subito fu compiaciuto, lasciò cadere quel bicchiere a terra.

Il dottore non si mostrava mai deluso dello stato in cui trovava il malato. Ogni giorno constatava un miglioramento, ma vedeva imminente la catastrofe. Un giorno venne in vettura ed ebbe fretta di andarsene. Mi raccomandò d’indurre l’ammalato di restar coricato più a lungo che fosse possibile perché la posizione orizzontale era la migliore per la circolazione. Ne fece raccomandazione anche a mio padre stesso il quale intese e, con aspetto intelligentissimo, promise, restando però in piedi in mezzo alla stanza e ritornando subito alla sua distrazione o meglio a quello ch’io dicevo la meditazione sul suo affanno.

Durante la notte che seguì, ebbi per l’ultima volta il terrore di veder risorgere quella coscienza ch’io tanto temevo. Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso.

Pensai con spavento: «Ecco ch’egli si dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non aveva guardato sì a lungo tanto lontano. Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto:

 

– Guarda! Guarda! – mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me:

– Hai visto? Hai visto?

Tentò di ritornare alle stelle, ma non poté: si abbandonò esausto sullo schenale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese né ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre.

La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per l’infermiere. Lasciavamo fare all’ammalato quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume, inconsapevole del tutto di attendere la morte. Una volta tentò di uscire sul corridoio ove faceva tanto freddo. Io glielo impedii ed egli m’obbedì subito. Un’altra volta, invece, l’infermiere che aveva sentita la raccomandazione del medico, volle impedirgli di levarsi dal letto, ma allora mio padre si ribellò. Uscì dal suo stupore, si levò piangendo e bestemmiando ed io ottenni gli fosse lasciata la libertà di moversi com’egli voleva. Egli si quietò subito e ritornò alla sua vita silenziosa e alla sua corsa vana in cerca di sollievo.

Quando il medico ritornò, egli si lasciò esaminare tentando persino di respirare più profondamente come gli si domandava. Poi si rivolse a me:

– Che cosa dice?

Mi abbandonò per un istante, ma ritornò subito a me:

– Quando potrò uscire?

Il dottore incoraggiato da tanta mitezza mi esortò a dirgli che si forzasse di restare più a lungo nel letto. Mio padre ascoltava solo le voci a cui era più abituato, la mia e quelle di Maria e dell’infermiere. Non credevo all’efficacia di quelle raccomandazioni, ma tuttavia le feci mettendo nella mia voce anche un tono di minaccia.

– Sì, sì, – promise mio padre e in quello stesso istante si levò e andò alla poltrona.

Il medico lo guardò e, rassegnato, mormorò:

– Si vede che un mutamento di posizione gli dà un po’ di sollievo.

Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera.

Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all’infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai.

Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.

L’infermiere mi disse:

– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?

Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:

– Muoio!

E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!

Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:

– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!

Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:

– Ti lascerò movere come vorrai.

L’infermiere disse:

– È morto.

Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!

Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.

Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!

Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.

Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo.

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.

Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero – e qui voglio confessarlo – che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta – raramente – non si può fare a meno.

4. LA STORIA DEL MIO MATRIMONIO

Nella mente di un giovine di famiglia borghese il concetto di vita umana s’associa a quello della carriera e nella prima gioventù la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto più in basso. La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell’onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore! M’aspettavo perciò anch’io di divenire e disfarmi come Napoleone e l’onda.

La mia vita non sapeva fornire che una nota sola senz’alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m’invidiano, ma orribilmente tediosa. I miei amici mi conservarono durante tutta la mia vita la stessa stima e credo che neppur io, dacché son giunto all’età della ragione, abbia mutato di molto il concetto che feci di me stesso.

Può perciò essere che l’idea di sposarmi mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell’unica nota. Chi non l’ha ancora sperimentato crede il matrimonio più importante di quanto non sia. La compagna che si sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre natura che questo vuole e che per via diretta non saprebbe dirigerci, perché in allora ai figli non pensiamo affatto, ci dà a credere che dalla moglie risulterà anche un rinnovamento nostro, ciò ch’è un’illusione curiosa non autorizzata da alcun testo. Infatti si vive poi uno accanto all’altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un’invidia per chi a noi è superiore.

Il bello si è che la mia avventura matrimoniale esordì con la conoscenza del mio futuro suocero e con l’amicizia e l’ammirazione che gli dedicai prima che avessi saputo ch’egli era il padre di ragazze da marito. Perciò è evidente che non fu una risoluzione quella che mi fece procedere verso la mèta ch’io ignoravo. Trascurai una fanciulla che per un momento avrei creduto facesse al caso mio e restai attaccato al mio futuro suocero. Mi verrebbe voglia di credere anche nel destino.

Il desiderio di novità che c’era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch’era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l’amicizia. Io ero abbastanza cólto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch’io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io m’incantavo a guardarlo, invidiandolo.

Il Malfenti aveva allora circa cinquant’anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m’attaccai a lui per arricchire.

Ero venuto al Tergesteo per consiglio dell’Olivi che mi diceva sarebbe stato un buon esordio alla mia attività commerciale frequentare la Borsa e che da quel luogo avrei anche potuto procurargli delle utili notizie. M’assisi a quel tavolo al quale troneggiava il mio futuro suocero e di là non mi mossi più, sembrandomi di essere arrivato ad una vera cattedra commerciale, quale la cercavo da tanto tempo.

Egli presto s’accorse della mia ammirazione e vi corrispose con un’amicizia che subito mi parve paterna. Che egli avesse saputo subito come le cose sarebbero andate a finire? Quando, entusiasmato dall’esempio della sua grande attività, una sera dichiarai di voler liberarmi dall’Olivi e dirigere io stesso i miei affari, egli me ne sconsigliò e parve persino allarmato dal mio proposito. Potevo dedicarmi al commercio, ma dovevo tenermi sempre solidamente legato all’Olivi ch’egli conosceva.

Era dispostissimo ad istruirmi, ed anzi annotò di propria mano nel mio libretto tre comandamenti ch’egli riteneva bastassero per far prosperare qualunque ditta: 1. Non occorre saper lavorare, ma chi non sa far lavorare gli altri perisce. 2. Non c’è che un solo grande rimorso, quello di non aver saputo fare il proprio interesse. 3. In affari la teoria è utilissima, ma è adoperabile solo quando l’affare è stato liquidato.

Io so questi e tanti altri teoremi a mente, ma a me non giovarono.

Quando io ammiro qualcuno, tento immediatamente di somigliargli. Copiai anche il Malfenti. Volli essere e mi sentii molto astuto. Una volta anzi sognai d’essere più furbo di lui. Mi pareva di aver scoperto un errore nella sua organizzazione commerciale: volli dirglielo subito per conquistarmi la sua stima. Un giorno al tavolo del Tergesteo l’arrestai quando, discutendo di un affare, stava dando della bestia ad un suo interlocutore. L’avvertii ch’io trovavo ch’egli sbagliava di proclamare con tutti la sua furberia. Il vero furbo, in commercio, secondo me, doveva fare in modo di apparire melenso.

Egli mi derise. La fama di furberia era utilissima. Intanto molti venivano a prender consiglio da lui e gli portavano delle notizie fresche mentre lui dava loro dei consigli utilissimi confermati da un’esperienza raccolta dal Medio Evo in poi. Talvolta egli aveva l’opportunità di aver insieme alle notizie anche la possibilità di vendere delle merci. Infine – e qui si mise ad urlare perché gli parve d’aver trovato finalmente l’argomento che doveva convincermi – per vendere o per comperare vantaggiosamente, tutti si rivolgevano al più furbo. Dal melenso non potevano sperare altro fuorché indurlo a sacrificare ogni suo beneficio, ma la sua merce era sempre più cara di quella del furbo, perché egli era stato già truffato al momento dell’acquisto.

 

Io ero la persona più importante per lui a quel tavolo. Mi confidò suoi segreti commerciali ch’io mai tradii. La sua fiducia era messa benissimo, tant’è vero che poté ingannarmi due volte, quand’ero già divenuto suo genero. La prima volta la sua accortezza mi costò bensì del denaro, ma fu l’Olivi ad esser l’ingannato e perciò io non mi dolsi troppo. L’Olivi m’aveva mandato da lui per averne accortamente delle notizie e le ebbe. Le ebbe tali che non me la perdonò più e quando aprivo la bocca per dargli un’informazione, mi domandava: «Da chi l’avete avuta? Da vostro suocero?». Per difendermi dovetti difendere Giovanni e finii col sentirmi piuttosto l’imbroglione che l’imbrogliato. Un sentimento gradevolissimo.

Ma un’altra volta feci proprio io la parte dell’imbecille, ma neppure allora seppi nutrire del rancore per mio suocero. Egli provocava ora la mia invidia ed ora la mia ilarità. Vedevo nella mia disgrazia l’esatta applicazione dei suoi principii ch’egli giammai m’aveva spiegati tanto bene. Trovò anche il modo di riderne con me, mai confessando di avermi ingannato e asserendo di dover ridere dell’aspetto comico della mia disdetta. Una sola volta egli confessò di avermi giocato quel tiro e ciò fu alle nozze di sua figlia Ada (non con me) dopo di aver bevuto dello sciampagna che turbò quel grosso corpo abbeverato di solito da acqua pura.

Allora egli raccontò il fatto, urlando per vincere l’ilarità che gl’impediva la parola:

– Capita dunque quel decreto! Abbattuto sto facendo il calcolo di quanto mi costi. In quel momento entra mio genero. Mi dichiara che vuol dedicarsi al commercio. «Ecco una bella occasione», gli dico. Egli si precipita sul documento per firmare temendo che l’Olivi potesse arrivare in tempo per impedirglielo e l’affare è fatto. – Poi mi faceva delle grandi lodi: – Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!

Era vero! Se avessi visto quel decreto apparso in luogo poco vistoso dei cinque giornali ch’io giornalmente leggo, non sarei caduto in trappola. Avrei dovuto anche subito intendere quel decreto e vederne le conseguenze ciò che non era tanto facile perché con esso si riduceva il tasso di un dazio per cui la merce di cui si trattava veniva deprezzata.

Il giorno dopo mio suocero smentì le sue confessioni. L’affare in bocca sua riacquistava la fisonomia che aveva avuta prima di quella cena. – Il vino inventa, – diceva egli serenamente e restava acquisito che il decreto in questione era stato pubblicato due giorni dopo la conclusione di quell’affare. Mai egli emise la supposizione che se avessi visto quel decreto avrei potuto fraintenderlo. Io ne fui lusingato, ma non era per gentilezza, ch’egli mi risparmiasse, ma perché pensava che tutti leggendo i giornali ricordino i proprii interessi. Invece io, quando leggo un giornale, mi sento trasformato in opinione pubblica e vedendo la riduzione di un dazio ricordo Cobden e il liberismo. È un pensiero tanto importante che non resta altro posto per ricordare la mia merce.

Una volta però m’avvenne di conquistare la sua ammirazione e proprio per me, come sono e giaccio, ed anzi proprio per le mie qualità peggiori. Possedevamo io e lui da vario tempo delle azioni di una fabbrica di zucchero dalla quale si attendevano miracoli. Invece le azioni ribassavano, tenuemente, ma ogni giorno, e Giovanni, che non intendeva di nuotare contro corrente, si disfece delle sue e mi convinse di vendere le mie. Perfettamente d’accordo, mi proposi di dare quell’ordine di vendita al mio agente e intanto ne presi nota in un libretto che in quel torno di tempo avevo di nuovo istituito. Ma si sa che la tasca non si vede durante il giorno e così per varie sere ebbi la sorpresa di ritrovare nella mia quell’annotazione al momento di coricarmi e troppo tardi perché mi servisse. Una volta gridai dal dispiacere e, per non dover dare troppe spiegazioni a mia moglie le dissi che m’ero morsa la lingua. Un’altra volta, stupito di tanta sbadataggine, mi morsi le mani. «Occhio ai piedi, ora!» disse mia moglie ridendo. Poi non vi furono altri malanni perché vi ero abituato. Guardavo istupidito quel maledetto libretto troppo sottile per farsi percepire durante il giorno con la sua pressione e non ci pensavo più sino alla sera appresso.

Un giorno un improvviso acquazzone mi costrinse di rifugiarmi al Tergesteo. Colà trovai per caso il mio agente il quale mi raccontò che negli ultimi otto giorni il prezzo di quelle azioni s’era quasi raddoppiato.

– Ed io ora vendo! – esclamai trionfalmente.

Corsi da mio suocero il quale già sapeva dell’aumento di prezzo di quelle azioni e si doleva di aver vendute le sue e un po’ meno di avermi indotto a vendere le mie.

– Abbi pazienza! – disse ridendo. – È la prima volta che perdi per aver seguito un mio consiglio.

L’altro affare non era risultato da un suo consiglio ma da una sua proposta ciò che, secondo lui, era molto differente.

Io mi misi a ridere di gusto.

– Ma io non ho mica seguito quel consiglio! – Non mi bastava la fortuna e tentai di farmene un merito. Gli raccontai che le azioni sarebbero state vendute solo la dimane e, assumendo un’aria d’importanza, volli fargli credere che io avessi avuto delle notizie che avevo dimenticato di dargli e che m’avevano indotto a non tener conto del suo consiglio.

Torvo e offeso mi parlò senza guardarmi in faccia. – Quando si ha una mente come la tua non ci si occupa di affari. E quando capita di aver commessa una tale malvagità, non la si confessa. Hai da imparare ancora parecchie cose, tu.

Mi spiacque d’irritarlo. Era tanto più divertente quand’egli danneggiava me. Gli raccontai sinceramente com’erano andate le cose.

– Come vedi è proprio con una mente come la mia che bisogna dedicarsi agli affari.

Subito rabbonito, rise con me:

– Non è un utile quello che ricavi da tale affare; è un indenizzo. Quella tua testa ti costò già tanto, ch’è giusto ti rimborsi di una parte della tua perdita!

Non so perché mi fermai tanto a raccontare dei dissidi ch’ebbi con lui e che sono tanto pochi. Io gli volli veramente bene, tant’è vero che ricercai la sua compagnia ad onta che avesse l’abitudine di urlare per pensare più chiaramente. Il mio timpano sapeva sopportare le sue urla. Se le avesse gridate meno, quelle sue teorie immorali sarebbero state più offensive e, se egli fosse stato educato meglio, la sua forza sarebbe sembrata meno importante. E ad onta ch’io fossi tanto differente da lui, credo ch’egli abbia corrisposto al mio con un affetto simile. Lo saprei con maggiore sicurezza se egli non fosse morto tanto presto. Continuò a darmi assiduamente delle lezioni dopo il mio matrimonio e le condì spesso di urla ed insolenze che io accettavo convinto di meritarle.

Sposai sua figlia. Madre natura misteriosa mi diresse e si vedrà con quale violenza imperativa. Adesso io talvolta scruto le faccie dei miei figliuoli e indago se accanto al mento sottile mio, indizio di debolezza, accanto agli occhi di sogno miei, ch’io loro tramandai, non vi sia in loro almeno qualche tratto della forza brutale del nonno ch’io loro elessi.

E alla tomba di mio suocero io piansi ad onta che anche l’ultimo addio che mi diede non sia stato troppo affettuoso. Dal suo letto di morte mi disse che ammirava la mia sfacciata fortuna che mi permetteva di movermi liberamente mentre lui era crocifisso su quel letto. Io, stupito, gli domandai che cosa gli avessi fatto per fargli desiderare di vedermi malato. Ed egli mi rispose proprio così: